Il tentato golpe

(Racconto di Gian Cesare Marchesi)

Alle sette del mattino del 17 febbraio 1976, in compagnia del mio autista africano, mi trovavo incolonnato nella lunga fila di veicoli che dall'alba al tramonto si snodava lentamente, come un vecchio pitone sonnacchioso e fracassone, dai quartieri residenziali verso il centro e la zona industriale di Lagos, la sterminata capitale del più popoloso Paese della costa dell'Africa Occidentale.

Era apparentemente un giorno come tutti gli altri, con nell'aria la solita cappa di caldo, umida e densa di odori. Ai bordi della strada, l'eterno affannarsi dei pedoni che, apparentemente senza una meta precisa, camminavano instancabili, talvolta salutandosi con esclamazioni infantili di gioia e prolungate strette di mano.

«Dimmi, Thomas, quanti figli hai?», chiesi, con una certa noncuranza.

«Quattro maschi e due femmine, ma ho anche una seconda moglie più giovane che mi potrà dare presto altri figli», mi rispose pronto il mio valente autista, che aggiunse: «e tu, Master, quanti figli hai in Italia?».

«Io ne ho uno solo, un maschietto che frequenta le scuole elementari. Ed ho una sola moglie», risposi.

Thomas si girò allora verso di me con uno sguardo di sorpresa e di commiserazione e mi disse: «Master, un figlio solo è troppo poco. Devi farne altri, altrimenti quando sarai vecchio non ci saranno abbastanza braccia per aiutarti. Se non ti basta una moglie, prendine un'altra».

Sorrisi e non aggiunsi altro, ben sapendo che nella cultura locale, ma soprattutto nelle condizioni socio-economiche e sanitarie di quei Paesi, la prole numerosa è come una polizza di assicurazione che, in un certo senso, "garantisce" una vecchiaia decente.

Giunto infine sul luogo di lavoro, all'altro capo della città, notai che qualcosa di strano era appena successo. Gli operai nigeriani, raccolti nel piazzale in vari capannelli, discutevano animatamente e dai loro gesti trapelava quel certo smarrimento atavico che solitamente assale gli Africani quando vengono sovrastati da un avvenimento imprevisto, al cui manifestarsi non hanno preso parte direttamente.

Thomas, preoccupato, si informò dell'accaduto e mi spiegò che un comunicato della radio locale aveva appena diramato la notizia che il Capo dello Stato e la Giunta militare al governo erano stati destituiti da un gruppo di giovani militari che avevano preso le redini del Paese. Era stato decretato il coprifuoco; le frontiere e gli aeroporti erano stati chiusi fino a nuovo ordine ma, come al solito, la situazione - almeno così veniva dichiarato - era pienamente sotto controllo. La popolazione era stata invitata a mantenere la calma.

Le linee telefoniche, nel frattempo, erano state disattivate. Io e i miei colleghi italiani eravamo smarriti ed incerti sul da farsi: rimanere a lavorare, tornarcene alle rispettive abitazioni, oppure attendere ulteriori notizie. Decidemmo infine di restare e di accendere anche noi la radio, che trasmetteva in continuazione marce militari, fra cui erano stranamente finite la vecchia Lilì Marlène e il Can-Can di Offenbach.

Attraverso quel misterioso ed efficientissimo canale d'informazione locale, chiamato "radio foresta", giungevano intanto altre notizie. Si diceva che nei quartieri residenziali di Ikoji e di Victoria stessero sparando all'impazzata, come pure attorno ai principali ministeri, situati nel centro della città. Sembrava che i golpisti avessero attentato alla vita del Capo dello Stato e qualcuno affermava che Mourtala Mohamed fosse in fin di vita, che il suo autista fosse morto sul colpo e che, alle prime luci dell'alba, i rivoltosi avessero fatto irruzione nelle abitazioni dei principali esponenti della Giunta in carica, uccidendone alcuni.

Notizie che si intrecciavano e volti sempre più smarriti.

Alle 9,30 la radio diffuse un ulteriore notiziario, ma si trattava solo della ripetizione di quello trasmesso in precedenza e, al termine, le solite marce militari.

Lo smarrimento sembrava a quel punto scomparso, per far posto a una nuova decisione: rientrare nelle case il più rapidamente possibile. Ma per noi questa soluzione non era perseguibile, in quanto abitavamo quasi tutti all'altro capo della città, proprio in quella zona residenziale che sembrava essere stata maggiormente colpita dai disordini. Intanto, dalle finestre dell'ufficio si notò, quasi all'improvviso, il formarsi di una marea umana che si spostava verso la periferia della città. Erano migliaia di persone che uscivano rapidamente dalle fabbriche, dagli uffici, dai negozi e da ogni dove, per raggiungere un qualsiasi mezzo di trasporto che le potesse condurre alle loro case, ai loro villaggi. Autobus e autocarri stracarichi di persone, motociclette e biciclette, autovetture e poi, ancora, venditrici di noccioline e pesce secco con le ceste sulla testa e con i figlioletti più piccoli affardellati sulle spalle, nonché pastori musulmani con il loro immancabile piccolo gregge di capre.

La fiumana sembrava non finire più. E il solito comunicato della radio, che veniva trasmesso ogni mezz'ora, interrompendo per qualche istante le fanfare militari.

I nostri uffici e la nostra fabbrica erano ormai pressoché deserti. Restavano soltanto uno sparuto gruppo di Italiani, raccolti attorno alla radio e ansiosi di conoscere gli ultimi sviluppi della situazione, in un fiorire di ipotesi e di previsioni le più stravaganti. Si attendeva da un momento all'altro il peggio e gli sguardi erano fissi sulla strada, dalla quale si temeva di veder sopraggiungere truppe, mezzi corazzati o altri strumenti di guerra. Il traffico, nel frattempo, si era diradato sempre più. Passavano, frettolosi, gli ultimi ritardatari e qualche taxi asmatico, carico di passeggeri.

Alle 14,45, improvvisamente, cessarono le marce militari e la radio divenne muta. Anche il solito bollettino non fu più trasmesso. Mezz'ora dopo, senza alcun commento, le musiche ripresero; ma non erano più le stesse. Alle pompose fanfare e alle cornamuse scozzesi erano subentrati alcuni motivi tradizionali africani e più moderni ritmi afro-cubani. Ma ancora nessuna notizia ufficiale. L'attesa, all'interno dei nostri uffici divenne snervante, mentre si avvicinava l'ora stabilita per il coprifuoco.

Le linee telefoniche ripresero finalmente a funzionare e chiamammo alcuni conoscenti rimasti in altre zone della città, venendo così a sapere che nel quartiere di Victoria tutto sembrava tranquillo, mentre ad Ikoji si sentiva di tanto in tanto qualche sparo di fucile. Le musiche continuavano ora con l'orchestra di Paul Mauriat e, perfino, con qualche brano di musica leggera italiana.

Alle 17,50 un messaggero di "radio foresta" giunse da noi portandoci una notizia dell'ultima ora: il colpo di stato era fallito e non si sparava più. Dopo parecchi minuti anche la radio, quella vera, ne diede conferma. La vecchia Giunta militare era riuscita a sventare il golpe, i rivoltosi erano stati arrestati e la popolazione era invitata ancora a mantenere la calma, rispettando il coprifuoco. Del Capo dello Stato, invece, nessuna notizia ufficiale.

Con l'animo più sereno e con quel poco di cui erano provvisti i frigoriferi della cucina aziendale, improvvisammo una cena frugale e ci apprestammo a trascorrere la notte negli uffici, attenti comunque a captare qualsiasi suono o rumore sospetto. Ma ormai il peggio era passato. Poi, le prime luci dell'alba ci portarono il consueto risveglio della città: il traffico di sempre, l'umanità di sempre. Sembrava che non fosse successo proprio nulla. Più tardi, comunque, si ebbe la conferma che durante i disordini del giorno precedente vi erano state diverse decine di morti, fra cui il Capo dello Stato.

"Radio foresta" aveva quindi avuto ancora una volta ragione sin dall'inizio e un altro capitolo si stava aprendo nella storia di quel pittoresco Paese, troppo vasto e diverso per essere unito, non abbastanza ricco per essere felice.

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