Un "vero" socialista

(Racconto di Gian Cesare Marchesi)

Parliamo un poco - perché no? - di politica. Di quella beninteso "seria", così come la credeva e la definiva mio nonno, che di politica se ne doveva per forza intendere.

Con il fazzoletto rosso al collo aveva attivamente partecipato già da ragazzo alle difficili lotte di classe che avevano caratterizzato gli ultimi decenni dell'800 e, pochi anni più tardi, prima di essere richiamato alle armi per trascorrere al fronte l'intero periodo della prima guerra mondiale, aveva coraggiosamente fondato nel paesello natio la locale sezione della "Società operaia di mutuo soccorso".

Di quest'ultima non è fisicamente rimasto altro se non un cippo di marmo bianco al cimitero, con incisi i nomi di una sessantina di soci, elencati nell'ordine della loro morte e sormontati dall'immancabile raffigurazione di una corona d'alloro. Ma se le intemperie e l'incuria dei posteri hanno reso sempre più evanescenti quei nomi, rimangono impresse nella storia le idee e le azioni di uomini che credevano veramente nella solidarietà e nell'uguaglianza, in un'utopistica visione di un mondo non più dominato dalle ingiustizie sociali e dallo sfruttamento dei più deboli.

Nella seconda metà dell'800 i fermenti della rivoluzione proletaria, che avevano fatto immediato seguito alla rivoluzione industriale, avevano preso corpo sotto forma di un "socialismo" che fu ben presto teorizzato ed estremizzato da Carlo Marx e, nel 1891, addolcito ad uso dei fedeli cattolici dalla famosa enciclica Rerum Novarum di Papa Leone XIII.

La "questione operaia" ha rappresentato anche nel nostro Paese un momento epocale, e la migliore presa di conoscenza dei propri diritti da parte del mondo proletario, nonché la necessità che il loro riconoscimento rendesse meno pesante e più equa la vita di tutti i giorni, avevano scavato un solco ideologicamente profondo fra i rappresentanti del "capitale" (la borghesia) e quelli del "lavoro" (il proletariato). La lotta di classe che ne era scaturita aveva avuto momenti di particolare ed anche violenta tensione, ma aveva raggiunto risultati senza dubbio apprezzabili, qua e là favoriti anche dalle visioni illuminate di alcuni capitani d'industria, quali ad esempio l'ing. Alessandro Rossi, fondatore della Lanerossi di Schio, non del tutto insensibili alle istanze delle loro maestranze e - sotto sotto - intelligenti e previdenti curatori dei loro specifici interessi economici.

In questo clima di lotta e di speranza era nata e si era sviluppata l'idea socialista, di cui mio nonno era stato per tutta la vita un fervente sostenitore, e così ben raffigurata anche nel famoso dipinto Il Quarto Stato, di Giuseppe Pellizza da Volpedo.

Nel periodo senza dubbio più drammatico vissuto dal socialismo italiano, quando l'intolleranza di marca fascista significava anche manganellate e dosi massicce di olio di ricino, mio nonno si trovò costretto ad emigrare in Germania, dove rimase per diversi anni ad estrarre torba nelle miniere della Sassonia.

Passata la buriana, se ne tornò al paesello e dopo la Liberazione riprese ad esprimere ancora più apertamente le sue idee. Erano stati finalmente messi al bando i metodi di repressione fascista, ma ciò non ostante in quel piccolo borgo di stretta ed antica osservanza clericale, non potevano passare nella totale indifferenza le convinzioni politiche di quel fiero socialista. Ciò aveva creato nei suoi confronti una sorta di ghettizzazione della quale lui andava comunque molto fiero.

"I Paolotti", mi diceva mio nonno, bollando con quel nomignolo gli elettori presumibilmente democristiani, o comunque politicamente avversari, "se ne accorgeranno, un giorno o l'altro, di cosa saremo capaci di fare noi una volta entrati nel governo. E allora, per loro, sarà finita la pacchia e avranno ancora poco da ridere!".

Non gli interessavano le cariche nel partito, al quale era da sempre orgogliosamente iscritto, non ambiva al successo e disdegnava le riunioni oceaniche, limitandosi ad ostentare in pubblico il distintivo del partito - appuntato al bavero della giacca accanto a quello dei mutilati della Grande Guerra - e a discutere di politica fra i suoi compagni di briscola al "Circolo" del paese.

Il locale "Circolo della società operaia" era stato aperto immediatamente dopo la Liberazione, come luogo di ritrovo dei soci e come spaccio di generi alimentari e di monopolio. Ciascun membro disponeva di un proprio libretto della spesa, sul quale il gestore dello spaccio riportava gli importi degli acquisti, che venivano poi regolati tutti insieme a fine mese con gli incassi delle paghe o delle pensioni. Il Circolo si contrapponeva in tutto e per tutto all'altro esercizio commerciale creato e gestito nel paese dalle ACLI, dove pareva che avessero accesso i soli "Paolotti". Ogni qualvolta mio nonno m'incaricava di andare ad acquistargli un sigaro toscano, "Mi raccomando", mi diceva, "tastalo bene con le dita, perché non deve essere troppo molle, ma nemmeno troppo secco. Devi sceglierlo della giusta maturazione, così come ti avevo insegnato io. E poi, vai soltanto al Circolo. Guardati bene dall'andare a comperarlo dai Paolotti, che loro É nemmeno i sigari hanno di buona qualità". La fumatina di un buon sigaro toscano era per mio nonno una sorta di rito quotidiano, al quale faceva seguito &endash; fra le lagnanze continue e comunque del tutto inascoltate di mia madre - "la cicca" del mozzicone residuo.

Era anche al Circolo, fra un persistente odore di "trani" un acre fumo di sigari e l'assordante vociare di accaniti giocatori di carte, che ogni giorno mio nonno &endash; ormai da tempo in pensione - leggeva il suo fedele "Avanti!", dalla prima pagina sino all'ultima. Era sempre in quel locale che commentava - e spesso criticava - i discorsi di Pietro Nenni e le sue alleanze più o meno palesi con i "compagni deviazionisti" che sempre più si rendevano fedeli osservanti dei dogmi provenienti da "oltre cortina".

Il mio rapporto dialettico col nonno fu sempre caratterizzato da scontri verbali piuttosto accesi. Quando raggiunsi l'età delle prime convinzioni politiche, lui era già abbondantemente avanti con gli anni e tutt'intorno imperversava il clima della più accesa "guerra fredda", con momenti anche di forte tensione. I socialisti di Pietro Nenni e i comunisti di Palmiro Togliatti avevano costituito un "Fronte" unico di lotta che si autodefiniva antimperialista e anticapitalista, e che si fregiava simbolicamente della tradizionale falce e martello accompagnata per l'occasione dall'immagine di Garibaldi. Per contro, sempre secondo mio nonno, "É quel traditore di Giuseppe Saragat", aveva staccato un'altra costola del glorioso Partito Socialista per "É fondare una specie di nuovo partito, che hanno chiamato Partito Socialista Democratico. E hanno anche avuto la spudoratezza di chiamarlo "socialista". Una cosa vergognosa, asservita al Vaticano e ai padroni. Non si capisce bene cosa vogliano, ma comunque vedrai che avrà vita breve".

Anche a causa di questa ferita che lo lacerava nel profondo del suo animo, mio nonno cominciava a sostenere la tesi che "I compagni di oggi non sono più quelli di una volta. Non sono più "veri socialisti". Hanno tradito le idee che ci avevano condotto alle lotte proletarie. Il socialismo è un'altra cosa, non quella che, anche nel mio partito va in giro a spampanare un certo Craxi, che non so bene da dove sia saltato fuori, ma che mi sembra soltanto un ragazzino presuntuoso e arrogante".

Da parte mia, forte di un recente nozionismo scolastico tutto imperniato su concetti di economia e di politica "liberale" ("É al servizio di "padroni", sfruttatori della classe operaia", come li definiva mio nonno), e di una viscerale avversione per gli eccessi degli opposti estremismi, facevo di tutte le erbe un fascio e mettevo sullo stesso piano il socialismo "vero" e il marxismo-leninismo, definendoli entrambi un cancro dell'umanità.

Fra le mie letture preferite c'erano a quel tempo le pagine di "Candido", con le opinioni "viste da destra e viste da sinistra" espresse con magistrale acume da Giovannino Guareschi. Tutto questo scatenava ovviamente la reazione del mio progenitore, che metteva termine invariabilmente anche alle nostre discussioni con la frase lapidaria: "Ma cosa vuoi saperne tu di politica, che non ci capisci proprio niente. Pensa a studiare, che è meglio!".

Mi rendo conto soltanto ora, a distanza ormai di molti anni, che mio nonno aveva ragione. Il suo socialismo era una cosa diversa. In una sola parola, era genuinamente "vero".

Ma era anche qualcosa che faceva parte di un passato che non aveva ormai più nessuna attinenza con le "verità" di un mondo radicalmente mutato. Principali artefici di tali mutamenti erano stati il tempo e i progressi tecnologici, ma anche le lotte proletarie e i sacrifici che quegli uomini e quelle donne avevano vissuto sulla loro pelle.

Oggi non avrei più motivo di "litigare" con mio nonno, perché credo di averne meglio capito le radici e le ragioni, e perché forse anche lui eviterebbe di discutere, limitandosi a sentenziare, fra una nuvola e l'altra di fumo del suo pestilenziale toscano "della giusta maturazione": "Ma cosa possiamo ormai sapere di politica, visto che non ci capiamo proprio più niente. Pensiamo alla salute, che è meglio!"

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