La rimpatriata

(Racconto di Gian Cesare Marchesi)

Lo squillo del telefono mi fece sobbalzare dalla poltrona su cui mi ero appisolato nella interessante visione della trecentosettantaquattresima puntata del serial televisivo sulla saga dei Johnsson. Feci una certa fatica a scuotermi dalla sonnolenza che mi aveva colto nel bel mezzo del voluttuoso amplesso fra il giovane Martin J. Johnsson e la prosperosa cognata Margareth e sollevai il ricevitore.

«Ciao, ma sei proprio tu, Cesare, quello che correva in bicicletta? Ti ricordi di me?», sentii dall'altro capo del filo.

«Sono Gianni Alfonsini, il tuo compagno di scuola della quinta C del liceo Carducci. Quanto tempo è passato. Non ci siamo più visti da quel giorno, quando con una terribile paura addosso aspettavamo che venissero esposti i risultati degli esami di maturità. Sai, io dopo di allora ho cambiato città e mi sono iscritto a lettere. Con una fatica che non ti dico, alla fine ce l'ho fatta e mi sono laureato. Ora insegno in una scuola. Ma lasciamo perdere. Mi sono anche sposato ed ho due figli grandi, un maschio e una femmina che sta quasi per accasarsi con un avvocato di Brescia. Ma tu, piuttosto, dimmi, cos'hai fatto e cosa fai ora di bello?»

«Gianni, Gianni Alfonsini», mi stavo chiedendo, «chi è mai questo Carneade?»

Poi, per non sembrare scortese, azzardai: «Ma certo, Gianni, la quinta C. Quanti anni sono passati, e che bei tempi!»

Nel frattempo, mi scervellavo per cercare di ricordare il volto di questo vecchio compagno; qualcosa che mi ricollegasse ad una delle tante classi che avevo frequentato nel mio peregrinare da una città all'altra seguendo i trasferimenti per lavoro di mio padre.

«Bene, sai», continuai, per prendere tempo, «anche la mia famiglia si trasferì poco dopo. Andammo prima a Parma, poi a Verona, fino a quando ritornammo qui. Ho girato il mondo in lungo e in largo per lavoro, ed ora ho smesso di fare il piccione viaggiatore. Ho un'attività abbastanza sedentaria; niente di speciale, ma che mi consente di non lamentarmi.»

Intanto, avevo finalmente ricollegato quel nome a quei tempi ormai lontani e mi si stava delineando nei ricordi l'immagine di un ragazzo di media altezza, piuttosto grassottello - una "secchia", come dicevamo allora - con gli occhiali e con una bici sgangherata che appoggiava sempre, fissata con un lucchetto, ad un albero nel cortile della scuola.

«Ma che piacere sentirti», aggiunsi. «Come hai fatto a trovarmi dopo tutto questo tempo e ....»

«Perché ti ho telefonato?», mi prevenne l'Alfonsini, continuando di getto, «Sono passati più di trent'anni dalla nostra maturità e mi sono chiesto: perché non provare a rintracciare i vecchi compagni e rivederci per una bella rimpatriata? Ecco che allora mi sono dato da fare. Sai, con la Bianca Galimberti, quella trecciolona tutta curve che a quel tempo filava con Roberto, sono rimasto in rapporti di amicizia, e lei mi ha dato una mano per ricordare i nomi, rintracciare gli indirizzi e fare le prime telefonate. Così abbiamo ricostruito la mappa della nostra classe e abbiamo ritrovato alcuni compagni e compagne: la Maria Rosa Alberti, il Paolo Chiesa - si, proprio lui, il bello, con quella "Rumi" rossa bicilindrica con la quale faceva strage di ragazze - l'Angela Ferrari, la Luisa Bonferrati e il Marco Vigezzi. Quest'ultimo - non so se ne hai seguito le vicende - si era dato alla politica, è stato eletto deputato per un paio di legislature e poi è stato segato alle ultime politiche. Ma abbiamo anche appreso qualche brutta notizia: Duilio Manfredini è morto due anni fa per un infarto e la Rita Alessi, trasferitasi in Argentina col marito, è rimasta presto vedova con due figli ancora piccoli. Ma, lasciamo stare le tristezze: quelli che abbiamo trovato sono entusiasti dell'idea e abbiamo combinato di passare una bella serata tutti assieme, sabato prossimo alle nove al ristorante "Alla brace". Sai, quello in via Castelbarco. Ci devi essere anche tu, naturalmente. Saremo solo noi, senza mogli o mariti né, tanto meno, figli. Abbiamo chiesto a tutti di darsi da fare per recuperare altri compagni e se tu ne conosci qualcuno di quelli che non abbiamo ancora trovato, invitali. Poi, chiamami al quarantacinque, quindici, ventisette: mi troverai sempre dalle sette di sera in poi. Ciao dunque, e a presto.»

L'inattesa telefonata mi lasciò alquanto perplesso. Durante il periodo scolastico avevo sempre avuto ottimi rapporti con i miei compagni, mi ero preso le classiche "cotte" per le compagne più graziose, avevo anch'io riso, scherzato, sofferto e goduto i più spensierati anni della nostra gioventù. Poi le nostre strade si erano inevitabilmente divise e dei vecchi compagni non era rimasto altro se non un ricordo sempre più sfumato; qualcosa che si perdeva nel tempo, assieme alla memoria dei parenti più anziani che via via andavano scomparendo.

Nonostante i miei sforzi mnemonici, di Gianni Alfonsini conservavo solo il ricordo di un paio di occhiali, di una bicicletta sgangherata e di una figura rotondetta. Mentre della Rita Alessi ricordavo i capelli lunghi e biondi, un profumo penetrante e dolciastro e una mia convinta infatuazione rimasta del tutto inconfessata ed incompresa.

Da qualche parte, in casa, dovevo avere un album di vecchie fotografie: lo cercai e vi trovai alcune immagini dei tempi della scuola. In una di queste c'erano i volti sorridenti di Alfonsini, di Chiesa, dell'Alberti, della Rita e di due altre compagne di cui, in quel momento, non ricordavo i nomi. L'avevo scattata con la Kodak a soffietto che avevo ottenuto in prestito da uno zio. Eravamo andati in gita scolastica a Gardone Riviera e le ragazze indossavano quelle lunghe e ampie gonne, con alte cinture elastiche strette in vita, che si usavano negli anni '50. La Rita era la più carina di tutte e Paolo Chiesa, dietro di lei, le faceva scherzosamente "le corna" con le dita alzate.

Qualche altro ricordo stava ora piano piano riaffiorando alla mente e così, vincendo una certa ritrosia di fondo, decisi di andare alla riunione.

Alle nove di quel sabato sera mi recai al luogo convenuto, mi guardai attorno e incrociai gli sguardi di un signore e di una signora che parlottavano fra loro nei pressi del guardaroba. Ci sorridemmo, riconoscendoci e ritrovandoci.

«Ma sei proprio tu, Cesare? Sei sempre lo stesso, non sei cambiato molto!»

«E voi», risposi, con una certa commozione, «siete proprio Bianca e Gianni. Nemmeno voi siete cambiati, anche se è passato tanto di quel tempo. Sono contento di vedervi. E gli altri, dove sono i vecchi cari amici della quinta C?»

«Guarda, ne arrivano altri. Sono certamente la Luisa Bonferrati e la Maria Rosa Alberti che devono essersi incontrate lungo la strada», interruppe Gianni con un sorriso.

Ad uno ad uno se ne aggiunsero altri e alla fine eravamo in quattordici, dei ventuno compagni della quinta C.

Fu una sequenza di saluti di gioia:

«Ma lo sai che sei sempre bella come allora?»,

«Anche tu non sei cambiato per nulla»

e di altre simili bugie che rimbalzavano impietose sulle calvizie degli uomini, sulle evidenti rughe delle signore, inutilmente protette da abbondanti creme, e sul buon paio di quintali di tessuti adiposi che nel nostro insieme avevamo accumulato con gli anni.

Ci sedemmo a tavola e ci aggiornammo sulle singole vicende: «Cos'hai fatto dopo il liceo? Cosa fai ora? Ti sei sposato? Quanti figli hai e cosa fanno?»

E fu un susseguirsi di racconti, di storie personali più o meno felici, di descrizioni di successi e di delusioni, di elenchi di malattie, di ricordi di antichi fatterelli scolastici e di altri simili argomenti che, tutto sommato, non interessavano a nessuno. Ciascuno di noi aveva ormai dietro di sé un tempo e una serie di ricordi ben più vasti di quelli che ci avevano visti accomunati sui banchi di scuola e mano a mano che si esaurivano i convenevoli di rito la conversazione tendeva ad assumere un tono sempre più sfumato, quasi prossimo alla noia.

Accanto a me si era seduta Elena Guidotti, una delle vecchie compagne rintracciata all'ultimo momento da non so chi. Mentre si intrecciavano i racconti del tempo che fu, Elena mi disse sorridendo: «Lo sai, Cesare, che io mi ero innamorata di te e che tu non te ne eri mai accorto? Ora te lo posso dire, perché è passato tanto di quel tempo! Tu non vedevi altro che quella smorfiosa ... come si chiamava? Ah, sì la Rita. A proposito, che fine ha fatto?»

Avevo portato con me una piccola macchina fotografica e durante la cena presi alcune istantanee, assicurando i ritrovati compagni che avrei poi fatto loro avere le copie. Qualche giorno dopo ritirai le stampe e me le riguardai a lungo. Vi trovai i volti quasi estranei di donne e uomini di mezza età, che nulla avevano più a che fare con i ricordi dei miei diciott'anni, con i miei sogni e con le passioni di allora.

Gettai allora le fotografie fra i rifiuti, assieme agli indirizzi e ai numeri di telefono raccolti durante quella serata fra vecchi compagni, pensando così di aver fatto qualcosa di giusto, non solo per me, ma anche per Gianni, Elena, Rita, per Marco Vigezzi e per tutti gli altri compagni di un tempo, ormai lontano, che avevamo cercato di far rivivere in un'epoca diversa e in un'illusione di ritrovata comunione di pensieri, di speranze e di interessi.

I miei compagni della quinta C preferisco continuare a ricordarli com'erano nell'immagine in bianco e nero di Gardone Riviera, con "le corna" fatte sulla testa della Rita e con le gonne delle ragazze svolazzanti al vento che veniva dal lago.

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