La casa antica

(Racconto di Gian Cesare Marchesi)

Nella piccola frazione abbarbicata sul culmine di una collina che domina l'intera Pianura Padana, facendo quasi da vedetta al lungo serpeggiare del grande fiume, fra un grappolo di vecchie case che si difendono dalla forte calura estiva o dai gelidi venti invernali tenendosi appoggiate l'una all'altra, c'e la casa dei miei nonni paterni.

Un ingiallito documento notarile ritrovato quasi per caso fra fotografie sbiadite di sconosciuti parenti, libri consunti dall'umidità e conti di casa scarabocchiati con la matita nera su frammenti di fogli di quaderni, testimonia l'acquisto fatto da mio nonno nel 1917 per ben 300 lire, pagate in contanti al venditore, "davanti a me Notaio".

Ma la casa è di epoca molto più antica e la sua struttura composita racconta la lunga storia delle fatiche delle antiche genti di quei luoghi, avvezze a coltivare a vigneto gli scoscesi appezzamenti di terreno strappati ai boschi che per un tempo immemorabile avevano ricoperto quelle colline.

Il nucleo centrale della costruzione si regge su semplici muri di argilla, compressa e mescolata ai materiali più disparati, mentre le parti più moderne sono costituite da mattoni cotti al sole e intercalati, qua e là da qualche pietra, recuperata, non si sa come, da un terreno alluvionale e argilloso che di pietre ne custodisce ben poche.

I soffitti, i pavimenti e le travature del tetto erano di legno; di una qualità e di una fattura povere e certamente ben diverse da quelle che ancora si ritrovano nelle antiche case signorili. Ma nonostante le opere di recente ristrutturazione che l'hanno trasformata in un'accogliente abitazione destinata a saltuari soggiorni di fine settimana, quella dimora rimane e rimarrà per sempre "la casa dei miei nonni", con il suo incommensurabile bagaglio di ricordi dei giorni della mia infanzia, trascorsi durante le vacanze fra quelle pareti antiche.

Nella cucina, cui si accedeva direttamente dalla porta d'ingresso, troneggiava un ampio camino, nel cui interno s'apriva un grande forno per la cottura del pane e per l'essiccagione dei fichi.

Dalla cucina, una seconda porta conduceva in un piccolo vano da cui partivano le scale che portavano ai piani superiori o alla cantina. Su una parete c'era un'asse sulla quale erano posate pentole e tegami di rame di varie misure, mentre da un robusto gancio fissato nel muro pendeva un capace secchio che conteneva l'acqua estratta dal pozzo comune ed utilizzata per tutte le necessità della famiglia. Un mestolo di ferro zincato, appeso con una catenella a un chiodo, permetteva di attingere l'acqua dal secchio e, se del caso, di dissetarsi sul posto.

La cantina costituiva per me un'inesauribile fonte di curiosità. Dalla bigoncia e dalla brenta annerite dal tannino e ancora odoranti di mosto, alle botti di quercia appoggiate su rudimentali sostegni; dalle piccole e grandi attrezzature utilizzate per la vinificazione, ai ganci in ferro infissi nelle travi del soffitto, cui erano stati a lungo appesi per la stagionatura i prodotti della macellazione "domestica" del maiale; dal candeliere ricavato da un tronchetto di legno e da una semplice spirale di ferro, alle pesanti bottiglie di vetro scuro soffiato: tutto aveva per me un fascino che conteneva in sé qualcosa di magico e di misterioso.

Non ho mai conosciuto mio nonno, ma quando da bambino mi avventuravo tutto solo in quella cantina, mi sembrava di vederlo, cosi come mi era apparso in una vecchia fotografia, ormai anziano e incurvato, con i suoi candidi baffoni ripiegati all'insù, ancora indaffarato a "cavare" il vino, ad assaggiarne la gradazione e a "tastare" la maturazione dei salami e dei prosciutti.

E mi subentrava poco dopo un senso di paura, quasi l'angoscia di appartenere anch'io al regno di chi non c'era più.

Allora, scappavo con il cuore che mi batteva forte forte, per ritornare nel cortile e sulla strada a respirare la vita.

Ma quella cantina aveva per me un'attrazione particolare che mi attanagliava e mi invitava ancora a rivisitarla, per poi fuggire di nuovo, con le paure di sempre.

Un'altra fonte d'inesauribile curiosità era la soffitta. Vi si accedeva da una stretta scala dai consunti e ripidi gradini di legno, che si apriva al di là di una porticina, che quasi non si notava, fra un pesante armadio di legno di noce e la testata in ferro di un antico letto che troneggiava maestoso nella camera al primo piano. In quel solaio, coperto da una pesante intravatura che lasciava intravedere caratteristici "coppi" di cotto nei cui interstizi nidificavano i passeri, c'era di tutto. Le sporte e i cavagni in vimini per il trasporto dell'uva, alcune lampade a petrolio ormai fuori uso, un vecchio schioppo a "trombone", arruggunito e con la fiaschetta in corno per la polvere da sparo, piccole botticelle in legno usate dai contadini a mo' di borraccia durante i lavori nei vigneti, vecchi abiti da caccia intrisi di muffa, lettere di sconosciuti e poveri amori, cornici sgangherate che ormai non contenevano altro se non polverose ragnatele.

Un mondo di fantasmi che rivivevano nella mia giovanile immaginazione e che mi parlavano di tempi antichi, di vite vissute, di gioie e di misteri tanto lontani dal mio tempo.

In una consunta cassapanca, fra gli oggetti più curiosi, trovai un giorno una vecchia bandiera con lo stemma di Casa Savoia, un foglio matricolare di congedo illimitato e una medaglia d'argento sostenuta da un nastrino a righe bianche e rosse. La medaglia portava l'effigie di Napoleone III e ricordava le gesta di un mio antenato che aveva combattuto nelle Guerre d'Indipendenza, militando sotto le insegne dei Cavalleggieri d'Aosta.

Un altro fantasma, dunque, che mi teneva compagnia e mi osservava curioso e bonario nel corso delle mie solitarie esplorazioni.

Non permisi mai a nessuno dei miei amici di allora di dividere con me i misteri e il fascino di quella soffitta. Era parte dei miei sogni e delle mie paure e come tale è rimasta a lungo dentro di me.

I locali della casa erano posti su piani tutti differenti fra loro, a testimonianza di una lunga e travagliata storia di aggiunte, di ampliamenti e di modifiche che si perdeva nel tempo. Alcuni gradini, scale o scalette, costruiti in pietra o in legno, permettevano di superare i vari dislivelli.

C'era anche un secondo ampio sottotetto, con due piccole finestre a livello del pavimento, che si affacciavano sul cortile. Un tempo, veniva adibito a diversi usi e nei mesi estivi era rallegrato dai primi raggi del sole che lambivano le assi sconnesse del pavimento, creando curiosi giochi di luce e di ombre. Attraverso le fessure dell'assito, e dalla parete che conteneva la canna fumaria, filtrava il calore del sottostante camino, che così forniva a quel locale un confortevole tepore anche durante i mesi invernali. Al termine della vendemmia, mio nonno riponeva in quel sottotetto, su particolari graticci di vimini lunghi e stretti, i migliori grappoli di uva "verdea" e gustose melagrane, che così conservate costituivano una preziosa riserva di frutta per i mesi invernali e per gran parte della primavera.

Quel sottotetto era anche la mia "stanza dei giochi", dove mi piaceva soffermarmi a costruire piccoli zufoli con le canne palustri che raccoglievo ai margini delle vigne, in prossimità dei fontanili; o dove mi riunivo, nei giorni di pioggia, con i pochi coetanei che vivevano nelle case vicine, per interminabili partite a dama e a "tiramulino". In seguito, ormai da giovane studente, quella stanza era stata promossa al rango di camera-studio, dove nei mesi estivi cercavo di prepararmi al meglio per superare gli esami di riparazione che quasi ogni anno mi venivano, a mio giudizio immeritatamente, affibbiati.

Poi, parecchi anni più tardi, entrarono in quella casa squadre di operai che spazzarono via tutto, trasformando la soffitta e il secondo sottotetto in due eleganti "mansarde", la cantina in una moderna "taverna" e la cucina in un ridente "soggiorno". Il riscaldamento viene ora ottenuto da un apposito impianto alimentato dalla rete comunale del gas; l'acqua potabile sgorga abbondante dove e quando serve, mentre i salumi e il pane fresco possono essere facilmente acquistati in qualsiasi negozio o supermercato della zona.

Ma, ripensando a quella casa, mi sembra ancora di avvertire l'odore del mosto che esalava dalla vecchia bigoncia e il crepitio della brace che usciva dal forno del pane.

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