Sulle orme di Livingstone

(Racconto di Gian Cesare Marchesi)

Nato e cresciuto in cittadine di provincia, a qualche decina di chilometri dalla frontiera con la Svizzera, fino all'età di 25 anni non avevo mai messo piede oltre confine, se non per effettuare piccoli acquisti domenicali di cioccolato, di caffé e di benzina, a pochi passi di distanza dalla dogana italiana.

L'idea di dover andare per lavoro, seppure per breve tempo, in un lontano e sconosciuto Paese e, oltre tutto, di dovervi andare con l'aereo, mi aveva quindi procurato una certa emozione e un altrettanto certo timore.

Comunque, quella mattina salii a bordo di un rumoroso turboelica Viscount che in un paio d'ore raggiunse l'aeroporto di Londra, dal quale ripartii poco dopo su un più capiente quadrigetto VC10 della BOAC, verso il misterioso e affascinante continente africano.

Ubbidiente alle istruzioni delle hostess, mi allacciai la cintura di sicurezza che poi, per prudenza, non slacciai per tutta la durata del volo.

A quel tempo il carburante costava ancora relativamente poco e i costruttori di aerei non si preoccupavano più di tanto per i consumi. Così, l'autonomia di volo era piuttosto modesta e la tratta Londra-Lusaka comportava almeno tre o quattro scali intermedi per i necessari rifornimenti. Atene, Il Cairo e Nairobi costituivano le tappe pressoché abituali per tutte le linee aeree europee che si dirigevano verso l'Africa centro-orientale.

Quando giungemmo in prossimità di Nairobi, si svolse a bordo una piccola cerimonia in onore di quei passeggeri che per la prima volta sorvolavano l'Equatore. Ebbi così anch'io dal comandante dell'aereo una specie di attestato, stampato su carta simile alla pergamena e tutto ornato di fregi colorati, che testimoniava solennemente il mio ingresso nel novero dei trasvolatori titolati.

A metà pomeriggio, dopo parecchie ore di volo, atterrammo felicemente all'aeroporto Hailé Selassié di Lusaka; ma qui cominciarono i guai.

Un poliziotto africano, grande e grosso, in divisa kaki e calzettoni bianchi, dopo aver a lungo esaminato i miei documenti personali, mi bofonchiò con tono alquanto deciso delle parole per me del tutto incomprensibili e che suonavano più o meno come "iour icsreis".

La mia conoscenza della lingua di Albione era a quel tempo piuttosto modesta e non riuscivo assolutamente a comprendere cosa quel signore volesse da me.

Vista l'inutilità dei suoi sforzi, lo zelante poliziotto mi prese allora per un braccio e mi fece più o meno gentilmente accomodare in una stanzetta chiusa della stazione di polizia aeroportuale, dove rimasi solo, in preoccupata meditazione, per più di un'ora.

Finalmente giunse a liberarmi un collega italiano residente in Zambia, che chiarì rapidamente il tutto. Compresi così che quel poliziotto non voleva altro se non un certificato (che avevo inconsapevolmente trattenuto nella valigia) attestante la mia immunità da malattie polmonari: in sostanza, l'esame dei raggi X.

Risolto così l'incidente, il mio collega mi accompagnò nella sua abitazione, dove sarei dovuto alloggiare per tutta la settimana, fino al termine della mia missione di lavoro. Si trattava di un'ampia costruzione di tipo coloniale, ad un solo piano, circondata da un vasto giardino impreziosito da rigogliose cascate di bouganville, maestosi alberi di mango, cespugli di banani, fiorenti jacaranda e da una infinità di altre piante tropicali che noi solitamente vediamo, in formato decisamente più piccolo ed alquanto asfittico, crescere nelle serre dei vivaisti per poi finire miseramente i loro giorni nelle dimore italiane fra le cure, purtuttavia assidue, delle nostre amate padrone di casa.

L'abitazione si trovava nel quartiere residenziale più prestigioso di Lusaka, circondata da una decina di altre ville più o meno simili fra loro e a ridosso di una piccola altura sulla cui sommità svettava imponente il palazzo del Parlamento. Per una curiosa circostanza il quartiere, a differenza di altri che portavano nomi di derivazione certamente locale, veniva chiamato Roma Township, forse in riconoscimento dei buoni rapporti esistenti con l'Italia sin dal giorno in cui la Rhodesia del Nord, da poco diventata indipendente dall'Impero Britannico, aveva assunto la denominazione di Zambia.

Durante il tragitto dall'aeroporto alla casa, il mio collega mi anticipò che purtroppo, proprio quella sera, si sarebbe dovuto assentare per partecipare a non so quale party e che quindi io sarei dovuto rimanere in casa solo con i boy di casa.

«Mi vorrai scusare», disse, «ma non posso assolutamente mancare a quell'appuntamento. In ogni caso, non ti devi preoccupare: ho già impartito le necessarie disposizioni al cuoco e allo steward per la tua cena e per la sistemazione della tua camera».

Terminata l'ottima cena e piuttosto provato per il viaggio, mi ritirai quindi nella mia stanza e mi infilai sotto le lenzuola, prendendo rapidamente sonno.

Ero ancora profondamente immerso in quello che i Cinesi chiamano ron quando un improvviso rumore mi svegliò di soprassalto e nella penombra della camera intravvidi una massa umana che si protendeva verso di me ai piedi del letto mormorando alcune concitate parole. Risvegliatomi del tutto, riconobbi non senza una certa iniziale fatica, il nerboruto guardiano africano della casa che, armato di un affilato machete, mi stava invitando a seguirlo. Nonostante il mio spavento inziale, l'Africano non sembrava avere cattive intenzioni nei miei confronti e lo seguii quindi con una certa curiosità e, perché no, con un pizzico di residua apprensione.

Raggiungemmo la cucina e qui si presentò una scena indimenticabile. In un angolo del locale, raggomitolato per terra, c'era un altro Africano, impaurito e supplicante, sovrastato dalla robusta moglie del guardiano che lo fustigava con una specie di lungo nerbo di bue, tempestandolo di parole in dialetto locale .

«Master», cercava intanto di chiedermi in inglese il guardiano, «cosa dobbiamo farne di questo qui?».

Con una certa fatica alla fine ci capimmo e appresi così che "questo qui" era un tizio che era stato sorpreso poco prima mentre attraversava furtivo il giardino.

«E' un ladro che voleva entrare in casa e rubare tutto», aggiunse il valente guardiano. «Che ne facciamo di lui?».

Francamente non ero per nulla preparato a fornire una risposta adatta al mio occasionale rango di facente funzioni di padrone di casa e mentre pensavo al da farsi, il presunto ladro cercò a sua volta di spiegarmi, per metà a gesti e per metà in uno stentato inglese (senz'altro peggiore del mio), che stava semplicemente attraversando il giardino, a quell'ora di notte, per risparmiare un poco del percorso che l'avrebbe condotto alla casa di fronte alla nostra, dove, a suo dire, svolgeva le funzioni di nuovo giardiniere.

Io fui abbastanza convinto da queste spiegazioni; mentre il guardiano e sua moglie lo furono meno; ma la decisione del Master non ammetteva alcuna ulteriore discussione. Il presunto ladro riacquistò così la sua libertà ed io potei ritornare finalmente a dormire, dopo essermi rigirato per una buona mezz'ora nel letto, cercando di smaltire lo shock di quella tumultuosa giornata.

La mattina successiva raccontai tutto al mio collega che, alquanto perplesso sul giudizio che io avevo espresso in merito al visitatore notturno, mi disse: «Non fidarti mai di ciò che dicono questi Africani; sono dei bravissimi attori e sanno fingere benissimo. Probabilmente era davvero un ladro e se non ci fossi stato tu in casa, il nostro guardiano e la sua gentile consorte lo avrebbero quasi ammazzato di botte prima di consegnarlo alla polizia. Che avrebbe poi fatto il resto, senza consentire alcuna difesa al soggetto in questione».

Comunque, ritenne suo dovere convocare i domestici per ringraziarli della loro professionalità e per invitarli a perseverare nella vigilanza e nel controllo della tranquillità della casa.

Pensai allora, per un istante, alla famosa battuta: «Doctor Livingstone, I suppose», pronunciata un centinaio di anni prima con compita flemma britannica da Sir Henry M. Stanley, più o meno proprio in quella parte dell'Africa, e mi chiesi cosa in realtà fosse cambiato da allora per gli abitanti di quello sterminato continente.

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