Il collettore dei gettoni

(Racconto di Gian Cesare Marchesi)

E così, ora sono rimasto senza lavoro. O meglio, sono rimasto in "mobilità", nel senso che prima mi muovevo molto per svolgere il mio lavoro, mentre adesso potrei ancora muovermi, ma non saprei dove andare, se non in corteo assieme ai miei ex-colleghi per protestare contro qualcosa o contro qualcuno, o in giro a zonzo per la città, tanto per far passare il tempo.

"Ma come mai, cosa ti è successo?", mi chiederai certamente, perché so che sei una persona gentile e anche un poco curiosa.

Ebbene, se hai un poco di pazienza, te lo spiego subito. Tre giorni fa ho ricevuto una lettera raccomandata dalla direzione del personale che mi diceva, più o meno, che "...siccome, ecc., ecc., dato che il servizio al quale lei era preposto è stato abolito, ecc., ecc., ci troviamo costretti a metterla in mobilità, ecc., ecc.". Il che significa che per qualche mese ancora avrò un certo sussidio e poi... non so bene cosa mi capiterà. E' probabile che un giorno o l'altro io debba andare a dormire sotto i ponti, ma non so ancora.

Il fatto è che io esercitavo un mestiere ben strano.

"Quale?", mi starai forse chiedendo.

Ebbene, io svolgevo lo stesso lavoro che faceva mio padre: il collettore di gettoni telefonici. Ma prima che tu mi chieda cosa significasse fare il collettore di gettoni telefonici, devo fare un piccolo riassunto della storia passata.

Forse in quegli anni tu non eri ancora nato, ma un tempo i telefoni erano soltanto di due tipi: quelli ad uso privato e quelli pubblici.

Quelli privati stavano nelle abitazioni o nelle ditte, erano di tutte le fogge e di tutti i colori: bianchi, neri, beige, ecc., e non avevano gettoni, perché il servizio veniva corrisposto periodicamente alla Stipel, tramite un bollettino che si pagava all'Ufficio Postale.

"Cos'era la Stipel?", mi chiedi, tanto per interrompermi sempre?

La Stipel era la società che gestiva i servizi telefonici; quella dove lavorava da giovane anche la mia povera mamma, passando otto ore al giorno con una cuffia d'ascolto in testa e un microfono grande così davanti, a togliere e rimettere un numero incredibile di spinotti in una parete piena di buchi.

Ma lasciami proseguire.

C'erano, come ti dicevo, anche i telefoni pubblici. Di solito stavano appesi alle pareti nelle stazioni ferroviarie o nei bar, oppure dentro curiose cabine che troneggiavano sui marciapiedi delle strade cittadine. Non erano belle come quelle tutte rosse che si vedevano nelle strade di Londra, ma avevano anch'esse un loro fascino.

Quando invece entravi in un bar per telefonare ed avevi bisogno del gettone, il barista ti guardava sempre storto e se non gli ordinavi, che ne so, anche un caffè o una brioche, ti diceva che i gettoni li aveva esauriti.

Comunque, potevi vedere anche da lontano dove c'era un telefono pubblico, perché era sempre segnalato da una grossa insegna tonda tonda che raffigurava il famoso "disco". Si, perché allora non si parlava ancora di tastiere digitali e per comporre un numero telefonico dovevi infilare la punta di un dito dentro i buchi del "disco" in corrispondenza di uno dei dieci numeri, muoverlo in senso orario sino alla sua fermata, e ripetere l'operazione per tutti i numeri che ti servivano.

"Non mi sono spiegato bene?", mi stai dicendo?

E va bene, se verrai un giorno a casa mia ti farò vedere com'era fatto uno di quei telefoni a disco.

Dunque, cerco di venire al punto.

I telefoni pubblici funzionavano soltanto a gettone. In pratica, tu entravi in un bar o in una cabina, mettevi un gettone nell'apposita fessura del telefono, formavi il numero desiderato e parlavi con chi ti pareva. Il gettone cadeva quindi in una specie di sacca che stava dentro l'apparecchio e ogni due giorni i "collettori" passavano a raccoglierli per portarli quindi alla Stipel. Tutto qui.

All'inizio, secondo quanto mi raccontava mio padre, le cose erano abbastanza semplici: la gente telefonava, i gettoni cadevano nelle sacche, il "collettore" li metteva in un contenitore più grande e li portava quindi in sede. Sì, non c'erano molti controlli e la cosa era basata molto sulla fiducia e sull'onestà delle persone. Se un "collettore" avesse voluto cercare di truffare l'azienda, avrebbe potuto trattenere per sé un certo numero di gettoni e rivenderseli poi per suo conto, ma ogni telefono aveva anche un suo contatore, Nel momento in cui venivano prelevati i gettoni, si doveva trascrivere su una specie di scheda il numero degli scatti segnati dal contatore di ogni cabina, per cui a tanti scatti dovevano corrispondere tanti gettoni. Volendo, i funzionari dell'azienda potevano verificare in qualsiasi momento la corrispondenza con i gettoni consegnati e c'erano quindi poche possibilità di sfuggire ad eventuali controlli.

O meglio, c'erano state sino ad un certo momento. Ricordo che quand'ero bambino, i furti principali non riguardavano tanto i gettoni, quanto le cornette telefoniche - che allora erano religiosamente nere - tant'è che ad un certo momento fu incisa su ogni cornetta una scritta bianca che diceva: "Rubata alla Stipel". Cosa se ne facessero poi i ladri delle sole cornette, non l'ho mai capito, ma lasciamo perdere.

Allora, ti dicevo, "fino ad un certo momento", perché non trascorse molto tempo che qualche astuto individuo inventò il sistema del filo.

"Di cosa si trattava?", mi chiedi?

Semplice: veniva saldato sul bordo di un qualsiasi gettone "regolare" un sottile filo metallico di circa mezzo metro e, con quello, si stava bene attenti a recuperare il gettone prima che alla fine della conversazione cadesse definitivamente nella famosa sacca. Un gettone serviva quindi per un numero infinito di chiamate e mi si dice che ci fossero anche dei signori che si appostavano con il loro aggeggio fuori delle cabine in attesa di "clienti". "Vendevano" una chiamata a metà prezzo e così rimediavano la loro giornata. Alla fine, il contatore segnava tutte le telefonate ma il "collettore" non trovava i corrispondenti gettoni da riportare alla Stipel. Ed erano sempre discussioni a non finire con i funzionari dell'azienda, con trattenute sullo stipendio del povero "collettore".

Più tardi, la truffa "del filo" divenne ancora più frequente e le conseguenti proteste dei "collettori" ancora più vibrate; per cui la Stipel inventò la cassetta sigillata.

Anziché cadere nella sacca, i gettoni cominciarono a cadere in una piccola cassetta metallica chiusa ermeticamente e conservata all'interno dell'apparecchio.

Non puoi immaginare quale disturbo, e che danno, per noi "collettori"! Al mattino partivamo dalla sede con un tot di cassette vuote che pesavano un accidente e che venivano messe al posto di quelle piene di gettoni che dovevamo riportare alla Stipel. Partivi quindi con un certo peso e ritornavi in sede sul finire della giornata con un peso doppio. Ma quelle cassette potevano essere aperte soltanto dai funzionari della società dei telefoni e così i piccoli prelievi fatti di nascosto da noi "collettori" - qualche rara volta succedeva - cessarono di botto. Ma non era ancora finita.

Ad un certo momento ci fu uno sviluppo rapido della tecnologia e fu scoperto il modo di fare funzionare i telefoni pubblici anche con le comuni monete metalliche. O meglio, ci si provò, perché la cosa non fu certamente facile.

Devi sapere che mentre nella confinante Svizzera le monete metalliche sono sempre quelle, sin dai tempi di Guglielmo Tell, e un pezzo da dieci o da venti centesimi di franco ha sempre lo stesso disegno, la stessa dimensione e lo stesso peso, qui da noi le monete metalliche hanno avuto più o meno la stessa vita breve dei nostri beneamati Governi. Negli ultimi 40 anni le monete da 100 lire, ad esempio, hanno cambiato dimensione almeno quattro o cinque volte: grandi, medie, piccole o quasi invisibili. Per la gioia dei collezionisti e per la disperazione dei vecchietti, che per andare a fare la spesa, o dovevano portarsi dietro dei pesi insopportabili, o dovevano ricorrere al microscopio per leggere il valore dei singoli pezzi.

Ma ritorniamo a bomba. Le monete e i gettoni potevano dunque essere usati indifferentemente per le chiamate dagli apparecchi pubblici. Ma mentre chi rubava i gettoni poteva avere qualche disturbo in più per smerciarli, rubare le monete contenute nelle cassettine rendeva le cose molto più facili. Forse non mi crederai, ma da allora si ridusse di molto la nostra raccolta di cassette. Partivi al mattino, diciamo, con venti cassettine vuote e al pomeriggio ne riportavi soltanto dieci piene. Le altre non potevano essere sostituite, perché quelle piene erano sparite e l'apparecchio che le conteneva era stato regolarmente scassinato. Altro che rubare le cornette o destreggiarsi con "il filo"! Qui si trattava di un sistematico lavoro di scasso, portato avanti da veri professionisti.

Un altro grave colpo al mio lavoro è arrivato con l'avvento delle schede telefoniche magnetiche. L'hanno chiamato "il denaro elettronico", ma sai che nuovo danno per tutti i "collettori"? Quelle poche cassettine delle monete, salvatesi dai ladri, erano per lo più vuote e anziché ritirarle ogni due giorni avevamo ormai preso l'abitudine di prelevarle una volta la settimana. Così, anziché limitare l'abituale giro di raccolta a una sola piccola zona della città, i "collettori" rimasti si sono dovuti accollare un'area molto più ampia. E non ti dico il male di braccia e di piedi, la sera! Ma le cassettine rimanevano ugualmente semivuote.

Nel frattempo, e non chiedermi ora quale ne fosse stata la ragione, la società dei telefoni aveva cambiato nome diverse volte, tanto che ora ne ho perso il conto. Io però continuo a chiamarla Stipel, perché così mi fa ricordare anche la mia povera mamma, che da ragazza... Ma questo te l'avevo già raccontato.

Dunque, ti stavo dicendo che quei benedetti telefoni pubblici - che avevano dato da mangiare per molti anni a mio padre ed a me - da un certo punto in poi cominciarono a diventare un problema serio. Non ce n'era più uno che funzionava per benino e la gente li prendeva a pugni e a calci per la disperazione.

Questa te la devo assolutamente raccontare. Pensa che un giorno, alla mia vicina di casa, uscita di casa per i soliti acquisti dei regali pre-natalizi, è successo di dover fare il giro di ben 20 cabine, e di bersi una dozzina di caffé, prima di trovare un apparecchio funzionate. Si, perché non era sempre detto che dopo di aver bevuto il caffè ed ottenuto il gettone dal barista, quel particolare telefono pubblico funzionasse. Spesso si fregava il gettone senza darti alcuna spiegazione e quando cercavi di segnalarlo allo stesso barista, quello ti guardava di sbieco come per dirti: "ma che, mi vuoi fare fesso?". Così, ti dicevo, quella signora ha perso almeno un'ora prima di riuscire ad informare suo marito, che stava nell'ufficio al piano di sotto, di essersi dimenticata di spegnere il forno a gas con il tacchino da arrostire. Sai che casino è successo? A momenti andava a fuoco tutta la casa. Quando sono rientrato a casa anch'io, c'era ancora il fumo che usciva dalla finestra dei miei vicini.

Ma il colpo di grazia è arrivato con i telefonini. Sono loro la causa principale della perdita del mio impiego. Forse chi li ha inventati era stato anche lui una vittima del disservizio dei telefoni pubblici, ma sta di fatto che da quando ci sono i telefonini, o cellulari che dir si voglia, nessuno usa più gli apparecchi pubblici della Stipel e, quindi, nessuno fa più scendere le monetine nelle cassettine sigillate. Così i poveri "collettori" non hanno più ragione di esistere. Quelle poche cabine telefoniche rimaste, ammesso che ancora funzionino, servono alla gente per ripararsi la testa dalla pioggia quando c'è un improvviso temporale, oppure per fornire ospitalità ai graffiti metropolitani più strani e più incomprensibili.

Pensa che l'altro ieri mattina, nell'unica cabina che è ancora rimasta nei giardini pubblici vicino a casa mia, ci ho trovato un Senegalese che se la dormiva della quarta, seduto sul pavimento. Aveva anche chiuso la porta, per evitare le correnti d'aria.

Ora ti saluto, perché vedo che stai crollando anche tu dal sonno. Ciao.

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