Sezione II, stanza 25

(Racconto di Gian Cesare Marchesi)

Il convenuto Abbiati Luigi, nato e residente a Forcella Adriatica, di professione artigiano, aveva atteso per più di due ore, in compagnia del suo taciturno avvocato difensore, seduto su una delle tante panche allineate lungo una parete di quel corridoio della Sezione II che dava accesso alle stanze dei magistrati inquirenti. Lo avevano convocato tre giorni prima con un perentorio invito allegato a un corposo fascicolo, dal quale risultavano innumerevoli capi d'imputazione a suo carico, escluso solo quello di essere stato l'iniziatore della guerra del Vietnam.

Il "burocratese" utilizzato nel documento esprimeva solo unilaterali certezze, senza concedere nulla all'eventualità che l'imputato non avesse, in realtà, commesso nessuno dei crimini che gli erano stati attribuiti.

Nella sua esecrabile e radicata ignoranza dei termini e della prassi giudiziaria, l'Abbiati aveva sempre ritenuto che "criminale" fosse colui che aveva massacrato una vecchietta per derubarla della pensione, o svuotato pistola in pugno la cassaforte di una banca, o che aveva stuprato in rapida successione tre innocenti studentesse o, infine, che aveva investito e ucciso un passante percorrendo a cento all'ora una via affollata del centro cittadino. Ma si era sbagliato.

L'invito notificatogli da due compiti rappresentanti delle forze dell'ordine lo qualificava senza mezzi termini come "criminale" e come "delinquente", in quanto aveva falsificato documenti, defraudato l'erario, raggirato la buona fede di pubblici ufficiali delle dogane, trasferito illegalmente fondi all'estero e architettato un piano diabolico in "associazione criminosa" con altri soggetti non meglio identificati. Ce n'era abbastanza per l'impiccagione immediata e per assicurargli il fuoco eterno dell'inferno.

Tutto ciò si riferiva, se aveva ben compreso, a una vendita che aveva concluso due anni prima con un cliente estero, esportando talune merci che, sempre secondo il documento in questione, erano state artatamente "sottofatturate" per consentire che la differenza venisse trasferita dal cliente su non meglio precisati conti all'estero a disposizione del convenuto.

E l'artigiano Abbiati Luigi, imputato di tali misfatti, era personalmente coinvolto per aver concluso l'affare in qualità di titolare dell'impresa artigiana. Poiché quei reati avrebbero di per sè stessi comportato, secondo le leggi allora vigenti, responsabilità di tipo soltanto amministrativo, i rappresentanti della Giustizia avevano ipotizzato per l'Abbiati il "concorso con altri nell'effettuazione dell'azione criminosa", in modo da invocare l'ipotesi di "associazione a delinquere" e poter così trasferire il tutto su un piano di responsabilità anche penali. Così l'artigiano di Forcella Adriatica era diventato un "criminale".

Il suo avvocato, necessariamente interpellato per assisterlo nello svolgimento della vicenda, aveva ascoltato la sua versione, aveva riflettuto sullo svolgimento dei fatti e aveva concluso con un: "Non si preoccupi, caro Abbiati. Vedrà che si chiarirà il tutto per il meglio. Ma dovrà avere pazienza: queste cose si sa quando cominciano ma non si sa mai quando finiscono"

Finalmente, dopo tanta attesa, furono introdotti nell'ufficio del magistrato inquirente: la stanza venticinque. Si trattava di un angusto locale, letteralmente invaso da scatoloni malamente accatastati da cui spuntavano fasci di documenti polverosi. Un armadio di metallo semi-sgangherato, una scrivania bruciacchiata qua e là dai mozziconi di sigaretta, un tavolino con una decrepita macchina da scrivere e tre o quattro sedie completavano l'arredamento. Sulla parete di fondo, accanto alla finestra, incombeva un ritratto del Presidente della Repubblica, inserito in una cornice pendente sulla sinistra.

Il magistrato, dottor Sebastiano Bonfiglio, era seduto in maniche di camicia dietro la scrivania, mentre un suo collaboratore se ne stava accanto alla macchina da scrivere. Senza troppi convenevoli preliminari, cominciò l'interrogatorio, che si protrasse per più di quattro ore. Il dottor Bonfiglio poneva le domande e il suo collaboratore scriveva; l'interrogato rispondeva e il collaboratore scriveva, mentre l'avvocato, seduto accanto all'imputato, ascoltava in silenzio.

Secondo la deposizione di Abbiati Luigi, non c'era stato nulla di irregolare: aveva venduto quei prodotti ad un prezzo basso in quanto voleva acquisire un nuovo cliente e allo stesso tempo alleggerirsi di una scomoda eccedenza di magazzino. Non c'era stata alcuna differenza di fatturazione e quindi nessuna distrazione di fondi; tanto meno da trasferirsi su presunti conti esteri. Almeno, per quanto a conoscenza dell'interrogato.

"Qui viene proprio il punto", intervenne allora il dottor Bonfiglio, "noi sappiamo che il vostro cosiddetto cliente ha agito, in varie altre occasioni, quale tramite per favorire la costituzione delittuosa di fondi "neri" di note aziende esportatrici italiane e, quindi, anche nel suo caso siamo certi che siano stati costituiti fondi all'estero. Vi sono altre precise testimonianze in proposito. Qualcun altro ha già parlato facendo anche il suo nome e lei non mi venga a dire che non ne sa niente!"

Abbiati Luigi rimase piuttosto sconcertato per l'affermazione del suo interlocutore e ribadì la sua convinzione che la transazione in questione fosse del tutto regolare, ma il dottor Bonfiglio rincarò la dose: "Vede là in fondo, signor Abbiati?", disse, indicandogli una finestra, contornata da inferriate in ferro, sull'altro lato del cortile prospiciente il fabbricato in cui si trovavano, "dietro quelle sbarre c'è la cella di sicurezza, che non è certamente confortevole come una stanza d'albergo della sua riviera Adriatica. Se lei non confessa qui subito tutto quanto, se non mi fornisce il numero del conto corrente in cui sono affluite le differenze che lei ha incassato in nero, la faccio più o meno gentilmente accomodare là dentro, e ci resterà fintantoché non si sarà schiarito le idee. Sappia che altri prima di lei hanno cercato di fare i furbi e presto o tardi hanno ceduto"

Queste ultime battute ovviamente non erano state trascritte dal dattilografo che, quasi casualmente, era uscito nel corridoio per fumarsi in pace una sigaretta.

Memore delle raccomandazioni fornitegli dal suo avvocato, l'Abbiati cercò di mantenere la calma e, pazientemente, rifece la storia di quella vendita, spiegando le ragioni dello sconto praticato al cliente e la sua assoluta ignoranza circa l'esistenza di eventuali altre vicende coinvolgenti quello stesso suo cliente e altre aziende fornitrici.

"Se lei, dottore, è certo che sia stato commesso un reato e se ha già avuto precisi riscontri in proposito, perché chiede a me di dirle cose che non so? Visto che non sono a conoscenza dell'esistenza di nessun conto irregolare, mi dica di quale conto si tratta e mi contesti il tutto con maggior precisione. Io non posseggo e non sono al corrente di alcun conto bancario all'estero; e di questo sono perfettamente certo"

La conversazione proseguì più o meno sullo stesso tono a lungo e, alla fine, fu riletto l'intero verbale dell'interrogatorio. L'imputato fece apportare una serie di correzioni, in quanto lo zelante dattilografo non aveva eccessiva dimestichezza con la macchina da scrivere e neppure con una lingua italiana, che aveva abbondantemente oltraggiato, riempiendo i fogli di plateali errori grammaticali, degni delle migliori barzellette.

Poi, alle fine, esausto e sconvolto dall'assurdità della vicenda, l'artigiano fu congedato dal magistrato inquirente con un accattivante: "Per ora fermiamoci qui, in quanto voglio essere paziente con lei che mi sembra tutto sommato una persona per bene. Però sappia che non mi ha convinto per nulla e che mi costringe a proseguire le indagini. Sono già due anni che investighiamo e lei oggi mi avrebbe fatto risparmiare parecchio tempo e molti soldi allo Stato, se si fosse deciso a parlare. Avrebbe avuto tutta la mia comprensione e il mio aiuto. Ma se mi ha nascosto qualcosa se ne pentirà presto e amaramente. Arrivederci"

Abbiati tornò a casa e attese, chiedendosi continuamente cosa vi potesse essere all'origine di tutta quell'assurda vicenda. Ma non vi furono seguiti.

Due anni dopo, il suo avvocato gli disse che il dottor Bonfiglio aveva "fatto carriera" e che gli era stato affidato un incarico più importante in una sede più vicina alla sua città d'origine, così che la pratica dell'Abbiati era stata affidata a un nuovo magistrato.

Trascorsero altri due anni nel silenzio più assoluto e infine, dietro continue sollecitazioni, l'avvocato si informò sugli eventuali sviluppi, venendo a sapere che la pratica era stata archiviata d'ufficio in quanto "sembrava" che fosse stata finalmente appurata l'insussistenza del reato ipotizzato.

In tutto questo periodo, la posizione di "criminale" dell'Abbiati era rimasta comunque drammaticamente impressa in non si sa quali e quante carte disseminate in quegli scatoloni e in quei fascicoli polverosi. Nessuno si è mai più preoccupato di spiegargli l'accaduto; né si è preso la briga di pensare a cosa Abbiati Luigi, nato e residente a Forcella Adriatica, di professione artigiano, potesse aver sofferto nell'attesa dell'espiazione di qualcosa di cui, forse e se è ancora vivo, non ha ancora ben compreso la natura.

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