La ringhiera

(Racconto di Gian Cesare Marchesi)

L'atmosfera che si respirava nel vecchio quartiere milanese di Porta Romana agli inizi degli anni '40 era ben diversa da quella dei giorni nostri. Una diversità che non dipendeva soltanto dal fatto che si poteva tranquillamente camminare lungo i marciapiedi senza fare la gimcana fra gli escrementi dei cani e le automobili parcheggiate in modo selvaggio, o dalla circostanza che con il trascorrere degli anni il modo di percepire le varie "atmosfere" cambia purtroppo per tutti. No, era diversa anche perché c'erano ancora le vecchie case di ringhiera, con tutto il loro antico fascino. In quei fabbricati viveva un'umanità alquanto singolare, della quale ho potuto raccogliere qualche frammento che è rimasto impresso nel profondo dei miei ricordi.

Mia madre non era nata a Milano, ma in quel quartiere era cresciuta, aveva studiato, si era fidanzata e sposata. Non aveva infatti ancora due anni, agli inizi del '900, quando suo padre si era trasferito con la famiglia in città, andando ad abitare in uno di quei nuovi palazzi che lui, capomastro muratore, aveva visto sorgere quasi dalle sue mani. Prima di trasferirsi stabilmente a Milano, mio nonno era costretto a sobbarcarsi tutte le domeniche sera una quindicina di chilometri a piedi per essere pronto, il mattino seguente di buon'ora, a iniziare il suo lavoro al cantiere. Poi, il sabato pomeriggio, lo stesso cammino a ritroso, per raggiungere la famiglia al paesello. Quella strada la percorreva per lo più a piedi scalzi, mettendosi le scarpe in spalla, legate fra loro con i lacci, perché non si consumassero troppo rapidamente.

Il palazzo nel quale aveva preso in affitto l'appartamento era una tipica casa di ringhiera: un grande portone d'ingresso sormontato da una lunetta di legno, un cancello di ferro che divideva in due l'androne, un vasto cortile quadrato lastricato di sassi e un'ampia scala dai pianerottoli aperti, che saliva sino al quarto piano. Affacciate sulla strada, le immancabili botteghe del prestinee (1), del fondeghee (2), del cervellee (3) e del perucchee (4). Un microcosmo quasi perfetto, dove abitavano una cinquantina e forse più di famiglie di operai, di modesti impiegati, di piccoli artigiani e di commercianti.

La ringhiera era costituita da un lungo e stretto ballatoio, col pavimento di pietra e i parapetti di ferro, posto ad ogni piano e che correva lungo tutta la facciata interna del palazzo, seguendo il perimetro del cortile. Aveva la funzione di permettere l'accesso ai vari appartamenti, non disponendo quelle case di veri e propri pianerottoli comuni. Quindi le persone, volendosi recare nei loro quartierini, dovevano necessariamente transitare davanti a quelli dei loro vicini di piano. Se le porte d'ingresso o le finestre erano aperte, si poteva tranquillamente vedere quanto stava all'interno e quando i rapporti di vicinato erano buoni, tutto ciò poteva considerarsi un modo come un altro per socializzare, ma quando erano in corso taluni attriti, la cosa poteva risultare non molto simpatica.

L'accesso ai singoli appartamenti avveniva quindi unicamente passando dalla ringhiera, sulla quale si affacciavano la porta e le finestre dei tre o quattro angusti locali, cucina e bagno compresi, di cui era composto l'alloggio. Non esisteva all'interno dell'appartamento né un'anticamera e neppure un corridoio, pertanto si entrava subito in un soggiorno-pranzo, dal quale due o tre altre porte davano accesso a quella che oggi viene chiamata "la zona notte", e ai servizi. Si poteva considerare già un bel progresso, dal momento che le case costruite solo qualche anno prima avevano ancora un solo gabinetto in comune per tutto il piano, realizzato in una specie di gabbiotto dalle pareti solitamente di legno, posto al termine della ringhiera.

La ringhiera era per i ragazzi anche una sorta di confine protetto che divideva il proprio spazio privato da quello comune, rappresentato sostanzialmente dal cortile. Quando le circostanze lo imponevano, soprattutto a seguito di violenti diverbi che si erano sviluppati nella corte, coloro che si sentivano estromessi dalla comunità si ritiravano nella porzione di ringhiera di loro spettanza e, sbirciando attraverso le sbarre del parapetto, osservavano tristemente i loro compagni che con apparente noncuranza proseguivano nei loro giochi.

Le persone che vivevano in quel palazzo ne avevano anche fatto un loro luogo di ritrovo collettivo, una specie di àgora nella quale si discutevano gli avvenimenti più importanti, si aizzavano o si sedavano le liti, si intrecciavano e si scioglievano amicizie. Il cortile era il proscenio in cui solitamente si svolgeva la parte più significativa di quelle rappresentazioni, mentre le ringhiere dei vari piani erano come gli ordini dei palchi di un teatro, dai quali gli spettatori-attori intervenivano, parteggiando per questa o per quella fazione, sostenendo questa o quell'altra tesi. Ma il cortile era anche il centro di un'arena, dove spesso si affrontavano a viso aperto la sciora Maria, la Ginetta, la Teresina e le altre donne che, pugni ben appoggiati sui fianchi, mascella spavaldamente alzata e generosi seni ballonzolanti, difendevano l'onore della famiglia, dei mariti, dei figli e di tutti i loro congiunti, almeno entro il sesto grado di parentela. Il tutto, espresso rigorosamente in dialetto: se non milanese, almeno preteso tale.

La faccenda del dialetto era alquanto curiosa, perché veniva abitualmente parlato con assoluta disinvoltura fra "i locali", mentre veniva mescolato con abbondanti frasi in Italiano di fronte ad un interlocutore considerato, a torto o a ragione, "forestiero".

Negli anni che precedettero la guerra 1915-18, i miei nonni misero al mondo due figli, un maschio e una femmina, e quando il capo-famiglia, benché non più giovane, fu richiamato al fronte, sua moglie si trovò in una situazione di estrema precarietà e dovette guadagnarsi lo stretto necessario per mantenere la famiglia con la confezione, nel suo stesso domicilio, di giubbe e di pastrani militari. Mio nonno rimase sotto le armi per tutta la durata del conflitto e fortunatamente riuscì a salvarsi, riportando soltanto una ferita da una scheggia di shrapnel (5) austriaco che gli si conficcò in un occhio e che lo disturbò per tutto il resto della vita. Quindici anni dopo la fine del conflitto lo Stato gli fornì, bontà sua, il distintivo di latta dei "Mutilati e Invalidi di Guerra" accompagnato da una modestissima pensione e, un anno dopo la sua morte, a quei quattro poveracci di reduci rimasti ancora in vita venne finalmente concesso anche il "cavalierato di Vittorio Veneto".

Una volta sposatasi, mia madre andò ad abitare in un'altra città e in quella casa di ringhiera rimasero mio nonno e mio zio. Qualche anno più tardi, mio nonno si ritirò in campagna a godersi la misera pensione e lasciò l'intero appartamentino a mio zio, che nel frattempo si era sposato ed aveva messo al mondo tre piccoli. Sua moglie poteva ben definirsi "Milanese DOC" e il prototipo, anche nel nome, di quella sciora Maria citata più sopra. Una donna del popolo; di quelle, come si diceva allora, cont el coeur in man (6); tutta casa, famiglia ... e ringhiera.

I rapporti con la famiglia di mio zio furono sempre ottimi e con mia madre andavo spesso a Milano per incontrare quei parenti. Arrivando da un piccolo paese di campagna, dove le case erano tutte uguali, basse e allineate lungo la via principale, quel grande fabbricato cittadino manteneva per me un fascino particolare, sembrandomi quasi un alveare con le api sempre intente a compiere gesti rituali, immutabili nel tempo.

Lo sferragliare del tram n. 23 nella via sottostante, gli odori di minestrone e di fritto che ristagnavano nell'aria, gli schiamazzi dei ragazzini che giocavano alla lippa (7) nel cortile e i cicalecci delle mamme che si scambiavano le ultime notizie da un piano all'altro, costituivano per me un tutt'uno, intimamente legato a quel quartiere e a quella particolare casa.

**

I miei zii abitavano al terzo piano e sopra di loro vivevano alcune persone originarie della provincia di Napoli: i signori Caputo. O meglio, ci abitavano la sciora Caputo e non so bene quanti altri suoi parenti. L'esatta consistenza di quel nucleo familiare è sempre rimasta per me un mistero, così come il nome di battesimo e le reali sembianze di quella che io ritenevo essere la componente principale, cioè della sciora Caputo.

Quando sentii per la prima volta pronunciare quel nome, non ci feci molto caso, in quanto la cosa non aveva per me molta importanza. Mia zia, infatti, offrendomi alcuni pasticcini, aveva detto:

"Li ha fatti e me li ha regalati la sciora Caputo, del quart pian (8). Si, la nuova inquilina che è venuta ad abitare proprio qui sopra. Una vera signora, sapeste, proprio un tesoro di donna. Con le mani d'oro, che sanno fare di tutto. E poi si dice tanto dei Meridionali: questa è proprio brava gente. Onesti, lavoratori, rispettosi del prossimo. Magari ce ne fossero tanti di vicini di casa compagn (9)."

Tutto per il momento finì lì, con in bocca il buon sapore di quei dolcetti. A pensarci bene, quella volta mia zia proseguì con mia madre nella descrizione di altre mirabolanti virtù della nuova vicina, ma io nel frattempo avevo "spento la radio" e mi ero immerso in non ricordo quali altri pensieri.

Considerata la mia giovane età e la scarsa conoscenza del dialetto, non capivo molto bene il significato di una frase che mia zia pronunciava di tanto in tanto con un sottile tono di soddisfatta complicità: "L'è borlà giò del quart pian (10)."

Pensavo che si riferisse a quanto la sciora Caputo le aveva fatto avere, sul genere di quei famosi dolcetti, ma più tardi compresi che il "quarto piano" della sua vicina era puramente incidentale e che la frase si riferiva a ciò che poteva essere entrato in casa inaspettatamente e a titolo del tutto gratuito.

La volta successiva che mia madre ed io tornammo a trovare gli zii, non potei fare a meno di ascoltare un nuovo accalorato resoconto sulla ormai famosa sciora Caputo:

"Pensate che l'alter dì (11), quella screanzata di una Napoletana - ma che se torni giù dalle sue parti che è meglio - si è permessa di dare del maleducato al mio Pinuccio, che senza volerlo, lanciando un sasso con la fionda aveva fatto un piccolo strappo a un lenzuolo che lei aveva steso e lasciato penzolare lì, proprio sopra la mia ringhiera. Che poi, oltre tutto, era un lenzuolo vecchio e tutto rammendato. Un buchetto da niente, che quasi non si vedeva, ma quella strega...."

Io ascoltavo senza alcun interesse, mentre mia madre fingeva un certo qual coinvolgimento nella penosa vicenda:

"Ma va là, Maria, cosa mi dici mai? Io credevo che i vostri rapporti fossero buoni. L'altra volta ti aveva anche portato un piatto di quei dolcetti ... Mi sembrava che fosse una persona per bene o, almeno, così mi avevi detto."

"Per bene un accident. Propri lee (12), che tutte le mattine scuote lo zerbino facendo cadere el vonc(13) qui, proprio davanti alla mia porta. Ma lo sai che quando va dal scior Guido el cervellee (14), quello che ha la bottega qui sotto, compera solo i rimasugli dei salumi, perché non ha mai abbastanza soldi per farsi dare quello che mangiano tutte le persone normali? La sciora Ginetta, quella del secondo piano, mi ha detto - s'intende in confidenza - che quella lì, la Napoletana, i soldi che porta casa il marito, se li gioca e li perde quasi tutti al lotto. E così, tutta la famiglia campa con le cotiche che quasi le regala el scior Guido."

Io, come al solito, avevo posto nel frattempo la mia attenzione a tutt'altro, ma non avevo comunque potuto evitare di registrare un resoconto alquanto negativo di una donna per me del tutto sconosciuta, se non per il fatto di avere preparato, tempo prima, delle squisite leccornie.

Qualche settimana più tardi, tornati a Milano, mia madre ed io stavamo percorrendo la lunga ringhiera del terzo piano, quando si affacciò sulla porta di casa la sciora Virginia, il cui appartamento precedeva di almeno quattro porte quello dei miei zii.

"Voi siete i parenti della sciora Maria, vero? Quelli che abitano in campagna. La Maria mi ha parlato spesso di voi. Ora non è in casa: l'ho vista uscire circa un'ora fa con il Beppe per mano, e mi ha detto che sarebbe andata all'ufficio postale. Gli altri due ragazzi, invece, sono all'oratorio. Come sapete, il Pinuccio deve fare la Prima Comunione e la Maria Rosa la Cresima. Ma É non state qui fuori ad aspettare. Venite dentro da me, e quando la Maria ritorna ... la vedrete certamente passare. Non sarà poi tanto gelosa se vi trattengo qualche minuto a casa mia."

Fu così che entrammo nelle grazie anche della sciora Virginia. Si può facilmente immaginare quanto grande fosse il mio interesse di bambino nello stare ad ascoltare tutte le storie che quella brava donna riuscì a sfornare in poco meno di un'ora. Sua figlia diciottenne, ad esempio, "...una bella ragazza, tutta casa e lavoro. Peccato che ora non sia qui, che l'avreste potuta vedere ... ", si era fidanzata da poco con un tale Carletto, figlio dei signori che abitavano al primo piano, dall'altra parte del cortile.

"...proprio un bravo figliuolo e, vel disi mì (15), un gran bel ragazzo! Anche lui tutto casa e lavoro. Innamoratissimo, sapeste, de la mia toseta (16). Non è ricco, però ha studiato e sta già facendo una bella carriera in banca. Se tutto va bene, l'anno prossimo si potranno sposare. Mio marito ed io siamo proprio contenti. Il mio Filippo poi, non ne può più di diventare nonno."

Quindi, la sciora Virginia ci parlò dei suoi rapporti con mia zia:

"Da quando ci conosciamo, e sono già parecchi anni, siamo sempre andate d'accordo. Se ne abbiamo bisogno, ci aiutiamo a vicenda e mai una parola di troppo, mai una lite. E sì che in questo palazzo ce ne sono di persone ch'in minga trop per la quale (17). Pensate, ad esempio, che l'alter dì (18).... e che due settimane fa ...."

In breve fummo messi dettagliatamente al corrente di tutto ciò che era successo nel corso delle ultime settimane, e io ormai mi chiedevo cosa avrebbe potuto ancora raccontarci mia zia Maria, al suo rientro.

Quando finalmente lei arrivò, ci rilevò tutti quanti, sciora Virginia compresa, e ci fece entrare in casa. Qui giunti, rimasi nuovamente sorpreso nell'ascoltare un quadro completamente diverso circa l'ormai familiare, seppure tuttora incerta, immagine della sciora Caputo. Mia zia, infatti, cominciò a stendere un fiorito e colorito panegirico sulle virtù dell'inquilina del piano di sopra, con la sciora Virginia che ascoltava e assentiva con la testa. Secondo la più recente opinione della zia Maria, la sciora Caputo era un'ottima moglie e madre di famiglia, una cuoca eccezionale che sapeva preparare pietanze deliziose, una donna generosa che non lesinava su favori e regali di ogni genere a chicchessia; una persona - per di più - dotata di un carattere dolcissimo.

"Non passa giorno", diceva ancora mia zia, "che lei non chiami di sopra uno dei miei fioeu (19) per dargli qualcosa di buono che ha cucinato con le sue mani. Ieri ha chiamato la mia Maria Rosa per darle una torta di mele che l'era una delisia (20). Badate bene, non che io non ricambi le sue gentilezze: tre giorni fa le ho regalato una sciarpa di lana, nuova nuova, fatta proprio da me l'estate scorsa. Poi, ogni volta che tuo fratello", proseguì rivolgendosi a mia madre, "mi porta a casa qualcuna di quelle cose pubblicitarie che gli avanzano nel suo lavoro, tipo i lapis (21), i notes (22) ed altre cose di cancelleria; roba, s'intende, che la borla giò del quart pian (23), io gliene mando sempre di sopra un po'. Con i tempi che corrono, quelle cose possono sempre servire ai ragazzi che vanno a scuola. A proposito, sapeste che bravi i ragazzi della sciora Caputo! Dovreste proprio vedere. Pensate che il suo Antonino ..."

E via di questo passo. Sembrava quindi che la vicina si fosse ampiamente riabiltata agli occhi di mia zia e avesse così cancellato, forse per sempre, anche il marchio d'infamia per essere, oltre tutto, anagraficamente Napoletana.

Ma non era finita così. Un paio di settimane più tardi, nel corso della nostra ormai abituale visita e per un buon paio d'ore, dalla bocca di mia zia Maria non uscì il benché minimo accenno alla sciora Caputo.

Eravamo ormai nel periodo peggiore della seconda guerra mondiale e la zia ci parlo di tante cose: del costo della vita che aumentava a dismisura; del pericolo imminente dei bombardamenti; di un abito ormai dismesso di mio zio, che lei aveva sistemato alla bell'e meglio facendone un paio di pantaloncini per i miei cuginetti; di mio nonno che da qualche tempo non si faceva più vivo con lei, e di altri argomenti più o meno simili. Ma della sciora Caputo, nemmeno una parola.

Io stavo quasi per dimenticarmi dell'esistenza di quella sua vicina, quando improvvisamente dal balcone del quarto piano scese, quasi cullata da un alito di vento, una piccola scia di polvere e di battitura di tappeti. Mia zia, allora, uscì furibonda sulla ringhiera e rivolta verso l'alto, urlò a squarciagola, affinché tutti nel palazzo sentissero bene:

"Bruta vonciona! Adess vegni su e te fo vedee mì! (24)"

Il repentino passaggio dal "lei" usato abitualmente nel palazzo a un ben più familiare "tu", scandito con enfasi, non stava a significare l'esistenza di un semplice rapporto di amicizia, bensì un enorme disprezzo nei confronti della destinataria di quegli improperi.

Poi, senza aggiungere altro all'indirizzo della colpevole di tale misfatto e senza mettere in pratica la tremenda minaccia, mia zia Maria rientrò in casa, chiuse accuratamente la porta e ci relazionò abbondantemente sulle ultime malefatte "della Napoletana", che ora qui ometto per rispetto del lettore.

Ma ormai non ci capivo più nulla. Mi sembrava che la sciora Caputo avesse ampiamente superato lo stesso Napoleone Bonaparte nel salire sugli altari e nel cadere nella polvere. Nel volgere di pochi mesi si erano già verificati almeno tre o quattro cambiamenti di giudizio. E forse nulla poteva considerarsi ancora definitivo. Ma tutto ciò faceva parte della vita quotidiana del quartiere, di un'umanità che gravitava, nel bene e nel male, attorno ai cortili di quelle vecchie case di ringhiera.

**

In quel fabbricato non c'era la guardiola del custode e neppure il tradizionale custode. C'era tuttavia una specie di portinaia. Si chiamava Elvira, ed era una donna alquanto corpulenta, sui quarant'anni, che abitava in un quartierino al piano terra, all'interno del cortile, proprio sulla destra dell'androne. Il suo compito era di scopare le scale, ritirare e distribuire la posta, urlare in continuazione con i ragazzi che giocavano al pallone facendo un chiasso indiavolato, e accordarsi con i vari artigiani ambulanti per permettere loro di introdursi di tanto in tanto nel cortile e di svolgervi le loro attività abituali. C'erano infatti el molètta (25), el materassee (26), el stagnin (27), l'impajador (28), l'ombrellee(29), ed altri operosi personaggi che a turno stazionavano con i loro curiosi banchetti nel cortile. Il loro arrivo era sempre annunciato da sonore grida, del tipo: "Donne, donne, gh'è chi el molètta (30)", che riunivano attorno a quei banchetti tutte coloro che avevano qualcosa da far riparare. La sciora Elvira, come si direbbe al giorno d'oggi, "coordinava" dunque l'andirivieni degli ambulanti, concedendo il diritto d'ingresso nel cortile a seconda delle sue - diciamo così - personali simpatie.

La presenza di quegli ambulanti interrompeva per qualche tempo le ordinarie beghe di palazzo, facendo posto a tutta una nuova serie di confidenze fra le inquiline:

"Pensi lei che quel balòss del materassee (31) mi ha chiesto 5 lire per rifarmi il materasso del mio Carletto. L'anno passato ne ha voluto solo 4 per quello della mia mamma, che era ben più malandato di questo."

"E a me, allora? Non me ne parli. Oggi me ne ha chiesto ben 8 per un matrimoniale, che era quasi nuovo. Adesso vado giù e gliene dico quattro, così impara a non fare troppo il furbo. Non li rubo mica i danèe (32) io! Certo che quella betonega d'ona portinara (33), dovrebbe stare più attenta e non fare entrare certe persone. Ma dia retta a me, si vede che quella ci ha il suo tornaconto, altrimenti ..."

La sciora Elvira aveva anche una figlia, che rispettando fedelmente l'antico detto milanese, era a tutti gli effetti "la tosa de la portinara (34) ", cioè una simpatica giovane a volte molto amata e altre volte giudicata un tantino troppo biricchina. Si chiamava Maria Teresa, ma nel cortile era nota come la Teresin. A quell'epoca aveva all'incirca 16 anni ed essendo ben più grande di me, non rientrava nei miei diretti interessi, così come io certamente non entravo nei suoi. Ma un giorno successe qualcosa che mi stuzzicò una certa curiosità. Ero andato a trovare gli zii e mentre le donne stavano parlottando fra loro di non so cosa, io sbirciavo dalle sbarre della ringhiera i ragazzi che giocavano nel cortile. Poi, improvvisamente, la sciora Elvira uscì urlando dal suo appartamento, brandendo una scopa di saggina e cercando di rincorrere la Teresin, che a sua volta cercava la salvezza in una precipitosa fuga.

"Se te ciappi, te fo vedé mi, brutta scema, disonor de la mia cà (35)."

Mia zia e mia madre uscirono anch'esse sulla ringhiera per capire cosa fosse successo e poco dopo compresi, dal resoconto fatto da mia zia in una forma secondo lei molto riservata, la ragione di tutto quel frastuono.

Appresi così che quella casa, oltre alle ringhiere, un cortile, una portinaia e tanti vivaci abitanti, aveva anche numerose cantine, cui si accedeva da una porticina che si apriva nell'androne e da una ripida scala che le stava appena dietro. Secondo mia zia Maria, voci solitamente bene informate del palazzo sostenevano che nei corridoi di quelle cantine succedevano "delle cose sporche" e che un giorno una coinquilina, scesa in cantina per ritirare non si sa bene cosa, aveva intravvisto nella semi oscurità la Teresin in compagnia del Giuseppe, il figlio del panettiere, in un atteggiamento alquanto sconveniente. Sempre secondo il resoconto di quella testimone oculare, i due giovani stavano appoggiati, stretti stretti uno contro l'altro, alla porta della cantina della famiglia Tremolada e il Giuseppe faceva alla Teresin qualcosa che "É per decenza, mi podi minga dì (36)", dopo di avere alzato per quanto potesse bastare, la gonna della fanciulla.

Questo fatto increscioso era naturalmente giunto anche alle orecchie della sciora Elvira, che aveva fatto una scenata &endash; beninteso a porte chiuse &endash; alla figlia, per poi riprendere il giorno dopo lo stesso sermone con il Giuseppe. Ma quest'ultimo si era difeso molto cavallerescamente, dicendo di essere soltanto una vittima, perché tutta la storia era cominciata per colpa della Teresin, che l'aveva attirato in quella cantina con la scusa di farsi aprire una serratura che si era incantata. La spiegazione non aveva per nulla acquietato l'ira della sciora Elvira che, da allora, si era messa a sorvegliare più da vicino la figlia, rincorrendola con la scopa ogni qual volta le sembrava colpevole di qualche altra scappatella erotico-sentimentale.

Fosse o non fosse vera, quella storia aveva ormai decretato la condanna della Teresin, che veniva additata dalle benpensanti del palazzo come una ragazza poco seria e, come tale, da tenere alla larga dai propri mariti.

"L'occasione", dicevano, "fa l'uomo ladro, e nel dubbio É "

Mi risulta che qualche anno più tardi la famiglia dei miei zii sia stata invitata al gran completo al matrimonio della Maria Teresa. Infatti la zia Maria puntualmente ci relazionò in merito:

"Ma si, la conoscete no?, la tosa de la portinara (37). Una brava ragazza, sapeste. Ha sposato il Giuseppe, il figlio del panettiere, anche lui un gran bravo ragazzo, tutto lavoro e casa. Ed è stato un matrimonio di lusso, con tanti invitati, perché al prestinée i soldi non mancano di certo, ma anche la sciora Elvira, la portinara, con tutte le mance che prende o de riff o de raff, la dorma minga a l'umid, lee (38). C'erano anche i sciori Caputo, i Napoletani che abitano qui sopra, al quarto piano: sapeste che brava gente! La sciora Virginia, la mia visina, l'era minga vegnuda perché, mi so no, ma la g'aveva i so robb (39). Ma c'erano i sciori Tremolada e anche i sciori..."

**

Infine, venne il giorno in cui i miei zii acquistarono un appartamento in un condominio in un'altra zona di Milano e lasciarono così Porta Romana. I cugini - ormai cresciuti - si sposarono e si dispersero qua e là, e quella casa uscì per sempre dalle mie mete abituali. Se oggigiorno esiste ancora, forse è stata ristrutturata, frazionata in tanti appartamenti condominiali dotati di doppi servizi, di ascensori automatici e di termo-riscaldamento centralizzato, e forse il lastrico del cortile è oggi oggetto di accalorate discussioni fra i condomini sul diritto o meno per qualcuno di loro di parcheggiarvi le automobili. Ma quasi certamente non si sentirà più aleggiare nell'aria l'odore del minestrone e del fritto.

Note:

- 1- il prestinaio
- 2- il droghiere

- 3- il salumiere

- 4- il barbiere

- 5- micidiali proiettili di cannone che quando raggiungevano il bersaglio esplodevano, scagliando tutt'intorno chiodi e frammenti di metallo.

- 6- col cuore in mano

- 7- antico gioco popolare che consisteva nel lanciare il più lontano possibile un bastoncino di legno a due punte, tenuto quasi in bilico su una sporgenza qualsiasi e percosso "ad arte" con un altro pezzo di legno.

- 8- l'inquilina, quella, del quarto piano

- 9- compagni, uguali, simili

-10- è caduto, è sceso dal quarto piano

-11- l'altro ieri

-12- proprio lei

-13- lo sporco, l'immondizia

-14- (ved. nota 3)

-15- ve lo dico io

-16- della mia bambina

-17- che non sono troppo a modo, non sono per bene

-18- (ved. nota 11)

-19- figli, bambini

-20- era una vera bontà

-21- le matite

-22- i block-note

-23- (ved. nota 10)

-24- brutta sporcacciona, ora salgo e ti faccio vedere io!

-25- l'arrotino

-26- il materassaio

-27- lo stagnino

-28- l'impagliatore di sedie

-29- l'ombrellaio

-30- è arrivato l'arrotino

-31- quel birbante del materassaio

-32- denari, soldi

-33- quella pettegola di una portinaia

-34- la figlia della portinaia

-35- se ti prendo ti faccio vedere io, disonore della mia casa!

-36- non posso e non voglio raccontare

-37- (ved. nota 34)

-38- in un modo o nell'altro non dorme certamente all'umido, non ha problemi economici, lei.

-39- la mia vicina non era venuta perché, non so bene, ma forse aveva le mestruazioni

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