La fine del "delfino"

o, anche, "Sulla costruzione di un racconto"

(Racconto di Gian Cesare Marchesi)

Accanto a me, sul pavimento, c'è un grande contenitore forse quadrato e dalle pareti invisibili, pieno di parole. Sostantivi, aggettivi, verbi e avverbi, articoli, congiunzioni: tutti dentro alla rinfusa, senza una logica definita, come granelli di sabbia sfuggiti dal piccolo pugno di un bambino e caduti nel suo secchiello rosso appoggiato sull'arenile.

Affondo, senza guardare, una mano nel contenitore e la lascio scendere facendola quasi sommergere dalle parole. Poi, con piccoli movimenti delle dita, delicatamente afferro una parola qualsiasi, la estraggo e la pongo davanti a me. La guardo e la riconosco: è la parola "delfino". Una delle tante che stavano là, in attesa di qualcosa, o di qualcuno che se ne potesse interessare. Si materializzano allora nella mia mente delle immagini reali; quasi una sequenza ininterrotta di brevi fotogrammi: un paesaggio marino, l'azzurro del cielo, un guizzo dell'animale fuor d'acqua, una spiaggia in lontananza, un'estate gioiosa, una camera d'albergo, il volto di una persona intravista di sfuggita, un treno che corre sui binari.

L'insieme di vocali e di consonanti che formano quella parola è già diventato qualcosa di meglio definito, che sveglia i ricordi e alimenta la fantasia. Quel "delfino" ha fatto scattare dentro di me un complesso meccanismo di sensazioni, di immagini, di suoni e di sapori che possono restare intimamente legati alla parola stessa, costruendo ed ampliando un pensiero ben definito, o che possono vagare molto più in là, lasciando gradualmente per strada il vocabolo originario e sostituendolo con altri, con nuove sensazioni, con differenti immagini. E' come se la prima parola, pescata a caso nel contenitore, vi fosse poi ritornata per confondersi nuovamente con le compagne; mentre altre escono ora spontaneamente, per allinearsi sempre più velocemente davanti alla mia fantasia in un modo più o meno ordinato e con un senso più o meno compiuto.

Devo cercare di rallentare il flusso ormai incontrollato delle parole, per metterci un poco di ordine. Alcune non mi servono o cercano di deviare il senso del mio pensiero e devo quindi rimandarle da dove venivano, mentre me ne mancano altre che potrebbero completare meglio un'immagine, una frase, un ricordo.

Allora ritorno al mio contenitore, questa volta guardandoci dentro meglio, spostando e rispostando le parole, prendendole e lasciandole, scegliendole e accostandole alle altre già scelte, in un certosino lavoro di cesello e di incastro che deve raggiungere il risultato di rappresentare al meglio ciò che la mia fantasia, inizialmente solleticata dalla parola "delfino", aveva successivamente sviluppato ed elaborato.

Vocabolo dopo vocabolo, frase dopo frase, si forma così una sequenza rappresentativa di pensieri e di immagini che vorrebbero raccontare qualcosa, vero o fantasioso che sia; in cui il povero "delfino" non c'entra ormai più nulla. La ricerca diventa alla fine un gioco, nel quale il desiderio della mia mente e la capacità di trovare nel contenitore ciò che meglio la soddisfa si affrontano in una sorta di sfida, alla fine della quale c'é il premio di una costruzione che, tuttavia, può non soddisfare mai completamente. Guardo e riguardo il mosaico di parole messe insieme con tanta cura e mi chiedo, infatti, se il loro abbinamento, la loro sequenza, la loro comunanza, abbiano raggiunto un livello di soddisfacente equilibrio.

Il contenitore è sempre lì che incombe sul pavimento, con il suo enorme bagaglio di parole che ancora attendono di essere usate. Lo guardo un'altra volta. Poi, osservo nuovamente la serie di frasi che ho davanti a me e mi sembra che quella supposta perfezione possa in effetti non essere più tale. Forse, là dentro il contenitore, in quell'immenso insieme di vocali e di consonanti legate fra loro da una perfetta (ho cercato ora nel contenitore il vocabolo giusto e ne ho fortunatamente trovato uno che potrebbe andare bene) assonanza, c'é qualche altra parola che possa rendere ancor meglio il mio pensiero, che possa armonizzare in modo più completo ciò che vorrei esprimere. Allora, affidandomi al caso, affondo di nuovo la mano nel contenitore e cerco ancora; nella speranza che ne possa uscire qualcosa in grado di sciogliermi gli ultimi dubbi sulla costruzione del racconto.

Quasi alla fine del gioco, la raffigurazione grafica del mio pensiero è lì davanti a me: come l'aveva gradualmente formulata la mia mente e come avrei voluto che fosse. Ma, ora, cosa ne faccio? Si è trattato, in realtà, di una mia personale costruzione, di una raffigurazione che apparentemente soddisfa il mio desiderio ma che - forse - si è anche assoggettata a qualche compromesso pur di giungere alla esposizione di qualcosa di compiuto. Occorre quindi tentare una verifica sperimentale, per stabilire se la traduzione del pensiero, così come costruita, nell'eventualità possa essere correttamente interpretata anche da altri. Ad esempio, quella parola, in quel punto, fra quelle altre, aveva per me un significato ben preciso o - meglio - intendeva esprimere un concetto ben chiaro nella mia mente; ma letta da altri individui, cosa potrebbe significare e cosa potrebbe rappresentare, assieme a quelle che la precedono o che la seguono? Quale potrebbe essere l'interpretazione di chi non avesse ripercorso, a monte, il mio stesso cammino logico o fantastico? Il contenitore è sempre lì sul pavimento, ma lui solo non mi può aiutare a trovare una risposta a questi miei nuovi interrogativi.

Si rende quindi necessario un altro sforzo di fantasia, per visualizzare altre immagini: quelle di miei noti o sconosciuti consimili che oggi, domani o chissà quando, potrebbero forse trovarsi di fronte agli occhi la frase o il racconto che sono stati testé costruiti. E devo anche cercare di definire "cosa", in tal caso, vorrei far loro intendere. Il problema allora si amplia, nel tentativo di rendere di più comune e, in un certo senso, universale significato, ciò che era inizialmente nata come un'espressione del tutto soggettiva.

Se quanto pescato dal contenitore, scelto e ordinatamente allineato, poteva soddisfarmi, deve ora essere nuovamente suddiviso nelle sue singole componenti ed io dovrò cercare di capire se "quella" parola, in "quella" frase, o addirittura "quella" intera frase, non possano dare adito a differenti interpretazioni e non possano a loro volta riprodurre nella mente del lettore immagini, sensazioni o ricordi del tutto differenti da quelli che avrei voluto far nascere.

E il gioco allora continua, raccogliendo e scartando nuove parole, spostando e rispostando frasi, allungando o accorciando il discorso, togliendo i vocaboli superflui, soppesando gli aggettivi e gli avverbi, spezzando le frasi, rivedendo la punteggiatura; in un sottile esercizio che non si limita più a rappresentare soltanto ciò che avevo inizialmente costruito e che si era già abbastanza bene delineato al suo interno, ma che si allarga in uno sforzo di ulteriore immaginazione, nell'ambiziosa e spesso irrealizzabile speranza di riuscire a penetrare nella mente e nella fantasia del possibile lettore.

Si scopre così che in quel contenitore c'è veramente di tutto e che vi si può estrarre ciò che si vuole per comporre infinite sequenze di concetti e di immagini. Parole in grado di costruire frasi che possono divertire o che possono irritare; che possono rendere incomprensibile il pensiero o che lo possono rendere scorrevole e chiaro; che possono "dire" o "non dire"; che possono interessare od annoiare. Parole buone per tutte le stagioni e per tutte le circostanze; parole vuote e parole dense di significati; espressioni dolci o volgari; parole che si fondono con i sentimenti più profondi del cuore o che si adattano alle più ambigue mire utilitaristiche; parole, parole, parole che escono a frotte da quel contenitore per mille possibili costruzioni, per mille ipotetiche destinazioni, per mille differenti interpretazioni.

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