Il cappone di Natale

(Racconto di Gian Cesare Marchesi)

Nostro cugino Ermanno ce l'aveva portato dalla campagna la vigilia di Natale e già questo fatto aveva recato un primo scompiglio in famiglia.

Temendo di incappare nel grande traffico pre-natalizio che avrebbe invaso la città nelle ore d'apertura dei negozi, Ermanno era giunto a casa nostra alle sei del mattino, svegliandoci di soprassalto con un trillo prolungato del campanello e costringendoci ad un piccolo parapiglia per recuperare, chi la vestaglia, chi un qualsiasi indumento che potesse, più o meno, renderci presentabili all'inatteso ospite.

Io fui il primo a raggiungere la porta d'ingresso, chiedendomi chi potesse essere giunto a quell'ora e ipotizzando le risposte più disparate: i rappresentanti delle forze dell'ordine con un mandato di perquisizione o addirittura di arresto (ma non ce ne sarebbe stata alcuna ragione), la vicina di casa che cercava un limone per preparare una tisana calda al figlioletto ("Poverino, non ha dormito tutta la notte per una serie di coliche tremende. Dev'essere stato il dolce preparato ieri sera da mia suocera!"), o il solito Senegalese che aveva cominciato di buon'ora le sue vendite porta-a-porta di accendini Bic perfettamente imitati.

Quando aprii la porta, Ermanno era lì davanti, avvolto in un giaccone di pelle di montone e con un copricapo di panno marrone, vagamente simile ai caschetti dei carristi dell'Armata Rossa, che gli scendeva di lato sino a ricoprire le orecchie. Sfoggiò un sorriso aperto e mi porse qualcosa avvolto in un sacchetto di plastica, di quelli forniti dai supermercati.

"Buon Natale a te e ai tuoi", mi disse.

"Sai, abbiamo tirato il collo a un paio di capponi, di quelli buoni che alleviamo vicino a casa, e te ne ho portato uno per Natale. Sentirai che bontà: di questi qui non se ne trovano certamente nei negozi della tua città."

Nel frattempo era giunto anche il resto della mia famiglia, moglie e figlio, con gli occhi ancora impastati dell'ultimo sonno e agghindati come se stessero fuggendo a precipizio dopo aver avvertito una prima vaga scossa di terremoto.

Invitammo il cugino ad entrare, "... almeno per un caffè", ma lui si schermì, dicendo che aveva ancora alcune consegne da fare in città e anche perché voleva ritornare al paese al più presto, "... se no, mi tocca di guidare nel traffico, che non mi piace."

Ci scambiammo quindi gli auguri sulla porta di casa, lo ringraziammo per il gentile pensiero e lo lasciammo ripartire.

Il cappone era veramente bello, anche se non si poteva definire tale un povero volatile prematuramente portato a miglior vita e ridotto a quel modo. La moglie di Ermanno l'aveva spennato a puntino e ripulito di tutti quei particolari anatomici e di taluni loro contenuti, naturali per l'animale, che solitamente non fanno parte degli ingredienti della migliore cucina.

Mia moglie riavvolse il regalo in un involucro più consono alla circostanza e lo ripose accuratamente nel frigorifero di casa.

Poco dopo, completamente svegli e vestiti come si deve, ci ponemmo il problema di come cucinare al meglio il cappone per la cena di Natale. Mia moglie suggerì di telefonare a casa di Ermanno, con la scusa di ringraziarlo ancora per la cortesia e per chiedere se fosse meglio arrostirlo al forno o allo spiedo; io proposi di farne degli spezzatini in umido e, alla fine, nostro figlio prese la solenne decisione di parlarne con una sua cara amica, la cui genitrice godeva fama di essere un'ottima cuoca. Fu così che venne concordemente deciso, alla fine, di cucinarlo nel modo più classico, lessato e con un bel ripieno posto all'interno. Facemmo un rapido inventario delle provviste disponibili e ci tranquillizzò il fatto di avere in casa la necessaria scorta di carote, cipolle, sedano, pane secco, uova e di altri ingredienti che la nostra potenziale consuocera aveva decretato essere indispensabili per la migliore cottura del cappone.

Ormai sembrava quindi che il problema fosse almeno per il momento, risolto quando mio figlio, che aveva da poco ultimato con successo gli studi superiori, mi chiese inaspettatamente: "Papà, cos'è un cappone?"

Lì per lì azzardai una risposta che mi sembrava attendibile ed esaustiva: "credo che vengano chiamati in questo modo i galletti castrati". Ma mi ero sbagliato, in quanto ai giovani d'oggi, infarciti di tecnicismo esasperato ed abituati a ragionare in termini binari, dove ad ogni segno positivo corrisponde un segno contrario, una simile spiegazione non poteva che risultare eccessivamente semplicistica.

Mi giunse infatti, puntuale la seconda domanda: "se il cappone è un galletto castrato, cos'è il pollo?" A questo punto vennero anche a me alcuni dubbi. "Può essere", mi chiesi, "che anche i polli siano dei volatili da cortile castrati?"

Mia moglie, per contro, rincarò la dose con una seconda domanda ancor più cattiva: "Non sarà, per caso, che il cappone sia il maschio della faraona?"

Mio figlio non poteva lasciarsi sfuggire un'occasione migliore di quella per fare la sua solita battuta di spirito e aggiunse subito: "stai a vedere che il maschio della faraona, oltre che essere un ricco e potente dominatore di popoli, costrutture di piramidi e datore di lavoro a una schiera di provetti scalpellini di geroglifici, era anche un castrato!"

Quello della faraona era per me una specie di incubo ricorrente, non per quanto riguarda i fatti e i misfatti di Ramsete II e dei suoi parenti, ma per qualcosa di più banale che si ricollegava ai tempi del mio fidanzamento con la mia attuale e cara consorte. Passati gli anni infausti della guerra, del pane nero e delle tessere annonarie, nella mia famiglia d'origine si consumavano abbastanza frequentemente carni di volatili da cortile, lessate, arrosto, in umido e in tanti altri modi che mia madre sapeva di volta in volta escogitare. Ed io non mi ero mai posto il problema delle differenze esistenti, dal punto di vista culinario, fra polli, galline, galletti e altri simili simpatici animali. Li mangiavo con gusto e tutto, al momento, finiva lì.

Quando, ormai maggiorenne, cominciai a frequentare la famiglia della mia fidanzata (allora si diceva così, mentre oggi entrano ed escono dalle case con la massima indifferenza e senza troppi formalismi gli amici e le amiche dei propri figli, maggiorenni o meno), una volta fui fermamente criticato dalla signorina di cui sopra per aver affermato, al termine di un pasto: "il pollo arrosto era veramente delizioso."

"Guarda", mi disse successivamente in privata sede e con un tono che non ammetteva equivoci, "che non era un pollo, bensì una faraona. Tutt'altra cosa, ben più pregiata del pollo. Mia madre ne aveva scelta e cucinata per te una particolarmente buona e tu, da maleducato, l'hai definita un banalissimo pollo."

Mi resi conto di aver commesso un'imperdonabile gaffe, rischiando in tal modo di rovinarmi, sin da subito, le simpatie di tutta la famiglia con la quale mi stavo, per così dire, accasando. Poi, fortunatamente, l'amore dei due giovani prevalse sulle differenze terminologiche delle diverse speci animali e non vi furono più altri contrasti, almeno per quanto riguarda i volatili arrostiti.

Ma il problema del cappone portatoci dal cugino Ermanno non si era risolto solo in termini di disquisizioni linguistiche. Il bello doveva infatti ancora incominciare.

Occorre, a questo punto, spiegare che la signorina cui ho fatto cenno più sopra, con la quale felicemente convivo da anni in piena legalità matrimoniale ed in perfetta armonia affettiva, non ha mai avuto una particolare predisposizione per i tegami, i fornelli e per tutti quegli altri utensili che, invece, avevano trasformato sua madre in una vera e propria artista della cucina. In altri termini, non si può certamente applicare a mia moglie il detto: "talis mater ...". Ciò non ostante, e a suo onore, devo ammettere di non aver mai "saltato" un pasto e di non aver dovuto far ricorso alle cure ospedaliere per manifesta cronica denutrizione. Fatta questa doverosa premessa, che in un certo senso chiarisce le ragioni che avevano generato l'iniziale imbarazzo sul come dovesse essere cucinato il regalo di nostro cugino, il secondo problema che si pose nel pomeriggio, al momento di assistere tutti assieme all'inizio della cerimonia della bollitura del grosso cappone, fu quello della scelta della pentola più adatta.

Scartato sin da subito il contenitore ovale che solitamente veniva usato per far bollire le trote, mia moglie cominciò ad estrarre dagli armadietti della cucina vari tegami che, per le ridotte dimensioni o per le eccessive dimensioni del cappone in questione, non risultarono idonei alla bisogna. Finalmente decidemmo collegialmente che la pentola più grande, comprimendovi dentro bene il cappone opportunamente alleggerito di zampe e di collo, poteva essere sufficiente per la sua cottura.

Ma i calcoli erano errati. In effetti, una volta messi nella pentola l'acqua, le verdure, gli altri ingredienti raccomandati dalla probabile consuocera, e il cappone stesso, quest'ultimo restava con le cosce decisamente all'asciutto, in una visione d'insieme che non era delle migliori, neppure per gli animi meno sensibili.

Cercammo di comprimerlo ancor meglio nella pentola, girandolo e rigirandolo in tutti i modi possibili, ma non c'era nulla da fare: alla fine si ripresentava la solita scena del cappone con la pancia all'aria e con le cosce che sporgevano ben oltre l'orlo della pentola.

S'imponeva un intervento d'emergenza: l'asportazione, per così dire, chirurgica delle parti eccedenti. Estraemmo quindi l'animale dalla pentola deponendolo su un tagliere ed io, armato di un grosso coltello da cucina, cercai di tagliare di netto le cosce nei punti che ritenevo naturalmente più idonei. Scoprii così che mentre è facile sezionare con un comune trinciapolli un galletto amburghese - o una preziosa faraona - già ben arrostiti, l'intervento presenta maggiori difficoltà allorquando si tratta di un grosso pennuto, del tutto ancora crudo e fradicio d'acqua. Mia moglie lo teneva fermo per il corpo, mio figlio per una coscia, mentre io cercavo di tagliare l'altra coscia.

Seguirono una serie di comiche degne di un film muto d'inizio secolo e, alla fine, il cappone, straziato all'inverosimile, ritornò nella pentola privo delle appendici inferiori, letteralmente massacrate. E così, seppure a fatica, fu possibile proseguire nella cottura di quello che restava del volatile che, alla fine, si rivelò squisito e, come aveva orgogliosamente affermato il cugino Ermanno, ben diverso da quelli che si sarebbero potuti acquistare nei negozi della nostra città.

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