Nella penombra di una stanza

(Racconto di Gian Cesare Marchesi)

Faceva un freddo tremendo in quegli ultimi giorni dell'anno e all'imbrunire scendeva una fitta nebbia, carica di fumi di legna bruciata nei camini delle case e di odori portati dal grande fiume.

Ricordo ancora, come fosse oggi, quel freddo e quella nebbia della "bassa" pavese, che trasformavano gli steli rinsecchiti nei campi di mais in una sorta di stalagmiti di ghiaccio poste in un antro da girone dantesco. Il freddo filtrava attraverso la trama dei tessuti degli abiti e penetrava nel corpo, come una lama dalle mille punte, mentre la nebbia entrava nelle narici per poi riuscirne sotto forma di un sottile, tenue alito di vapore acqueo, che si confondeva nuovamente con la nebbia.

Si avvicinava la sera dell'ultimo dell'anno e anche noi dovevamo fare qualcosa. Non potevano limitarci a percorrere avanti e indietro, come tutte le altre sere, il Corso principale di quella piccola cittadina di provincia, guardando le solite vetrine e raccontandoci le solite stupide banalità.

Carlo, Luigi ed io: tre compagni di scuola, tre amici da sempre, che cercavano di dare un certo tono vissuto alla loro esistenza provinciale sostenendo a vicenda comuni illusioni e vuote speranze. Proprio nell'anno che stava per iniziare, Federico Fellini avrebbe portato sullo schermo, con "I vitelloni", il mondo scialbo e inconcludente di quella gioventù, che non si era ancora del tutto ripresa dalle passate sventure della guerra e che non si era ancora pienamente inserita nella corsa all'affermazione del successo.

Carlo, Luigi ed io: tre inseparabili amici, normali studenti al mattino e normali perditempo al pomeriggio e alla sera. Crescevamo senza che quasi se ne accorgessimo, costantemente immersi in chiacchiere senza capo né coda, perse dietro sogni del tutto irrealizzabili.

D'altro canto quella cittadina non poteva offrire niente di meglio, priva com'era di stimoli che potessero andare al di là di uno sconnesso campo sportivo comunale, della polverosa "balera" dell'Ariston, e di due o tre sale cinematografiche in cui si proiettavano pellicole di seconda o di terza visione. I rapporti fra i giovani dei due sessi erano regolati da precise norme tacite, in uso forse da tempo immemorabile: i ragazzi stavano per la più parte del tempo fra di loro e le ragazze pure. Quei pochi fortunati che disponevano di una Lambretta, o addirittura di una Rumi bicilindrica, potevano talvolta "rimorchiare" di nascosto qualche loro amica e "imboscarsi" da qualche parte, al di fuori del solito pettegolezzo di strada, salvo poi relazionare abbondantemente gli amici con dettagli tanto più intimi e piccanti quanto più erano inventati. In quei racconti "lei" diventava automaticamente "una che ci sta", e che ciascuno dei presenti avrebbe desiderato portare "in camporella", anche se si poteva facilmente immaginare che "lei" non si sarebbe mai lasciata accompagnare da uno di noi, sotto gli occhi degli altri amici, nel passeggio serale lungo il Corso.

Così i giorni trascorrevano nell'appiattimento più assoluto, sino a quando la scuola avrebbe avuto definitivamente termine. Sarebbe allora cominciata anche per noi la vita lavorativa e presto o tardi ci si sarebbe accasati, tornando quindi la sera a passeggiare lungo il Corso; questa volta a braccetto della moglie, con i figlioletti che trotterellavano due o tre passi più avanti. Un altro genere quindi di appiattimento, più "da grandi".

"Uhe!, ragazzi, domani è l'ultimo dell'anno, cosa facciamo? andiamo a letto presto con le galline?, ci facciamo altre 20 "vasche" sul Corso?, andiamo all'Ariston a ballare?, o cosa?", chiese Carlo fermandosi all'improvviso davanti alle vetrine della cartoleria Bascapè.

"Io non saprei", rispose Luigi, "ma forse un pensierino per l'Ariston ce lo potremmo anche fare. Di solito là ci sono solo delle racchie e delle carampane, ma mia sorella mi ha detto che domani sera "quelle" della quinta A del "classico" organizzano una specie di veglione e, forse, vale la pena di andare a vedere se si può rimediare qualcosa. Mia sorella non mi ha dato gli inviti, ma possiamo sempre provare lo stesso ad entrare. Tanto io qualche compagna di scuola di mia sorella lo conosco, anche se non è proprio della quinta. Tu, Cesare, che ne pensi?"

Io non avevo al momento nessuna idea e quindi mi limitai a un semplice: "Io passo. Per me va bene qualsiasi proposta, purché si faccia qualcosa".

Quelle frasi erano state pronunciate, come al solito, senza nessuna convinzione, così tanto per dire, e come tali finirono presto nel vuoto, senza alcuna decisione conseguente. Riprendemmo la nostra "vasca", guardandoci in giro in modo svogliato come sempre e lanciando le solite stupide battute alla vista di qualche altro amico o di qualche ragazza, soprattutto di quelle che, secondo noi, "non ci stavano".

Sul finire del Corso, proprio là dove anni di tacite usanze avevano stabilito che finisse il percorso di andata della "vasca" e che quindi cominciasse il ritorno nell'altro senso, incontrammo Mauro e Enrico, due amici che frequentavano il locale Istituto Tecnico per conseguire il diploma di perito agrario e diventare, come dicevamo scherzosamente noi, dei "morti in campagna".

"Salve ragionieri, che fate di bello domani sera? avete già qualche programma?", chiese Enrico.

"Mah, sai, si pensava di fare qualcosa", risposi mostrando sicurezza e una certa riservatezza, "abbiamo diverse idee e ci hanno già invitati in vari posti, ma non sappiamo ancora decidere e ... ne stavamo appunto discutendo. E voi due che fate?"

"Noi non avevamo gran che in vista", rispose allora Enrico, "e allora abbiamo pensato di far venire un po' di gente "a Po", in quella casa dove prima ci stava il mio mezzadro e che da un paio d'anni è disabitata. La casa è in ordine, la si scalda prima per bene, Mauro porta il suo giradischi, tiriamo fuori qualche bottiglia di quello buono dalla cantina e se qualcuno porta altri dischi, un po' di panini e qualche bel cotechino o magari mezzo culatello, ci passiamo una bella nottata insieme. Poi ci vorranno anche delle ragazze, ma ho già messo in giro la voce e qualcuna verrà di sicuro. Naturalmente chi ne ha una, o magari due o tre disponibili, le potrà portare. Ma, perché non venite dunque anche voi tre?"

"Dov'è questo posto, e come ci si arriva?", chiese allora Luigi, cominciando a mostrare qualche interesse alla cosa.

"Beh, non è poi tanto difficile. Hai presente Viale Milano? Bene, dopo la caserma dei Vigili del Fuoco si prosegue per quattro chilometri verso il Po. Al quinto incrocio - c'è anche un cartello stradale - si prende sulla destra una strada di terra battuta, con qualche curva, che porta a Pioppeto. Lì non ci si può sbagliare: si sorpassa la chiesa e si va avanti ancora per cinquecento metri, fino ad andare a sbattere contro un grande cancello di ferro. Sui pilastri ci sono due sagome di leoni accucciati e nel cortile c'è la casa dove vivevano una volta i miei. E' lì che facciamo la festa. Oggi dovrebbe essere già andato qualcuno del posto a dare una pulitina e ad accendere le stufe. In tutto sono meno di sette chilometri, e ci vuole certamente qualche mezzo per arrivarci. Volendo ci potete arrivare anche in bicicletta, ma francamente ve lo sconsiglio. In ogni caso e con la nebbia che c'è, state attenti di non finire sull'argine del fiume e di non cascare di sotto."

"Non mi sembra una gran bella prospettiva, ma voi due cosa ne dite?", ci chiese a quel punto Luigi.

Io lì per lì non risposi, mentre Carlo disse: " Se è solo per la strada, io un mezzo per arrivarci lo avrei pure, perché posso guidare l'automobile e mio padre per una volta tanto mi potrebbe lasciare la sua Topolino. Però bisogna che ne parliamo più a lungo fra di noi, perché ... abbiamo anche gli altri inviti sui quali stavamo discutendo prima e ... dobbiamo decidere. In ogni caso", aggiunse, rivolgendosi a Marco, "voi la festa la fate in ogni caso, vero? Se decidiamo di venire anche noi, vi raggiungiamo a Pioppeto. Comunque grazie per l'invito. Per le ragazze ... vedremo eventualmente chi portare."

Salutati Mauro ed Enrico, cominciammo ad esaminare seriamente la loro proposta.

"L'idea", azzardai, "non è poi del tutto male, visto che, sotto sotto, non abbiamo alternative molto più allettanti. Se poi tu, Carlo, riesci davvero a rimediare l'automobile, visto che il posto non è troppo lontano e che già noi siamo in tre ... se rimorchiamo anche due o tre ragazze, con un paio di viaggi avanti e indietro riusciamo a sistemare tutto per bene. Però, questa è soltanto la mia idea. Se voi ne avete delle altre ...".

Riprendemmo a percorrere il Corso avanti e indietro e ad approfondire l'esame dell'offerta di Mauro. Finalmente avevamo qualcosa di concreto su cui discutere. Alla fine Carlo, che dei tre era il più decisionista, ruppe gli indugi:

"Allora siamo d'accordo: ci andiamo. Per la macchina non ci sono problemi, per le ragazze invece ... io ci provo con una che conosco e che mi fa "il filo" da un sacco di tempo. Tu, Luigi, potresti dire a tua sorella di lasciare perdere quello schifo dell'Ariston, dove magari c'è anche qualche rompiscatole di insegnante, e di tirarsi dietro qualche sua compagna di classe. Quelle del "classico" - escluso beninteso quella mezza monaca di tua sorella - di solito "ci stanno". E anche tu Cesare, vedi un po' se riesci a rimediare qualcosa. Fra l'altro, mi pare che tu abbia anche dei bei dischi di "lenti". Portane qualcuno, che vanno sempre bene per lo struscio sulla mattonella. Io vedrò anche di mettere insieme qualche bottiglia di spumante, perché l'idea di brindare con il rosso della cantina di Enrico, non è che mi vada molto a genio. Però datevi da fare, perché il tempo non è molto. Domani sera alle otto e mezza, tutti a casa mia, che partiamo. E chi c'è, c'è."

La sera successiva, agghindati come d'uso a quel tempo, in giacca e cravatta e con una buona dose di brillantina unta e profumata sui capelli, ci trovammo davanti alla casa di Carlo. Io non avevo portato altro se non una decina di dischi a 78 giri; Luigi, aveva portato sua sorella Maria Angela e una seconda ragazza, per la verità alquanto "racchia". Carlo, aveva invece "rimediato" tre bottiglie di spumante, qualche cotechino ben stagionato e un paio di grosse "miche" di pane.

La Topolino era già pronta nel cortile di casa e, visto che tutto sommato eravamo solo in cinque, stringendoci un poco potevamo starci dentro tutti quanti, risolvendo così in un unico viaggio il problema del trasferimento. Il padre di Carlo stava ad osservare la scena sulla porta di casa e prima della partenza non poté esimersi dal dire, forse per l'ennesima volta: "Carlo, sii prudente. Appena fuori, c'è una nebbia da tagliare con il coltello e può darsi che ci sia anche del ghiaccio per terra. Tornate presto, mi raccomando."

Finalmente partimmo. Carlo alla guida, io alla sua destra, Luigi e le due ragazze ben schiacciati sul sedile posteriore e curvati abbastanza per non sentire sulla testa gli spifferi d'aria gelida che filtravano dal tettuccio in tela della rumorosa Topolino.

Usciti dalla città, ci trovammo improvvisamente di fronte un muro impenetrabile di nebbia. Stavamo comunque ancora percorrendo il tratto di strada asfaltato e l'unico riferimento più o meno visibile era costituito dai grossi paracarri in pietra, dipinti con vernice a strisce bianche e nere. Fortunatamente il traffico, soprattutto serale, era a quel tempo pressoché inesistente e la nostra paura era più di finire contro un paracarro o in un campo di mais a lato della strada, che non di scontrarci con qualche altro veicolo che potesse sopraggiungere dall'altra parte.

Carlo ci aveva detto che al quinto incrocio avremmo dovuto svoltare a destra: il problema che ci si poneva al momento era quindi quello di raggiungere e di identificare il famoso quinto incrocio. Procedevamo a velocità molto bassa, con le luci ovviamente accese e ogni tanto io scendevo dalla Topolino per fare, a piedi, il punto della situazione. Finalmente raggiungemmo la famosa strada sterrata e ci avviammo verso l'abitato di Pioppeto. Il problema comunque si rese ancora più arduo, in quanto la strada era del tutto priva di paracarri, senza alcuna illuminazione e, per di più, era costeggiata da un canale scolmatore, interamente gelato.

Si trattava di percorrere in quelle condizioni soltanto due o tre chilometri, ma riuscimmo nell'intento soltanto perché Luigi ed io ad un certo punto ci mettemmo a camminare uno sul lato destro e l'altro sul lato sinistro della strada, indicando a Carlo dove far marciare la vettura in prossimità delle tante curve esistenti. Le due ragazze, intanto, se ne stavano beatamente a chiacchierare sedute sul sedile posteriore che, fortunatamente per loro, con un passeggero in meno era diventato più confortevole.

Alla fine arrivammo a superare la chiesa del paese e i cinquecento metri che ci separavano dal famoso cancello con le statue dei leoni.

Nel cortile della casa di Enrico c'erano parcheggiate altre due automobili, tre o quattro Lambrette, una Guzzi con il sidercar e una dozzina di biciclette. Eravamo quindi forse fra gli ultimi arrivati e si erano già fatte circa le dieci di sera.

La casa era una delle tipiche abitazioni delle fattorie della "bassa": una lunga costruzione a due piani con portici a destra e a sinistra per il fieno, le balle di paglia, i carretti e i macchinari agricoli. Sul fondo del cortile, i fabbricati delle stalle e lo spiazzo per la mietitura del frumento. Al pianterreno dell'abitazione erano situate la cucina, un'ampia "sala" e qualche altro piccolo vano di servizio. Al piano superiore, le camere da letto.

La cucina e la sala erano già affollate di giovani che si alternavano fra un ballo, un panino imbottito e un abbondante sorso di vino. Entrammo, salutammo Mauro, Enrico e altri che vedevamo per la prima volta, e ci avventurammo anche noi nella sala, dove un radiogrammofono a valigetta stava diffondendo un languido slow che cullava quattro o cinque coppie di giovani immersi nella danza. I ballerini stavano avvinghiati l'un l'altro come se fossero stati uniti con la colla e sembrava che attorno a loro non esistesse nulla. Le luci dell'unico lampadario erano state attenuate con dei panni e l'aria era densa di fumo di sigaretta e di odori di vino.

Raggiunsi il giradischi e attesi che finisse il brano che stava in quel momento suonando. Quindi misi uno dei miei dischi preferiti e cercai inutilmente con lo sguardo qualche fanciulla disponibile per un ballo. Carlo e Luigi nel frattempo si erano abbandonati al piacere delle danze con le due ragazze che avevamo portato con noi e, quindi, non mi restò altro da fare che tornare in cucina per arraffare qualcosa da mettere sotto i denti e assaggiare il famoso "rosso" della cantina di Enrico.

Cosa successe, da quel momento in poi, non mi è più tanto chiaro. Ricordo vagamente di aver ballato, di aver mangiato e bevuto, di aver ballato ancora, di aver mangiato e bevuto ancora. Ricordo che ad un certo punto, mi ritrovai seduto su una sedia in uno di quei piccoli locali di servizio che stavano accanto alla sala; forse in origine era un piccolo studio, o forse semplicemente una stanza ripostiglio. Il locale non aveva illuminazione e qualche tenue raggio di luce entrava dalla porta aperta. Attorno a me c'erano delle altre sedie e su ognuna di loro c'era una coppia, con "lei" seduta sulle ginocchia di "lui" e i due, languidamente abbracciati, si scambiavano piacevoli effusioni.

Ad un certo momento entrò nella stanza una ragazza che intravidi vagamente nel controluce della porta, e che venne a sedersi sulle mie ginocchia. Mi pare di ricordare i suoi lunghi capelli che mi inondavano il viso, mentre le sue braccia mi avvolgevano a lei. Senza dire una parola, cominciò a baciarmi appassionatamente. Nello stesso tempo teneva a bada le mie mani che, evidentemente, stavano cercando qualche contatto un poco più intimo.

Non so dire per quanto tempo durò questo momento e, in verità, oggi non posso giurare che si trattasse di un fatto realmente accaduto o soltanto di un sogno, favorito da qualche bicchiere di troppo. Ebbi tuttavia l'impressione di un'avventura durata a lungo e della quale, purtroppo, non ricordo neppure la conclusione.

La festa terminò soltanto ad alba inoltrata, quando la luce del giorno aveva ormai in parte dissipato la coltre di nebbia.

Non so come, ma rientrammo indenni alle rispettive abitazioni e neppure nessuno degli altri miei amici, Carlo, Luigi ed Enrico, mi seppero mai fornire chiarimenti circa la mia misteriosa compagna di quella notte di baldoria. Mauro, solo lui, quando l'avevo incontrato alcuni giorni dopo, aveva azzardato un tentativo di risposta che aveva comunque lasciati intatti tutti i miei interrogativi:

"Chi?, quella bella ragazza alta e magra, con i lunghi capelli neri? Si, mi pare di averla vista, ma non so bene chi fosse e neppure chi l'avesse accompagnata. Non era comunque una mia amica. Da allora non l'ho più incontrata neppure io. Come si chiama e dove abita? No, proprio non lo so. Quella sera c'erano ragazzi e ragazze del posto, ma anche gente arrivata da Pavia. Forse lei aveva litigato con il suo ragazzo e si voleva vendicare, così c'è stata, o ha fatto finta di starci, con te. Oppure, più semplicemente, ti sei soltanto sognato di avere avuto con lei quell'avventura. Ma sai, nessuno di noi aveva certo lesinato con il vino e anch'io non ho le idee molto chiare su quella notte."

In questo insieme confuso di ricordi è rimasta la sola certezza di quella nebbia e di quel freddo che penetravano fino nel profondo del corpo e di una serata nella quale i sogni e la realtà si erano uniti in un tutt'uno ben difficile da sciogliere.

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