La passeggiata del ghiro

(Racconto di Gian Cesare Marchesi)

Diede una rapida occhiata all'orologio elettronico che giaceva fra le bacche e le foglie di quercia nell'anfratto del tetto, e si accorse che erano già le dieci di sera. Aveva dormito abbastanza ed era ormai tempo di uscire a fare le prime provviste per l'inverno. Faceva ancora caldo a quell'ora: il sole aveva percorso durante la giornata l'intero arco del cielo, passando dalla cima ad Est della catena delle montagne che circondano la valle, sino a scomparire ad Ovest, là dove gli abeti nascondono gli alti alpeggi, ricchi di pascoli, di mirtilli e di rododendri. La calura aveva riscaldato anche le tegole del tetto e occorreva zampettare in tutta fretta per togliersi dall'impaccio il più presto possibile e scendere più in basso, in mezzo a quell'erba e a quei fiori che gli erano più familiari, benché più densi d'insidie e di possibili nemici che lo stavano forse aspettando per ingaggiare con lui l'eterna lotta del pasto e della sopravvivenza.

Un po' per la fretta e un po' per il desiderio di trovare una nuova via di discesa verso il prato, decise di esplorare una delle canne fumarie che da tempo vedeva svettare sopra di lui sul tetto della casa. Sapeva bene che il camino era da tempo inattivo, per via dell'estate e in quanto gli altri coinquilini, quegli esseri umani che ogni tanto venivano a convivere con lui in quella stessa casa facendo un baccano d'inferno con i loro continui cicalecci e ammorbando l'aria con scarichi inquinanti di ogni tipo, da tempo non si facevano vedere né sentire. Forse erano andati in vacanza da qualche altra parte.

Discese con circospezione lungo il camino, cercando di tenere alta la coda affinché non si annerisse anch'essa, così come le zampe, già intrise di una sostanza untuosa e pulverulenta.

Il percorso era straordinariamente lungo e a un certo punto pensò che forse sarebbe stato meglio rinunciare, per scendere come tutte le altre volte lungo il muro esterno della casa sfruttando quelle crepe nell'intonaco che rendevano meno faticoso il cammino. Ma ormai aveva percorso parecchi metri e l'eventuale ritorno lungo la canna non sarebbe stato così semplice, data la viscosità del materiale che la rivestiva.

Scelse quindi di proseguire, finché non si trovò, come si suol dire, in un vicolo cieco. Era giunto infatti su un tratto quasi pianeggiante, sempre cosparso di catrame come la canna precedente ma costruito con un diverso materiale che risuonava con un sinistro timbro metallico mano a mano che procedeva. Poi, all'improvviso, si trovò di fronte un'enorme caverna piena di tubi di ferro saldati fra loro. Gli sembrava di essere capitato in quell'Inferno di cui, da piccolo, aveva sentito raccontare cose terribili.

Non si avventurò oltre e cercò allora di ritornare sul tetto da cui era arditamente disceso. Niente da fare; la risalita sembrava impossibile. Si sentì imprigionato e senza una via d'uscita, prossimo a una fine immatura ed ingloriosa. Allora, con il coraggio e la forza della disperazione, si mise a grattare con le unghie e con tutta la sua forza quel materiale metallico, mettendo a nudo una specie di tubo che a un esame sommario sembrava essere costruito con una lega di alluminio, nemmeno di ottima qualità.

Gratta e gratta, alla fine riuscì a fare un foro, dal quale entrava un poco d'aria, certamente meno puzzolente di quella che da qualche tempo respirava all'interno del tubo. Decise di continuare, prendendosi ogni tanto una piccola pausa di riposo e, alla fine, riuscì ad allargare il buco di quel tanto che bastava per riuscire seppure a fatica ad infilarcisi. Sentì un dolore acuto sulla schiena quando un batuffolo del suo pelo restò impigliato nelle lamine contorte, ma non ci fece eccessivamente caso. L'importante era uscire al più presto da quel budello maledetto. Le sue zampe anteriori si agitarono per qualche tempo nell'aria, mentre il resto del corpo si contorceva nel tentativo di fare uscire tutto quanto e poi, alla fine, cadde nel vuoto, andando a finire rovinosamente su altri tubi piccoli, che stavano più in basso. Rimase qualche istante semi intontito e quindi, in un silenzio assoluto che lo circondava e che lo tranquillizzava alquanto, si riprese, decidendo di esplorare anche quel nuovo spazio alla ricerca di qualcosa da mangiare ma, soprattutto, della strada da percorrere per raggiungere il "suo" prato.

Trovò sotto di sé un piano lucido e duro che riconobbe come una serie di piastrelle di cotto bene allineate a formare un pavimento per lui immenso. Lo percorse in lungo e in largo, lasciando dietro di sé una scia di impronte nere e untuose e riconoscendo qua e là alcuni manufatti di legno che gli umani curiosamente chiamano gambe di sedie e di tavoli. Queste cose le conosceva già, in quanto qualche tempo prima, sempre di notte, era capitato in un'altra curiosa abitazione dove, girando e rigirando, aveva trovato un cestino pieno di nocciole e di noci che aveva potuto sgranocchiare in santa pace, sinché un rumore inatteso e una improvvisa luce accecante non lo avevano fatto fuggire a precipizio suggerendogli di rifugiarsi nel suo più tranquillo nido sul tetto.

Questa volta però la sua esplorazione sembrava infruttuosa, in quanto in cima a quelle gambe di tavolo e di sedie non c'era proprio nulla che potesse attirare il suo interesse, per così dire, culinario; solo strani aggeggi metallici taglienti e appuntiti, alcuni barattoli pieni di strane sostanze colorate, due o tre pezzi di legno con mazzi di peli di cinghiale fissati con fascette di metallo ad un'estremità, stracci unti, nonché rotoli e rotolini di corde di diverso diametro e di differenti fogge. Niente quindi di interessante per il suo stomaco. Delle via di uscita nel prato, nessuna traccia. Occorreva andarsene da quel posto al più presto ma, ovviamente, trovando una strada diversa da quella che lo aveva fatto entrare. Cerca e ricerca, alla fine trovò un punto nella parete di legno che rivestiva il locale da cui filtrava un filo d'aria che sembrava giungere dall'esterno.

Risfoderò dunque le unghie e riprese a grattare con foga. Il legno, tenero e profumato di resina, si sfaldava facilmente, aprendo a poco a poco un varco nella parete.

Al di là del foro s'intravvedeva un piccolo vano, forse una specie di scatola, che conteneva un groviglio di cavi, simili a quelli che aveva già incontrato altre volte in cima a certi lunghi pali conficcati nel terreno. Entrò nella scatola e vi vide l'estremità di un altro tubo; questa volta privo di catrame e di altre simili sostanze. Era abbastanza ampio per percorrerlo agevolmente e conteneva per tutta la sua lunghezza due cavetti, uno bianco e uno rosso, che portavano ad intervalli fissi una scritta facilmente decifrabile: SIP 47c21, anche se per lui di difficile interpretazione.

Proseguì nel suo cammino lungo il tubo, sentendo che dal fondo continuava ad entrare il profumo del prato. Ma questo nuovo tunnel sembrava non finisse mai. Si fermò allora un attimo e pensò di assaggiare quei cavi colorati; prima quello bianco e quindi quello rosso. Tutto sommato avevano un buon sapore e, in mancanza di meglio, valeva la pena di gustarne un po'. Ad un certo punto, però, entrambi i cavi divennero immangiabili, in quanto i denti incontrarono uno strano metallo che produsse una leggera scossa che lo fece anche sobbalzare. Allora si ritrasse velocemente e, in quel preciso momento, udì dei suoni che sortivano quasi per incanto da quei fili, ricordandogli vagamente le voci in un certo senso simili a quelle dei coinquilini della casa.

Senza toccare più i fili, avvicinò ad essi le orecchie e stette ad ascoltare i suoni, cercando di interpretarli e di tradurli in qualcosa di comprensibile. E vi riuscì quasi perfettamente. Si trattava di due persone che parlavano fra loro, forse due donne, raccontandosi alcuni fatterelli che a lui sembravano quanto mai futili.

" Ma si, proprio lei, la Ada, quella vecchia strega che si dà un sacco di arie solo perché la ci ha i soldi", diceva una voce, "e che va in giro a parlare male di me perché non mi sono ancora sposata."

"Va là, Teresa, lascia perdere, non farci caso. Sai com'è la storia qui in paese", intervenne un'altra voce, "sono tutte uguali quelle lì, tutte pettegole e invidiose allo stesso modo. Fai come me, tira diritto e continua con il tuo Carletto che, tanto, o presto o tardi vi sposerete in chiesa e loro la pianteranno di parlar male di voi."

"Pensa te cosa mi è capitato ieri", riprese a dire la prima voce, "mentre andavo alla messa delle otto, ho sentito la Ada che diceva alla Bice: "Al Carletto, quello lì, bisogna dircelo che la Teresa quando lui faceva il soldato a Mondovì se la spassava con il Bruno". E non è neanche vero, perché il Bruno, lui, non mi ha mai nemmeno guardata. Non che io ci tenessi poi tanto, ma sai, con il Carletto che stava sempre lontano."

Seguirono una serie di altri suoni incomprensibili e, quindi, la conversazione si interruppe bruscamente. Avvicinò ancor più le orecchie ai fili pensando di poter ascoltare il seguito della storia, ma li toccò inavvertitamente e una seconda scossa lo investì, sprizzando una serie di piccole scintille. Dopo di che, tutto rientrò nel silenzio più assoluto. Pensò che, a quel punto, fosse meglio uscire dal tubo e ritornare fra le cose più semplici di tutti i giorni, anzi, per dir meglio, di tutte le sere.

Affrettò dunque il passo e poco dopo si ritrovò finalmente all'aria aperta, nel bel mezzo del "suo" prato, proprio sotto a quel cespuglio di noccioli che stava già cominciando a far cadere le prime bacche mature.

Guardò in alto e fra le foglie vide stagliarsi la luna piena, circondata da una miriade di stelle che formavano un meraviglioso tappeto luminoso.

Poco più distante, sentì il fruscio rapido della donnola, anch'essa uscita per le abituali provviste, e allora, più prudentemente, si arrampicò veloce su un accogliente ramo del nocciolo, da cui poteva osservare con maggior tranquillità la luna, le stelle, il "suo" prato e i camini anneriti della casa degli uomini.

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