Caro diario

(Racconto di Gian Cesare Marchesi)

Questa sera sono rientrata a casa stanca e depressa. La mamma mi aveva preparato quel pasticcio di soia che solitamente mi piace tanto e quasi non mi sono accorta di mangiarlo. C'è rimasta piuttosto male e mi ha chiesto: «Debora, c'é qualcosa che non va? Come mai sei così immusonita?».

Daniela che, come al solito, vuole sempre metterci del suo, ha maliziosamente aggiunto: «Ma mamma, lo sai, la mia sorellona nemmeno oggi ha potuto rivedere il suo bel Matteo e allora si sta rosolando nella gelosia. Non ha ancora capito che se quello non si fa più vivo da oltre un mese, vuol dire che ha trovato un'altra meno scema della tua cara bambina. Lasciamola stare, domani le sarà passata».

Non ho voluto fornire troppe spiegazioni e adducendo la scusa di una giornata di lavoro snervante e dell'imminente arrivo delle mie mestruazioni, mi sono ritirata presto in camera cercando di prendere sonno.

Niente da fare. Mi sono rivoltata a lungo nel letto, ripercorrendo tutte le tappe della giornata e cercando, ancora una volta, di trovare il bandolo di una matassa che si sta sempre più aggrovigliando attorno a me.

Ora non ne posso più e mi rivolgo come al solito a te, cercando conforto e comprensione.

La giornata, in realtà, si era preannunciata buona, con il sole splendente in un cielo azzurro punteggiato da batuffoli di nuvole bianche che correvano verso il mare. Si stava bene, questa mattina, e il freddo pungente che mi aveva sferzato il viso nelle scorse settimane aveva lasciato il posto a un primo tepore che preannunciava l'arrivo della primavera, dei fiori, della gioia. Pensavo alla prossima estate, alle vacanze da trascorrere in un posto meraviglioso, agli amici, alle nuove sensazioni che avrei provato, all'amore.

Avevo indossato i miei soliti jeans (mi tirano un po' troppo in vita: dovrò stare più attenta e limitarmi nella mia passione per i dolci), il pullover di lana a coste e il giaccone di panno che ho comprato la scorsa settimana. Prima di uscire mi sono guardata per un momento allo specchio e non mi sono vista per nulla male. Finalmente erano anche spariti i noiosi brufuli che mi erano spuntati giorni fa sulla guancia sinistra. Sull'autobus che mi portava al lavoro, mi sentivo osservata e c'è stato addirittura un tizio che ha fatto il gesto di lasciarmi il suo posto a sedere. Ovviamente ho rifiutato, ma mi ha fatto piacere avvertire quel senso di ammirazione che traspariva dai suoi occhi. Tutto sommato, potevo sentirmi felice.

Poi, tutto ha ripreso l'andazzo di sempre.

Dalla vetrata dell'ufficio l'ho visto parcheggiare la sua auto, raccogliere il soprabito dal sedile posteriore e avviarsi verso l'ingresso. Camminava con il suo solito passo deciso, senza tradire quel fondo di infantile insicurezza e di timidezza che so per certo che c'è in lui. I suoi folti capelli bianchi, lambiti dai raggi radenti del sole, risplendevano di mille luci. Fra poco sarebbe entrato e sarebbe cominciata un'altra giornata insieme.

«Buon giorno Debora, come va oggi?», mi ha detto distrattamente. E si è avviato quindi verso il suo ufficio senza neppure ascoltare le mie parole di risposta. Subito dopo lo ha raggiunto la Bianca Tommasini, la sua segretaria, portandogli la posta del mattino e il solito caffé («Mi raccomando, senza zucchero. Sa, la dieta ... altrimenti inciccisco troppo!»).

La Bianca proprio non la sopporto. E' convinta di essere irresistibile e non sa più cosa fare per mettere in mostra ciò che crede essere ancora in lei attraente. Il bello è che gli uomini, quelli, ci cascano quasi sempre. Basta che lei si sieda accavallando le gambe e i loro occhi hanno subito un balenio di morbosa curiosità, trasformandosi in una specie di scandaglio che vorrebbe penetrare sù, sempre più sù, fra le pieghe della gonna e delle calze, per scoprire chissà cosa. E lei insiste, sfoderando un sorriso di malcelata malizia e facendo il gesto pudico di assestarsi meglio l'orlo della gonna. Poi, con un movimento ben studiato del capo fa ondeggiare il suoi lunghi capelli portandone qualche ciocca a coprire parte del viso e a posarsi sulle rotondità (certamente aiutate dal reggiseno) della sua maglietta. Ma sono quasi certa che tutte queste astuzie non lo turbano più di tanto, anche se a me procurano un certo fastidio. C'è infatti una bella differenza: lei (anche se cerca di nasconderlo) ha ormai una quarantina d'anni, mentre io ..... E poi, con quelle sue borse sotto gli occhi!

Qualche minuto dopo la Bianca è ritornata alla sua scrivania e l'ho sentita bofonchiare: «Accidenti a lui, non bastano le dieci lettere che mi ha dettato; devo anche prenotargli i posti a teatro per sabato sera per lui e sua moglie e, per di più, devo anche far mandare un enorme mazzo di fiori a sua cognata che ha appena avuto un marmocchio!». Dopo di che, si è immersa in una lunga conversazione telefonica non si sa bene con quale amica o amico.

A metà mattinata lui mi ha finalmente chiamata nel suo ufficio: «Debora, per favore», mi ha detto attraverso il telefono interno, «venga da me con la pratica Tecnocomp. Dobbiamo fare il punto della situazione».

Ho osservato ancora una volta le sue mani mentre sfogliavano il fascicolo di quel nostro fornitore e mi sono chiesta quali sensazioni mi avrebbero procurato se avessero accarezzato il mio corpo. Le sue dita sono lunghe e affusolate, lievemente ingiallite dal fumo delle sigarette e segnate dalla sua ormai non più giovane età. Dita e mani di una persona che non ha mai svolto lavori rudi, e avvezze a trattare tutto con una certa delicatezza. Dita nervose che si muovono agilmente, come se stessero sfiorando la tastiera di un pianoforte.

Improvvisamente ha sollevato lo guardo dalle carte, accennando un sorriso che ha fatto ancor più risaltare quelle piccole rughe che dipartono dalle estremità laterali dei suoi occhi e mi ha detto: «Che graziosa questa sua maglietta. Lo sa che le sta proprio bene? Come al solito lei è perfetta».

Ho cercato di ricambiare un sorriso che non tradisse alcunché di sconveniente, ma lui ha abbassato subito lo sguardo sulla pratica del nostro fornitore, aggiungendo: «Bisognerebbe che lei telefonasse subito al dottor Marini della Tecnocomp, perché se non ci consegneranno entro dopodomani quella macchina, potrebbero mettere in crisi la nostra linea di produzione. Mi raccomando, cerchi di convincerli. Poi, per favore, mi riferisca. Grazie».

Caro diario, ti ricordi di quell'altra volta, quando ti avevo raccontato dell'ultima neve di primavera? Per tutta la giornata era scesa una fitta coltre immacolata e al termine del lavoro, uscita dall'ufficio, avevo trovato la mia auto ricoperta da un pesante strato di neve. Mi ero messa di buona lena a toglierla, aiutandomi alla bell'e meglio con i guanti, quando lo vidi uscire dalla palazzina. Mi si avvicinò e mi disse, con un sorriso: «Lasci fare a me, Debora, lei si bagna tutta quanta e a causa del freddo potrebbe anche prendersi un malanno. Sarebbe un vero peccato». Poi, con pochi movimenti decisi, tolse tutta la neve dalla mia macchina e infine, con un lieve cenno di saluto, si avviò verso la sua automobile per liberarla anch'essa dalla neve. Me ne tornai a casa felice. Nessun altro dei miei colleghi si era premurato di aiutarmi e, d'altro canto, io non avevo chiesto aiuto a nessuno.

La Tecnocomp, il teatro del sabato sera con la moglie, la mia maglietta a coste inglesi, la segretaria invadente, le dita affusolate, quella benedetta macchina che serve alla fabbrica, le rughe attorno agli occhi, i fiori della cognata, la neve.... Lui non ha capito proprio nulla e io, purtroppo ... non posso farci proprio niente.

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