Un giorno, in metropolitana

(Racconto di Gian Cesare Marchesi)

La fatidica frase: «Signori, buon giorno... scusate se vi disturbo», pronunziata da una voce femminile squillante e scandendo bene le sillabe, risuonò nel vagone, fermo alla stazione in attesa della partenza, quasi come un indefinibile presagio di sventure.

Erano le otto del mattino e i vagoni della metropolitana erano piuttosto affollati, con la solita marea di persone che si recavano al lavoro o a scuola. Si notavano volti ancora assonnati e gli sguardi piuttosto rassegnati di chi forse avrebbe gradito iniziare la giornata in altro modo, magari con una bella gita fuori porta. C'era chi sfogliava distrattamente il quotidiano ancora fresco di stampa, chi continuava la lettura di un libro e chi, infine, non sapendo che altro fare per ammazzare il tempo, osservava i suoi occasionali compagni di viaggio cercando di interpretarne l'aspetto esteriore e disegnargli attorno una più precisa connotazione.

Udendo la voce che giungeva dal fondo, alcuni passeggeri si sollevarono un poco sulle punte dei piedi per cercare di capire, guardando al di sopra delle altre teste, chi fossero i questuanti di turno; mentre altri fingevano indifferenza ed altri ancora scambiavano con i vicini silenziosi cenni di contrarietà.

Il treno si rimise in moto verso la successiva stazione e la litania continuò implacabile, secondo il solito copione: «Siamo fa-mi-glia povera di Bosnia, cin-que bam-bi-ni, niente man-gia-re, dor-mi-re sotto i ponti, marito tanto ma-la-to, niente soldi, niente me-di-ci-ne. Il Signore vi benedica, date cento lire per man-gia-re io e miei bam-bi-ni».

Dal piccolo gruppo chiassoso di studenti ammassati accanto a una porta, si udì allora un commento sarcastico: «Ragazza mia, quanto sei sfigata!», che dette il via a una serie di più sommessi commenti da parte di altri viaggiatori.

«Insomma, non se ne può più di questa gente», disse infatti una giovane donna che aveva accanto a sè una capace borsa piena di documenti, «da quando sono salita su questo treno è già la terza persona che viene a chiedere l'elemosina. Fanno tutte lo stesso discorso. E mandano avanti i bambini piccoli per impietosire la gente e per raccogliere quanti più denari possono. Ma che vadano anche loro a lavorare, che è meglio».

Il suo commento non cadde nel vuoto, perché gli fece subito eco un altro passeggero, che rincarò la dose dicendo: «Io che ho lavorato per molti anni nella ex-Jugoslavia, li conosco bene quelli. Sono zingari, che di volta in volta si spacciano per Bosniaci, Kosovari, Serbi, Romeni, Albanesi, Kurdi, Croati, ecc., a seconda di quanto torna loro più comodo. Al tempo della guerra in Bosnia, a sentir loro, erano tutti profughi bosniaci; poi dopo le vicende del Kosovo, sono diventati tutti Kosovari. In realtà sono da sempre gli stessi zingari, provenienti da chissà dove, il cui unico loro lavoro è chiedere l'elemosina sui mezzi pubblici. Hanno capito che rende di più del solito borseggio e fa rischiare di meno. Le forze dell'ordine lasciano fare. Se però uno di noi, per vera fame, ruba una mela, allora viene subito sbattuto in galera, e lì ci sta».

Evidentemente il tema era di ampio interesse, in quanto un'altra viaggiatrice sollevò il capo dal romanzo che stava leggendo e aggiunse: «Gi agenti dovrebbero intervenire e fare qualcosa, perché anche se l'accattonaggio non è più un reato, impietosire la gente mettendo di mezzo dei bambini piccoli significa sfruttamento di minori e, quindi, un reato punibile come si deve».

«Una grossa parte di colpa», disse allora il signore-che-aveva-lavorato-in-Jugoslavia, «è anche di quelle persone dal cuore tenero che si commuovono facilmente e che non esitano a dare soldi a questi mascalzoni. Se non venisse dato nulla, gli zingari la smetterebbero di infastidire. E poi, a ben guardare, se sfruttare i bambini per chiedere l'elemosina è un reato, dare loro i soldi potrebbe configurarsi come un vero e proprio favoreggiamento. Quindi, questo comportamento non è che un reato parallelo, altro che beneficienza. Ma certe persone hanno un concetto alquanto discutibile della carità e mettendo mano al portafoglio credono forse di liberarsi di un peso che evidentemente hanno sulla coscienza. Se proprio vogliono far del bene, esistono centomila altri modi».

«In ogni caso», riprese allora a dire la prima signora, «se quelli non chiedono l'elemosina sui treni, vanno per strada a derubare i passanti o si arrampicano lungo i tubi del gas o delle grondaie per entrare negli appartamenti e svaligiarli. Sono soltanto dei delinquenti. E quei politicanti da quattro soldi che cercano sempre di proteggerli dovrebbero chiedersi dove mai ricavano i soldi per vivere e per comprarsi quel po' po' di macchine e di roulotte che posseggono. E' certo che io, che vivo del mio solo stipendio, quei lussi non potrei permettermeli. E poi dicono di aver fame. Bisognerebbe farli correre; mandarli via. Non dico di far loro del male, ma che vadano altrove a far danni».

«Dice bene la signora», aggiunse allora un'anziana donna che sino allora se ne era stata zitta zitta, «pensate che io, che abito al quinto piano di un vecchio palazzo, sapete, di quelli ancora con le ringhiere, ho dovuto far blindare non solo la porta ma anche tutte le finestre. Il mese scorso i ladri sono entrati nell'appartamento accanto al mio e hanno razziato tutto quello che hanno trovato. Sicuro, di notte, proprio mentre i miei vicini, delle vere brave persone, dormivano. Li hanno narcotizzati con una di quelle bombolette spray. Non hanno fatto alcun rumore, ma hanno lasciato i locali in condizioni che non sto a descrivervi! Sono sempre loro, gli zingari, che scorazzano in lungo e in largo rubando e vivendo alle nostre spalle. Come se non ne avessimo abbastanza dei nostri poveri. E pensare che alla mia età e con la pensione di reversibilità che prendo dopo che il mio povero marito ....Proprio ora sto andando alla mutua, per via di ... Ma se noi abbiamo bisogno di qualcosa, allora sono moduli da compilare, file da sopportare e sportelli, sportelli ...».

Mentre queste conversazioni si intrecciavano animatamente, il treno aveva percorso un tratto inframmezzato da un paio di fermate. Alcuni passeggeri erano scesi ed altri erano saliti. Si era anche fatto un poco più di spazio nel vagone e i mendicanti avevano così avuto modo di percorrerlo quasi interamente. Si trattava di tre persone: una giovane donna con un lattante in braccio e una bambina di sei-sette anni che teneva fra le mani un grosso bicchiere di carta colorata.

La donna poteva avere all'incirca 25 anni. Era di media statura, aveva grandi occhi scuri volutamente sfuggenti e lunghi capelli corvini raccolti sulla nuca da un fermaglio. Nell'insieme, senza dubbio una bella figura, anche se molto trasandata. Era vestita con un'ampia gonna a fiori e con una camicetta che si apriva sul davanti per lasciare fuoriuscire una mammella tondeggiante, dalla quale il bambinetto succhiava avidamente. Portava a tracolla una capace borsa di pelle nera che lasciava intravvedere un biberon, una sciarpa e qualche altro piccolo indumento del lattante. In vita aveva allacciato ben stretto un marsupio di stoffa, simile a quelli che abituamente si usano nelle passeggiate durante le vacanze.

La bambina si piazzò davanti alla signora più anziana, facendo ondeggiare il bicchiere in attesa dell'elemosina, mentre l'indice della sua mano sinistra, in una sorta di irrefrenabile tic, frugava incessantemente nelle narici. Anche la piccola aveva occhi e capelli scuri e indossava un abito di cotone a fiori di una taglia ben superiore alla sua. Calzava dei pesanti scarponcini ed aveva un paio di calzettoni bianchi che le ricoprivano disordinatamente i polpacci. Nonostante le continue smorfie e quel suo abbigliamento sporco e trasandato, era certamente una bella bambina.

La signora-che-stava-andando-alla mutua aveva assunto per l'occasione un atteggiamento assolutamente indifferente, fingendo di non essersi nemmeno accorta della presenza della bambina. Quest'ultima, allora, si spostò di qualche passo, piazzandosi davanti ad altri passeggeri e ostentando con insistenza il suo grande bicchiere.

Anche altri finsero indifferenza, mentre una giovane con gli occhiali, che prima aveva assistito alla conversazione dei suoi vicini senza intervenire, cominciò a frugare all'interno del suo zainetto, spostando e rivoltando una incredibile quantità di oggetti. Quindi con un gesto alquanto plateale, quasi di sfida, estrasse un porta monete e prese una banconota che depose nel bicchiere portole dalla zingarella. Quest'ultima non fece alcun cenno di ringraziamento, mentre sua madre, o quanto meno la donna che l'accompagnava e che se ne stava leggermente in disparte ad osservare con apparente discrezione l'andamento della questua, con un tono quasi meccanico disse: «Che il Signore ti benedica».

La piccola mendicante si avvicinò quindi ad altri viaggiatori cercando, con consumata esperienza, di cogliere nei loro occhi quello sguardo di pena o di comprensione che potesse anticipare l'elargizione di qualche moneta.

Nessuno tuttavia dette più nulla e la piccola, rassegnata ma senza alcun apparente cenno di delusione o di contrarietà, estrasse dal bicchiere i soldi raccolti e li riversò nel marsupio della zingara. Quindi ripiegò in due il bicchiere di carta, ripondendolo in una tasca della gonnellina e si avviò con sua madre verso l'uscita del vagone.

I passeggeri che prima avevano espresso commenti piuttosto pesanti, se ne stavano ora zitti, con atteggiamenti alquanto rassegnati. Nessuno aveva raccolto la sfida della giovane con gli occhiali, forse pensando in cuor suo: «Se quella intendeva provocare, si è risposto con un silenzio che suona quasi come commiserazione della sua stupidità. Poi, alla fine... ciascuno è libero di agire come meglio crede».

Nel frattempo, il treno aveva raggiunto un'altra stazione. Le zingare avevano fatto una breve e veloce corsa, entrando quindi nel vagone successivo, dalle cui porte ancora aperte si udiva ora uscire uno squillante: «Signori, buon giorno... scusate se vi disturbo .....».

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