Le Cascate Vittoria

(Racconto di Gian Cesare Marchesi)

"A truly magnificent sight, and one which brings
home the tremendous glory of the whole mighty work
of Nature, and the comparative insignificance of
Humanity" (P.M. Clarke, 1925)


La mia dannata passione per la cinematografia amatoriale a passo ridotto mi aveva portato, in quella calda domenica di alcuni decenni fa, a percorrere a piedi il breve tratto di “terra di nessuno” che separava la sponda zambiana del fiume Zambesi da quella Sud-rhodesiana, in prossimità delle Victoria Falls.
Lo Zambia (ex Rhodesia del Nord) si era da pochi anni reso indipendente e costituito in Repubblica autonoma, mentre la Rhodesia del Sud (diventata in seguito la Repubblica dello Zimbabwe) era una sorta di blando protettorato britannico, governato da una minoranza “bianca”, detentrice delle principali attività economiche del Paese e fortemente osteggiata da gruppi armati di ribelli che auspicavano la totale cacciata dei coloni bianchi e l’autogoverno dei “neri”.
In ogni caso, e al di là delle difficoltà politiche che gravavano su quel territorio, le Cascate Vittoria rappresentavano pur sempre una delle più affascinanti meraviglie del mondo e per un patito quale io ero delle riprese a 8mm, l’opportunità di filmare per intero quei gioielli dalla natura, non poteva essere ostacolata da nulla.
In quel periodo mi trovavo per lavoro a Lusaka, la capitale dello Zambia, e poiché le famose cascate non distavano che un paio di centinaia di chilometri da quella città, un sabato pomeriggio salii a bordo della Fiat 125 che era stata messa a mia disposizione dalla ditta presso la quale lavoravo, e partii solo soletto per una nuova avventura in terra africana.
In effetti le difficoltà cominciarono quasi subito, perché il tratto di strada che congiungeva Lusaka con la cittadina di Livingstone - posta proprio in prossimità delle cascate, al confine con la Rhodesia del Sud - era pavimentato in un modo per me alquanto insolito e mi obbligava a tenere una condotta di guida ben diversa da quella abituale. Una striscia di asfalto, larga si e no un paio di metri, era stata gettata nel centro della carreggiata, lasciando ai lati due ampie strisce di terra battuta che mostravano le caratteristiche ondulazioni (“corrugation”) prodotte dalle grosse macchine (“graders”) usate per mantenere in esercizio, appunto, quell’importante arteria. Si viaggiava dunque nel centro della strada e quando dall’opposto senso di marcia sopraggiungeva un altro veicolo, dopo un reciproco scambio di segnali luminosi fatti con i fari, ci si spostava ciascuno sulla propria sinistra (da quelle parti la guida era ancora a sinistra, secondo l’uso inglese), ponendo le ruote sul tratto in terra battuta, per poi risalire sulla parte asfaltata una volta che questa fosse stata di nuovo libera e transitabile. Il problema era che la marcia sulla terra battuta doveva essere effettuata a 45-50 chilometri all’ora, perché ad una velocità inferiore o ad una superiore le ondulazioni del terreno avrebbero fatto vibrare tremendamente la vettura, con il rischio di rompere le sospensioni e il resto. Ma non era da meno il fatto che fra il manto asfaltato e la terra battuta c’era sempre un notevole dislivello, per cui i sobbalzi piuttosto violenti erano comunque sempre assicurati. Il tutto, come detto, per un paio di centinaia di chilometri.
Giunsi infine nella cittadina zambiana che ha preso il nome da David Livingstone (scopritore nel 1855 delle cascate, cui diede il nome di “Vittoria” in onore della Regina d’Inghilterra), e dove si può ammirare il monumento posto anche a ricordo dell’incontro fra quell’illustre missionario-esploratore britannico e il suo altrettanto noto collega, sir Henry Morton Stanley, nel corso del quale sarebbe stata pronunciata la famosa frase: “...doctor Livingstone, I suppose”. In quella località presi alloggio all’albergo “Mosi O Tunya” (espressione presa dalla lingua locale e che ha il significato de “il fumo che tuona”, con riferimento al fragore prodotto dalle cascate), un piccolo ma confortevole “resort” costruito dalla catena Intercontinental per ospitare i turisti in visita in quella zona.
La mattina seguente, armato della mia fedele cinepresa Eumig 8 mm, dell’indispensabile esposimetro Sixtomat e dell’altrettanto utile cavalletto con la testa snodata, mi avviai a piedi verso la parte zambiana delle Cascate Vittoria. Indossavo il classico abbigliamento da “uomo bianco”: cappello floscio di cotone a larghe falde, camicia tipo militare e pantaloncini corti di tessuto color kaki, calzettoni bianchi di cotone alti sino al polpaccio e “desert boot” ai piedi. Nelle tasche un paio di pellicole di scorta, il passaporto italiano e le solite cose di tutti i giorni.
Cominciai in assoluta tranquillità le mie riprese amatoriali nel tratto zambiano delle cascate, favorito anche dal fatto che il tempo era splendido e che quel giorno non c’erano in giro molti altri turisti. Lo spettacolo naturale che si era presentato ai miei occhi e dietro l’obiettivo della mia cinepresa era semplicemente meraviglioso. Tuttavia, la conformazione del fiume Zambesi in quel tratto faceva sì che la visuale prospettica delle cascate non fosse per me ancora ottimale e che le migliori inquadrature si potessero realizzare soltanto trasferendosi sull’altra sponda del fiume, in territorio rhodesiano. Per far ciò, occorreva superare la barriera confinaria, transitare su un ponte, percorrere un breve tratto di strada che portava al posto di guardia dei militari rhodesiani, addentrarsi in un lungo sentiero che correva a monte del fiume, per giungere infine alla famosa “Devil’s cataract” (la “cascata del diavolo”), dalla quale si poteva ottenere la più completa visione dell’intero spettacolo. Lo spazio esistente fra le due barriere confinarie, ponte compreso, era allora considerato “terra di nessuno”, per via delle persistenti e latenti ostilità fra lo Zambia (indipendente e “nero”) e il Sud-Rhodesia (gestito dai “bianchi”).
Sempre armato dei miei attrezzi del mestiere, mi avviai quindi verso la Rhodesia, senza essere particolarmente ostacolato dalle guardie confinarie zambiane che si limitarono a chiedermi per quanto tempo mi sarei trattenuto dall’altra parte del fiume, in modo da stabilire se era il caso o meno di mettermi sul passaporto il solito timbro d’uscita dal Paese. Spiegai che me la sarei cavata al massimo in un paio d’ore ed evitai così un ulteriore e superfluo imbrattamento del mio prezioso documento.
Superato senza alcuna difficoltà il ponte che scavalca lo Zambesi, feci qualche passo sul tratto di strada che conduceva al posto di polizia rhodesiana, quando ebbi un improvviso sobbalzo. A pochi metri da me l’asfalto si era infatti inaspettatamente scheggiato a causa di un paio di colpi d’arma da fuoco sparati da una collinetta che sovrastava quel tratto di strada, e che era ricoperta dalle alte erbe tipiche della savana e da radi alberi. Alzando gli occhi verso la parte dalla quale presumibilmente erano partiti quei colpi, intravidi soltanto il fuggi-fuggi di una innocua famiglia di babbuini, che mi fece pensare a un tentativo di qualche maldestro bracconiere di cacciare un possibile animale selvatico che si trovava da quelle parti. Ma capii subito dopo di cosa invece si trattava. I poliziotti rhodesiani, che stazionavano nel posto di frontiera a un paio di centinaia di metri da me, stavano infatti sbracciandosi al di sopra della trincea di sacchetti di sabbia che li proteggeva, urlandomi a pieni polmoni di correre velocemente verso di loro: “run, run… quickly boy, quickly! …rebels! …bandits!”, per evitare che altri colpi centrassero meglio il bersaglio, cioè proprio me. Avendo compreso finalmente il problema, con lo scatto consentitomi dalla mia ancor giovane età di allora, mi riparai il più rapidamente possibile dietro quei provvidenziali sacchetti di sabbia, portandomi ovviamente appresso tutta la mia attrezzatura cinematografica. Qui giunto, però, cominciarono altre difficoltà.
I due poliziotti rhodesiani, un bianco e un nero, vestiti in modo molto simile al mio, tranne che per i fregi e i contrassegni militari cuciti sulle loro divise, mi sottoposero ad un lungo fuoco di fila di domande. “Chi sei; di dove sei; cosa facevi in Zambia; per chi lavori; cosa sei venuto a fare qui; perché non hai il visto d’ingresso sul tuo passaporto; cosa ci fai con quella cinepresa; dove vorresti andare; quanto ti vorresti fermare”, ecc., ecc. Il tutto, senza nascondere una certa ironia nei confronti di uno sprovveduto giovane Italiano che aveva rischiato di farsi ammazzare dai ribelli appostati su quella collina, soltanto per prendere qualche stupida immagine fotografica. Dopo una buona ventina di minuti di discussione, i due gendarmi mi lasciarono proseguire lungo il mio itinerario prefissato, non senza avermi comunque trattenuto il passaporto a titolo, secondo loro, cautelare. Mi avviai dunque lungo il sentiero e giunsi finalmente alla “Devil’s cataract”, dove ebbi subito la conferma della incredibile spettacolarità e della enorme estensione di quel complesso di cascate, certamente unico al mondo. Nulla meglio di una buona ripresa cinematografica avrebbe potuto descrivere quella splendida visione ed io ce la misi proprio tutta per ottenere un buon risultato. Poi, infine, ritornai sui miei passi e mi ripresentai al posto di polizia per ritirare il mio passaporto. Questa volta i due Rhodesiani in divisa furono più gentili di prima e mi dissero di tornare tranquillamente a piedi in Zambia, in quanto dopo i colpi sparati contro di me dai ribelli, una pattuglia della polizia di frontiera aveva fatto una sortita in armi su quella collina, liberandola dagli intrusi.
Me ne tornai quindi a Livingstone senza ulteriori problemi, e di lì a Lusaka, per poi rientrare qualche giorno dopo finalmente in Italia con il mio filmino a 8mm sulle tanto ambite Victoria Falls. Preparai quindi i titoli di testa e di coda, curai personalmente un accurato montaggio, aggiunsi una colonna sonora sovrapponendo al “parlato” alcuni brani di musica folcloristica africana, e per alcuni anni meravigliai parenti ed amici con la proiezione domestica di quel mio piccolo “capolavoro” a passo ridotto.
A distanza di qualche altro anno, scoprii con notevole rammarico che di quel filmato non era rimasto quasi più nulla. Il formato amatoriale in 8mm era scomparso ormai da tempo dalla scena per finire fra le vestigia dell’archeologia tecnologica, ed era quindi diventato difficile procurarsi il materiale per la manutenzione e per la proiezione dei filmati, ma cosa ancora più triste fu il constatare che i colori delle pellicole da me usate erano quasi completamente scomparsi, lasciando una specie di tratto nebuloso in quelle che all’origine erano le nitide immagini di un meraviglioso spettacolo della natura.
Anche nel caso di quel piccolo filmato valeva dunque la massima: “Et sic transeat gloria mundi”, riferito in particolare a una gloria che stava comunque per scomparire già sul nascere, a causa dell’incoscienza di un tale che avrebbe potuto non essere qui ora a raccontare la sua piccola avventura.

Nota:
Le cascate presentano un fronte di circa 2 chilometri (vedere immagine allegata), con un salto di oltre 100 metri e con una portata d’acqua che, nella stagione delle piogge, è pari a 546 milioni di metri cubi al secondo. Il fiume Zambesi si presenta ampio e tranquillo sino all’inizio delle rapide, dopo di che le sue acque, precipitando rovinose sulla roccia basaltica, lo trasformano in una sorta di torrente impetuoso.

23 settembre 2002

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