Mal d'Africa

(Racconto di Gian Cesare Marchesi)

Sul finire degli anni '60 gran parte del continente africano è stato attraversato da un grande fermento di iniziative, conseguenti all'indipendenza ottenuta dalla Francia e dall'Inghilterra, favorite dalla conclamata disponibilità degli enti di sviluppo sovranazionali a svolgere un'azione di supporto per la crescita dei nuovi Stati e per migliorare il tenore di vita delle popolazioni locali.

Dal 1967 in poi, e per circa un ventennio, ho avuto modo di visitare in lungo e in largo per motivi di lavoro, la parte più "nera" dell'Africa e in particolare quella fascia sub-sahariana che termina laddove comincia la cosiddetta "Africa bianca", allora governata dal regime autoritario di Pretoria.

Un territorio immenso, delimitato da confini spesso disegnati tracciando semplici linee rette sulle carte geografiche o definiti delle conquiste territoriali degli esploratori europei che si erano avventurati in quei luoghi nei secoli precedenti. Ma anche un mosaico incredibile di razze, di lingue, di costumi, di climi e di paesaggi, che creano tuttora per "i bianchi" un ambiente favorevole ai più disparati sentimenti: dall'amore quasi morboso per quei luoghi, al disagio più profondo.

Se al tempo del colonialismo il cosiddetto "mal d'Africa" poteva nascere ne "i bianchi" soprattutto dal tenore di vita che conducevano, circondati com'erano da un ambiente che offriva tutto ciò che le loro terre d'origine avevano perduto ormai da tempo, dagli anni '60 in poi la situazione si è notevolmente ridimensionata e il "mal d'Africa" viene ormai considerato una semplice reminiscenza del passato. Può tuttavia rimanere il ricordo nostalgico dei colori, dei suoni, degli odori, dei costumi e degli innumerevoli frammenti di vita che questo immenso territorio esprime; ma che forse non si discosta più di tanto dal ricordo nostalgico di altri luoghi lontani e, per certi aspetti, "diversi".

Quando rientravo in Europa e raccontavo a parenti ed amici le mie pur modeste esperienze africane, mi sentivo spesso ripetere l'invito a "scrivere un libro", ma il timore di rovinare tutto o di cadere nella banalità (non disponendo certo della capacità letteraria di Karen Blixen, di Ernst Hemingway o di altri illustri Autori), mi ha sempre consigliato di non avventurarmi in quel tipo di pericolose iniziative.

Ci sono, comunque, un paio di piccoli episodi che possono forse fornire una seppur modesta pennellata di indimenticabili ricordi.

La gita in barca

A bordo di un capace gommone dotato di un motore fuoribordo, ci eravamo mossi dalla costa una domenica mattina per esplorare i fondali di Oyster Bay, una splendida insenatura situata ai margini della città di Dar es Salaam e protetta dalle onde dell'Oceano Indiano da una serie di isole coralline che formano una sorta di collana, impreziosita da una vegetazione lussureggiante. Eravamo in tre colleghi, armati di pinne, maschere e fucili per la caccia subacquea, e di un capace contenitore frigorifero ricolmo di panini imbottiti e di bibite preparatici dai domestici africani che governavano la casa dove abitavamo. Il mare calmo, il cielo di un azzurro intenso e l'assoluta mancanza di vento, facevano presagire una piacevole giornata.

I fondali marini della costa tanzaniana sono generalmente poco profondi e quando la marea si ritira, lascia quasi del tutto scoperte centinaia di metri di rocce, probabilmente di origine vulcanica e rivestite di coralli e di madrepore, nei cui piccoli anfratti, ancora ricolmi d'acqua, restano quasi imprigionati piccoli pesci tropicali dalle forme e dai colori più disparati, stelle marine, molluschi e crostacei vari. Si presenta allora uno spettacolo d'incomparabile bellezza, potendo osservare da vicino, anche solo saltellando da uno spuntone di roccia all'altro, le meraviglie di quel mondo sommerso.

La nostra meta era comunque più lontana e non la si poteva raggiungere se non a bordo di un'imbarcazione.

Dopo circa un'ora di navigazione, fermammo il motore e uno dei compagni s'immerse nella baia, mentre l'altro collega ed io restammo a bordo ad osservare lo spettacolo della natura sottomarina.

All'improvviso si alzò un forte vento, il mare s'increspò paurosamente e in pochi minuti il cielo si oscurò di dense nuvole minacciose. Eravamo nel pieno della stagione delle piogge e non erano per nulla infrequenti repentini cambiamenti atmosferici che in brevissimo tempo scaricavano immense quantità d'acqua piovana, per poi lasciare al caldo sole africano il compito di trasformarla in nubi di vapore acqueo che lentamente risalivano verso il cielo.

Non restava, quindi, che tornare a riva il più velocemente possibile e non appena il nostro compagno subacqueo riaffiorò, mostrandoci trionfante una bellissima rosa di corallo che aveva scovato sul fondale, rimettemmo in moto il motore, puntando la prua verso la riva.

Purtroppo però il vento che veniva dal continente aveva fatto sollevare onde gigantesche che facevano sobbalzare il gommone in modo pauroso, inondandolo di acqua marina e impedendogli di progredire. La forza delle onde aveva il sopravvento e anziché avvicinarci alla riva ci allontanavamo sempre più verso il limite esterno della baia.

A un certo punto ci accorgemmo che l'approdo visibilmente più vicino non era più la riva dalla quale eravamo partiti, bensì una delle isole che ci stavano alle spalle e che facevano da cornice all'insenatura. Allora decidemmo di rifugiarci su quell'isola. Con una certa fatica mettemmo il gommone al sicuro sulla spiaggia e, raccolto il frigorifero con le vettovaglie, ci rifugiammo tutti e tre all'asciutto, sotto una specie di anfratto roccioso a una decina di metri dal mare.

Poiché sulla baia infuriava l'uragano con una pioggia scrosciante, accompagnata da potenti raffiche di vento, non ci rimase altro da fare se non dar fondo alle provviste. Così, in pochi minuti, consumammo con gusto tutte le cibarie del contenitore.

Dopo circa un'ora, il finimondo cessò e a poco a poco il mare ritornò in condizioni per noi più navigabili. Allora svuotammo il gommone dall'acqua e lo rimettemmo in mare, dirigendolo verso casa. Quando giungemmo circa a metà della baia, incrociammo due potenti motoscafi d'altura con alcuni uomini a bordo che scrutavano il mare. Quando videro il nostro gommone che avanzava, ci fecero dei grandi gesti di saluto con le braccia e, raggiuntici subito dopo, ci chiesero se tutto fosse "OK". Si trattava di due imbarcazioni del locale circolo nautico, chiamate telefonicamente in nostro soccorso dai nostri domestici che, viste le condizioni del mare, si erano preoccupati della nostra incolumità.

Tranquillizzammo i volonterosi salvatori, ringraziandoli della loro premura, e proseguimmo senza ulteriori intoppi e con i nostri mezzi la navigazione verso terra.

Qui giunti, si presentò una scena indimenticabile. Allineati in fila indiana, perpendicolarmente alla riva del mare e nel rigido rispetto delle rispettive posizioni gerarchiche, c'erano il cameriere-maggiordomo, il cuoco e il giardiniere della nostra casa. Quando scendemmo dal gommone, i tre Africani si misero in ginocchio sulla sabbia e ci afferrarono a turno le mani appoggiandovi sopra il capo. Poi, il cameriere-maggiordomo, dall'alto della sua autorità, parlò a nome anche degli altri, dicendo: «Siamo felici di rivedervi sani e salvi. Siamo stati tutti molto in pena per voi».

Nel frattempo le mogli dei tre domestici, riunite a qualche metro di distanza, avevano inscenato uno specie di piccolo balletto, dondolando le spalle, battendo le mani ed emettendo gridolini di gioia.

Tre giorni dopo, terminata quella mia missione in Tanzania, mi accingevo a preparare la valigia, quando il cameriere-maggiordomo bussò alla porta della mia camera porgendomi un pacchetto avvolto in un foglio di giornale, legato con una semplice corda, e dicendo: «So che in Italia hai un bambino piccolo. Domani qui da noi è festa nazionale: la festa dell'indipendenza, e mia moglie ha preparato una torta di banane: la saba-saba cake ("Saba" in Swahili significa 7 e la ricorrenza dell'indipendenza ricorre appunto il 7 luglio. NdR), per il tuo piccolo. Spero di rivederti presto, Bwana».

Nonostante l'imballaggio di certo poco elegante, quella torta era veramente squisita e fu gustata con grande piacere da tutta la mia famiglia.

Gli straordinari

Giovan Battista Attolini era un tipo piuttosto curioso. Originario di un piccolo paese dell'Appennino romagnolo, era giunto non si sa quando né come in Nigeria, dopo aver svolto i più svariati mestieri, compreso quello di mercenario in Katanga, dove si era divertito, come lui diceva, «A fare a pezzi qualche decina di neri». Aveva all'incirca una trentina d'anni, ma il suo cranio completamente pelato e il suo modo di camminare, dondolando le spalle piuttosto ricurve, lo facevano sembrare alquanto più avanti con l'età. Non nascondeva pubblicamente le sue idee estremiste, vantandosi di aver anche partecipato, quando ancora circolava più o meno liberamente in Italia, ad alcuni attentati dinamitardi in Alto Adige.

Era stato assunto in quel Paese africano da una compagnia di trasporti su strada, creata da un gruppo europeo, e aveva il compito di sorvegliare il traffico dei veicoli lungo gli oltre mille chilometri della tratta Lagos-Kano.

La società possedeva un certo numero di autocarri con rimorchio che quotidianamente trasportavano lungo quella strada le merci più disparate. Gli autisti erano tutti Africani e durante il tragitto non disdegnavano, dietro il compenso di qualche scellino, di far salire sui cassoni già carichi dei loro veicoli altri connazionali provenienti dai piccoli villaggi sparsi nella savana, che chiedevano loro un passaggio per portare al mercato prodotti agricoli, capre e mercanzie varie.

Tutto ciò creava notevoli problemi di stabilità ai veicoli che, sovraccarichi, talvolta sbandavano ed uscivano di strada, disseminando attorno persone e capre più o meno acciaccate, assieme a rottami e merci di ogni genere. Dopo di che, puntualmente sbucavano dalle alte erbe della savana altri Africani che in un batter d'occhio razziavano tutto quello che trovavano, scomparendo quindi rapidamente da dove erano venuti.

Attolini faceva parte di un ristretto gruppo di disperati che, a bordo di Land Rover col tettuccio di tela e dotate di radio, percorrevano alcuni tratti della lunga strada, svolgendo in un certo senso il compito di polizia stradale privata. Quando uno di loro incontrava un veicolo aziendale visibilmente sovraccarico, intimava al suo guidatore di fermarsi e di far scaricare sul posto tutto ciò che poteva creare difficoltà al viaggio.

Non era certamente un compito facile e per svolgerlo servivano persone dotate di particolari caratteristiche. E l'Attolini le possedeva tutte. Aveva trasformato la sua Land Rover in una specie di casa, nella quale dormiva e consumava i pasti, in compagnia di una scimmietta che non lo lasciava mai, standosene appollaiata sulla spalla del suo amato padrone quando erano in viaggio o quando quest'ultimo, armato di un affilatissimo e convincente machete, intimava al malcapitato autista di un camion di scaricare ai bordi della strada tutta quella "corte dei miracoli" che trasportava irregolarmente.

Il nostro amico aveva ufficialmente anche una vera e propria abitazione a Lagos, la capitale della Nigeria, dove c'era la sede dell'azienda per la quale lavorava, e in quella casa viveva anche la signora Attolini, una giovane e piacente biondina di nazionalità inglese, compagna più o meno legittima del personaggio in questione. Il lavoro lo costringeva a stare a lungo lontano da casa e la sua gentile consorte sembrava non avesse trovato di meglio da fare per combattere la solitudine che trascorrere le calde e umide notti africane in compagnia di un giovane impiegato dell'ufficio del personale della stessa società di trasporti.

La notizia di quell'idillio si era da tempo sparsa in giro e alle solite malignità si aggiungeva spesso la battuta: «Tanto, l'Attolini ha già la sua scimmietta che gli tiene buona compagnia».

Un bel giorno Attolini, rientrato a Lagos per un breve riposo, fu udito imprecare a lungo nell'ufficio del personale; quindi, uscito sbattendo violentemente la porta, se ne andò urlando a squarciagola con il suo tipico accento romagnolo: «Ma guarda mo' bene quello lì, quel bastardo: passi anche che si sbatta la mia donna ma, boia d'un mondo, che non voglia nemmeno pagarmi gli straordinari!».

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