La gavetta

(Racconto di Gian Cesare Marchesi)

Diciotto anni, un buon diploma ottenuto con un anno d'anticipo e un gran bisogno di cominciare a guadagnare il necessario per vivere. Fu con questo viatico che, giunto a Milano dalla provincia con il primo treno del mattino, mi presentai puntuale all'ingresso riservato ai dipendenti della banca, per iniziare la mia attività lavorativa.

Era il 2 novembre 1955, il giorno in cui la Chiesa commemora i defunti e, quindi, una data che già di per sé stessa non invogliava a un grande ottimismo. Avrei forse potuto accampare un imprevisto e improrogabile impegno e chiedere alla direzione del Personale di procrastinare di un giorno la mia entrata in servizio, ma il timore di mettere una qualsiasi nota sul mio "cartellino" prima ancora di avere cominciato a timbrarlo, mi sembrava eccessivamente rischioso, e così mi presentai puntuale all'appuntamento.

La sede milanese del Credito Italiano occupava già allora l'intero isolato compreso fra via Tommaso Grossi, via San Protaso e via Porrone, in un'accozzaglia di fabbricati acquisiti nel tempo dalla banca per esigenze di spazio e che avevano come punto di riferimento ufficiale la maestosa facciata neo-classica che tuttora si affaccia sulla prestigiosa Piazza Cordusio.

Un cortese e compunto incaricato dell'ufficio del Personale, guidandomi lungo un vero e proprio percorso di guerra fra scale scalette e tortuosi corridoi, mi accompagnò al mio posto di lavoro, nell'ufficio Portafoglio Incassi Italia. Qui giunti, fui affidato alle cure del locale capo-ufficio e rapidamente presentato "alla voce" ai colleghi. Subito dopo mi fu assegnata la "mia" prima scrivania di lavoro.

L'ufficio occupava un grande stanzone al quinto piano di quello che una volta era conosciuto come l'"Albergo degli Angeli", un antico e famoso hotel che nel periodo bellico aveva anche ospitato il comando cittadino della Gestapo e che a Liberazione avvenuta era stato riadattato dalla banca per ospitare alcuni suoi uffici. Dalle sue finestre si poteva osservare il tetto della Galleria Vittorio Emanuele e, appena dietro, le più alte guglie del Duomo, con la Madonnina là in cima, posta quasi a proteggere anche i sogni e i timori dei più giovani "ragionatt de banca".

Compresi, qualche tempo dopo, che quello era considerato uno degli uffici meno prestigiosi di tutta la banca o, come si diceva molto più semplicemente, un ufficio-fogna, nel quale venivano solitamente trasferiti i dipendenti meno apprezzati. Io ero del tutto nuovo, per cui non potevo avere precedenti che giustificassero una simile assegnazione, ma non avevo neppure alcun "santo in Paradiso" che potesse favorirmi in un avvio più promettente.

In quello stanzone ci lavoravano una cinquantina di persone, producendo un frastuono indiavolato con il costante martellio su vecchie calcolatrici meccaniche Underwood, con l'uso di pesanti timbri metallici usati per il protocollo delle cambiali e con un vocio continuo del quale non capii inizialmente il motivo.

Un collega si premurò subito di impartirmi una sorta di training iniziale.

L'ufficio Portafoglio Incassi Italia aveva il compito di ricevere da tutti gli sportelli che facevano capo alle sede milanese, le cambiali che la clientela presentava per l'incasso su "piazze" nazionali. Si trattava di una massa enorme di titoli di credito che giornalmente giungevano all'ufficio e che dovevano, prima, passare ad un controllo aritmetico che appurasse la correttezza degli importi indicati nelle "distinte" dei clienti; quindi, essere "protocollati" con un timbro della banca che metteva in evidenza la data e un numero progressivo; infine, andavano "smistati" a seconda del "corrispondente" al quale sarebbe stato affidato l'incarico dell'incasso vero e proprio.

Il collega depose sulla mia scrivania un tappetino di gomma nera, un pesante timbro metallico e un pacco di un centinaio di cambiali.

"Ora metti il timbro su ciascuna cambiale, facendo bene attenzione che la data e il numero di protocollo siano ben visibili."

Io presi una cambiale dal mucchio, la deposi sul tappetino di gomma, ci appoggiai sopra il timbro e con una pressione abbastanza energica piazzai l'impronta nel bel mezzo del foglio. Poi, presi dal mucchio una seconda cambiale e ripetei l'operazione. E così per altre tre o quattro volte.

A quel punto mi accorsi che attorno a me si era fatto uno strano silenzio. Alzai il capo e mi accorsi che tre o quattro miei vicini di scrivania mi stavano osservando con un misto di divertimento e di compatimento.

"C'è qualcosa che non va? Non ho fatto le cose per bene?", chiesi con timore al mio collega-insegnante.

"Certo che non va bene. Se vai avanti così, questa sera non avrai nemmeno finito di timbrare questo pacco e, per di più, avrai un braccio del tutto fuori combattimento. Ma, dimmi un po', a scuola non ti hanno insegnato niente?"

In effetti, benché all'esame di Stato avessi ottenuto pochi mesi prima il voto più alto di tutta la scuola in "Tecnica bancaria", nessuno mi aveva mai insegnato come si sarebbero dovute timbrare le cambiali. Risposi quindi con un riverente:

"No, mi dispiace. Ma se mi volete spiegare meglioÉ"

"Allora, ragazzo mio, stai bene attento a quello che ti dico. Prima di tutto smazzetti bene il pacco di cambiali, in modo che formino una specie di piccola scaletta dalla quale tu possa prendere fra le dita un foglio alla volta. Poi, sistemi il tuo gomito sinistro ben fermo sulla scrivania; con il polso della mano sinistra tieni fermo il pacco di cambiali e con il pollice e l'indice sollevi una cambiale per volta quel tanto che basta per lasciare il posto all'impronta del timbro. Tieni il gomito destro anche lui ben appoggiato sulla scrivania e mantieni sollevato il timbro, in modo che si trovi nella posizione giusta per mettere l'impronta. Poi, sincronizzi i movimenti, sollevi una cambiale e timbri, sollevi una seconda cambiale e timbri, e così via. Vedrai che poco a poco acquisterai una certa velocità eÉ non ti stancherai troppo."

Il collega completò la lezione teorica con un esempio pratico e quindi si ritrasse dietro di me per verificare il mio apprendimento della lezione. In realtà non mi fu facile acquisire rapidamente le nuove nozioni, ma nel volgere di qualche giorno divenni uno dei più veloci timbratori dell'intero Portafoglio Incassi Italia.

Un paio di settimane più tardi, quando ormai il mio avambraccio destro aveva assunto un aspetto che avrebbe suscitato l'invidia di un tennista "testa di serie", feci un passetto avanti nella carriera e passai al controllo dei valori delle distinte.

Un altro volonteroso collega, in procinto di essere trasferito ad altro incarico, mi rese disponibile la sua scrivania e mi disse che avrei dovuto sommare con la calcolatrice tutte le cambiali contenute in ciascuna distinta e verificare che le somme corrispondessero. Mi misi subito all'opera, sotto il vigile controllo del collega che dopo qualche minuto mi interruppe chiedendomi:

"Ma scusa, a scuola non ti hanno mai insegnato come si usa una calcolatrice? Se vai avanti così, cercando disperatamente con un solo dito i tasti giusti, questa sera sarai ancora alle prese con questa unica distinta."

Ancora una volta mi dovetti scusare con il collega per la mia evidente impreparazione teorico-pratica e accettai di buon grado di sottopormi a un breve corso d'apprendimento della cosiddetta digitazione cieca, che si sarebbe tenuto per una intera settimana in un altro ufficio della banca, beninteso dopo l'orario d'ufficio. In breve tempo divenni quindi anch'io velocissimo. Con le dita della mano sinistra sfogliavo il pacco delle cambiali; con gli occhi osservavo l'importo del titolo e con le dita della mano destra digitavo i numeri senza guardare mai la tastiera. E ben difficilmente mi capitava di sbagliare. Tenendo inoltre presente che si operava a quel tempo ancora con rumorose calcolatrici meccaniche che richiedevano, dopo la digitazione dei numeri, un colpo di manovella per sommare gli importi.

Il lavoro che stavo svolgendo non era dunque per nulla edificante e certamente lasciava un forte amaro in bocca nel momento in cui ritornavano alla mente le tante materie economiche, giuridiche, statistiche e tecniche in genere, studiate nei lunghi anni della scuola.

Della banca avevo prima un'immagine completamente diversa, che mi ero fatta osservando &endash; dalla parte dei clienti &endash; l'attività che si svolgeva agli sportelli. Mai più avrei potuto immaginare che dietro la facciata esposta al pubblico ci fossero anche tanti tapini che si guadagnavano lo stipendio timbrando pacchi di cambiali o riempiendo di numeri metri e metri di strisce delle calcolatrici.

Fortunatamente nell'ufficio nel quale ero capitato c'era un gruppetto di colleghi simpatici con i quali non ci misi molto a familiarizzare, anche se erano parecchio "più grandi" di me. Mi dicevano che in quell'ufficio aveva lavorato sino a pochi anni prima anche Walter Annichiarico, meglio conosciuto col nome d'arte di Walter Chiari. Lui aveva poi lasciato la banca per dedicarsi interamente allo spettacolo, ma durante gli anni trascorsi in quell'ufficio ne aveva combinate - da solo o in compagnia di altri colleghi - di cotte e di crude, inventando continuamente scherzi e goliardate che erano diventate una sorta di consolidato copione per tutto l'ufficio. Una delle principali attività ludiche era comunque il "tiro dell'elastico". Poiché neppure questo importante esercizio mi era stato insegnato a scuola, i colleghi si fecero presto premura di sopperire alla bisogna.

"Se vuoi centrare bene il bersaglio", mi spiegò l'istruttore di turno, "devi innanzi tutto concentrarti bene. Poi poni un elastico sui polpastrelli divaricati dell'indice e del medio della mano sinistra. Afferri con il pollice e l'indice della mano destra, nel centro, le due parti dell'elastico; tiri, prendi la mira e É molli. L'elastico allora parte in diretta e va sul bersaglio. Ma stai bene attento, perché se operi male, ti dai delle terribili elasticate sulle dita o, addirittura, ti tiri l'elastico negli occhi."

I bersagli erano costituiti ogni volta dalle cose più disparate: una lattina vuota di aranciata, il cranio pelato di un collega un tantinello assopito nel dopo-pasto, una sigaretta che penzolava dalle labbra di un altro collega, o il calendario da tavolo posto sulla scrivania del capo-ufficio. In breve tempo divenni uno dei migliori "tiratori" dell'ufficio e riuscii quasi sempre a farla franca, nonostante i periodici controlli a tradimento perpetrati dall'inflessibile e sempre compito capo-ufficio. Nonostante la mia bravura e i vari tentativi, non riuscii comunque mai ad eguagliare il famoso Maestro de i "Ricordi di scuola" di Giovanni Mosca, che aveva centrato in un sol colpo un moscone che passeggiava sul vetro di una finestra alquanto lontana.

Se nell'ufficio Portafoglio Incassi Italia c'era sempre una certa abbondanza di proiettili (chiedo scusa, di elastici), non altrettanto si poteva dire delle penne a sfera che pure costituivano uno dei principali strumenti del nostro lavoro quotidiano. Le "biro" in uso nella banca erano ancora del tipo in plastica trasparente, con il refill avvitato in punta. Al mio arrivo nell'ufficio, il "capo" mi consegnò con sussiego la "mia" biro, raccomandandomi di non perderla o di non farmela "soffiare" da qualche collega. Capii più tardi che quello strumento era considerato prezioso e che una volta esaurita la sua carica, non lo si doveva gettare via, bensì occorreva sfilarne il refill vuoto e mostrarlo al capo-ufficio, il quale controllava che effettivamente non contenesse più inchiostro. Quindi apriva con la chiave un cassetto della sua scrivania, prendeva un refill nuovo e lo consegnava al richiedente con uno sguardo pieno di tacite ma non da meno comprensibili raccomandazioni. Erano gli anni '50 e il consumismo non era ancora esploso in tutta la sua veemenza.

Trascorsi in quell'ufficio i primi due anni della mia attività lavorativa e percorsi tutti i vari passaggi di "carriera" concessi ai semplici impiegati. Dopo di aver timbrato e sommato cambiali per circa un anno, fui trasferito al reparto "smistamento", che era considerato al vertice del servizio. Si trattava di smistare le cambiali in una sorta di enorme casellario di legno fissato lungo una parete dell'ufficio, dove ad ogni casella faceva da riferimento un "corrispondente" al quale andavano inviate le cambiali per il relativo incasso. "Il corrispondente" era, in via prioritaria e qualora fisicamente esistente su quella specifica piazza, una filiale della stessa banca; oppure una banca "amica" o, in ultima analisi e in mancanza di un qualsiasi sportello bancario, il locale Ufficio Postale. Chiaramente lo smistamento di cambiali incassabili a Roma, Napoli, Caltanisetta, Bolzano, ecc., era molto semplice, mentre diventava più complesso per quelle piccole "piazze", perdute magari sulle Alpi o sugli Appennini, dove a quel tempo non esisteva altro se non un modestissimo Ufficio Postale.

Il reparto si era comunque adeguatamente attrezzato e i colleghi che si avvicendavano al casellario conoscevano a menadito quasi tutti i nomi dei Comuni d'Italia, nonché la loro posizione vis-à-vis delle possibilità d'incasso delle cambiali. Rimanevano tuttavia sempre alcuni vuoti e quando un collega non sapeva dove fosse un certo paesino o quale fosse il "corrispondente" designato, pronunciava ad alta voce il nome di quella piazza, in modo che altri colleghi lo potessero aiutare facendo appello alle loro dirette conoscenze.

"Sanluri!?", si sentiva chiedere da una voce,

"Cagliari, postale", rispondeva un'altra.

"Merate!?", chiedeva allora un altro collega,

"Como, filiale", rispondevano in coro altri due.

E così via, in un enorme frastuono che si sommava a quello dei timbri e delle calcolatrici. Anche in questo nuovo incarico non ci misi molto tempo per acquisire la necessaria esperienza e ancora oggi non riesco a non collegare nessun nome di qualche piccolo comune italiano con la relativa provincia. Mi mettono in crisi le nuove province, tipo Verbania-Ossola, Rimini, Vibo Valentia, ecc., create dopo i miei trascorsi bancari.

Con l'esperienza compresi anche che per uscire da quella sorta di inferno in cui ero stato assegnato, avrei necessariamente dovuto fare qualcosa contrario ai miei principi etici. Fu così che dopo di essermi comportato per quasi due anni come un impiegato modello, cominciai a fare il lavativo. Mi veniva assegnato un pacco di cambiali da timbrare, da sommare o da smistare? Ebbene, tiravo in lungo più che potevo; accampavo frequenti bisogni corporei che mi facevano allontanare temporaneamente dall'ufficio; mi facevo cogliere dal capo-ufficio in orario di lavoro mentre preparavo in sordina l'esame universitario di Storia economica; sbagliavo intenzionalmente qualche bersaglio nel tiro dell'elastico, ecc. Per farla breve, ricevetti nel giro di pochi mesi due ammonizioni verbali da parte del capo-ufficio, seguite da una terza ancora più severa da parte di un funzionario dell'ufficio del Personale e, alla fine, fui trasferito, per punizione, dove avevo aspirato da tempo di andare: allo sportello in un'agenzia di città. Capii così finalmente che per fare carriera occorreva essere un tantinello meno zelanti e che un pizzico di sfacciataggine in certi ambienti non guasta mai. Comunque dopo sette anni lasciai definitivamente la banca e mi avventurai in altri campi lavorativi.

Mi è rimasto un simpatico ricordo di quegli anni e soprattutto della soddisfazione che mi procurava il ricevere puntualmente il 27 di ogni mese una busta contenente ben 48.100 lire di stipendio, al netto delle trattenute e delle imposte di legge.

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