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Alcune riflessioni sul dolore per la perdita di una persona cara

Così come ciascuna persona ha un proprio modo di “sentire” e di vivere i rapporti d’amore, di odio o d’indifferenza nei confronti del suo prossimo; di considerare e valutare ciò che è bello o ciò che è brutto; di stabilire cos’è bene e cos’è male, similmente ha un proprio modo di rapportarsi al dolore per il decesso di una persona cara.
Cercare di individuare e di catalogare delle forme comportamentali comuni, e conseguentemente ipotizzare delle possibili forme per così dire “terapeutiche”, può essere un buon esercizio di analisi, che tuttavia sotto un profilo pratico assume le parvenze di un’astrazione che lascia sostanzialmente immutati i sentimenti radicati nell’animo dell’individuo colpito dalla disgrazia.
D’altro canto, se – com’è stato detto da più fonti – il dolore conseguente ad un lutto “non è di per sé stesso una malattia”, le eventuali terapie non hanno molte ragioni di essere proposte.
Ciascuno, quindi, avverte il dolore affettivo a proprio modo e ne subisce – se del caso - le conseguenze secondo le proprie naturali inclinazioni, la propria spiritualità, la propria cultura, le passate esperienze, e così via; senza sottovalutare le influenze che gli provengono dall’ambiente esterno nel quale la persona stessa è inserita e – non da ultime – le sue stesse condizioni fisiche e psico-fisiche. Poi, ovviamente, ci sono situazioni nelle quali intervengono elementi ancor più particolari, che contribuiscono a rendere complicata la percezione del proprio dolore e la convivenza con lo stesso.
Banalizzando, si può sostenere che diverso potrebbe essere (il condizionale in questi casi è sempre doveroso) il dolore per la perdita di un anziano congiunto, colpito molto tempo prima dal morbo di Alzheimer, rispetto a quello per la scomparsa improvvisa, a causa – ad esempio - di un incidente stradale, del figlio unico di una coppia ormai quasi in età avanzata e che aveva da tempo riposto in quel giovane tutte le residue ragioni di vita. Si tratta di due esseri umani che si sono parimenti spenti, ma che possono aver lasciato differenti strascichi nei rispettivi superstiti.
Tutto ciò, beninteso, non intende assolutamente classificare il dolore secondo una scala prestabilita, del genere: “il mio dolore è più forte del tuo”, bensì mettere in risalto quelle possibili concrete differenze che possono contribuire a smussare la facile tentazione di considerare il dolore come un’unica forma “patologica”, valida erga omnes e curabile con una, o con diverse specifiche terapie.
Se la casistica nella quale si può inserire il decesso di una persona è ampia e variegata, altrettanto varie sono le modalità con cui si può esprimere il dolore di chi resta. E del pari numerose sono le forme soggettive di reazione al dolore stesso.
Per non smentire quanto detto più sopra, dovrei qui astenermi dall’esemplificazione di alcuni casi che possono quotidianamente presentarsi, ma per rendere più comprensibile il tutto, provo a disegnare un piccolo quadro di riferimento. Si tratta di semplici riflessioni che - pur basate su esperienze dirette - non pretendono in alcun modo di sovrapporsi o, peggio ancora, di contrapporsi ai testi redatti da coloro che su questo tema hanno svolto ben più accurati studi. Riflessioni che tuttavia possono servire per l’approfondimento di un argomento di così ampia portata.

Secondo quanto sosteneva Orazio (Odi, I,4, 13-4), “pallida mors æquo pulsat pede pauperum tabernas regumque turres” (“la pallida morte batte con lo stesso piede alle capanne dei poveri e alle torri dei re”) e colpisce al di fuori di qualsiasi schema umanamente logico.
A prescindere per un momento dai decessi in un certo senso tristemente “annunciati”, quali quelli per fame endemica e per denutrizione di intere popolazioni del pianeta, per eventi bellici o per deliberata incuria umana, la gran parte delle dipartite avvengono per malattia, per vecchiaia o per imprevedibili ed imprevisti incidenti traumatici. A farne le spese sono persone di tutte le età e di tutte le categorie sociali, senza esclusione alcuna.
Per restare ancora in tema di sentenze, un vecchio adagio toscano dice: “chi nasce ha da morire, chi ha fratelli ha da spartire”, e lasciando stare per il momento la seconda parte di quella massima, è evidente che al mistero della nascita si aggiunge come naturale ed inevitabile conseguenza, quello della morte.
Ci possono essere dipartite improvvise ed altre più lente, con conseguenti differenti livelli di sofferenza (riferita alla durata della malattia), sia nel soggetto principale che nei suoi cari. Ed anche queste diverse forme di decesso possono portare con sé strascichi e ripercussioni sul “dopo”, avendo magari minato nel corpo – oltre che nello spirito – uno o più dei sopravvissuti. E’ evidente che chi ha assistito in forma diretta per lungo tempo e senza alcun risparmio di energie un proprio caro nella sua lunga e sfibrante lotta contro la Morte, aggiunge inevitabilmente al dolore della perdita anche una propria situazione di effettiva sofferenza fisica.

Ho affermato più sopra che ciascuno ha un proprio modo di amare. Ad esempio, nel corso della mia vita ho conosciuto coppie di sposi che convivevano felici (o, almeno, così poteva intendersi) da anni e che avevano messo al mondo e cresciuto dei figli meravigliosi, pur avendo sempre mantenuto una rigida separazione delle risorse e dei proventi finanziari “di lui” da quelli “di lei”. Altri che per mantenere vivo il loro legame affettivo avevano bisogno – ogni tanto – di scaraventarsi addosso, beninteso soltanto metaforicamente, il “servizio di piatti buono”. Eppure… si amavano tanto.
Allo stesso modo il dolore si può presentare e può esprimersi all’esterno con modalità molto diverse fra loro. C’è chi lo deve “far conoscere” al mondo intero (si tratta di una situazione che, mutàtis mutàndis, ricorda in un certo qual modo l’impiego delle prefiche in certe regioni anche del nostro Paese), e chi se lo tiene chiuso gelosamente nel proprio intimo. Chi riesce in qualche modo a conviverci e chi ne rimane sconvolto al punto da non saperne più uscire, se non – in casi estremi – con un suicidio. Chi ne considera le cause con una sorta di fatalismo (vedi il famoso proverbio toscano di cui sopra) e chi come una disgrazia capitatagli sulla testa quasi a mo’ di fattura (“…non sono bastate le corna e gli scongiuri scaramantici che ho sempre fatto”). Chi addebita le cause della morte del proprio caro alla classe medica o all’intero sistema sanitario, alle leggi-che-non-tutelano-abbastanza-questo-o-quello, o ad altre supposte colpevolezze umane. C’è, infine, chi unisce al puro dolore anche una buona dose di rimpianti e, perché no?, magari anche di rimorsi.
Ho conosciuto ad esempio delle persone che dopo la dipartita di un loro caro hanno preso l’abitudine, mai più abbandonata, di recarsi ogni giorno (e in certi casi anche due volte al giorno) al cimitero, per piangere sulla tomba del caro estinto. Altri che hanno posto in casa una specie di altarino, con fiori e candele che illuminano l’immagine del defunto. Una forma di “ricordo”, quest’ultimo, che si avvicina molto a certi culti/usanze dell’Estremo Oriente.
Ecco che allora le diverse forme in cui si può esprimere il dolore possono installarsi nelle variegate figure presenti nel genere umano con effetti del tutto differenti, portandosi appresso reazioni e conseguenze difficilmente catalogabili in schemi rigidi.

“Ma perché”, può chiedersi o chiedere qualcuno, “dovrei dunque reagire, quando con la perdita di quella persona a me tanto cara ho perso qualsiasi altra ragione di vita?”
Altri, molto più salomonicamente, e con un filo di cinismo, potrebbero adottare il motto “mors tua, vita mea” e dopo di essersi guardati allo specchio per valutare il proprio residuo di vitalità, pensare che “la vita non può finire in questo modo”, per poi… cercare di rimettersi in mare veleggiando verso altri lidi accoglienti.
Fra questi due estremi ci sono infinite forme di reazione e di possibile convivenza con il proprio dolore.
Ma, a questo punto, occorre forse riprendere in esame il termine “dolore” per vedere quale significato può assumere nel comportamento dei singoli individui.
La perdita di una persona cara, con la quale era in essere da lungo tempo un legame molto intenso (padre/madre, marito/moglie, figlio/a, fratello/sorella, nonni e nipoti, ecc.), porta sempre con sè traumi di ampia portata. Prescindiamo per un momento dagli aspetti burocratico-amministrativi (che purtroppo sono spesso anch’essi causa di vari traumi) e limitiamoci a quelli puramente affettivi. Il dolore si veste in un primo tempo di disperazione, d’incredulità, di sconforto, d’insicurezza, di angoscia e, poco dopo, di tristezza, di nostalgia, di ricordi e… di solitudine. Se il dolore non assume in toto o in gran parte quelle caratteristiche, significa – occorre essere obiettivi – che il rapporto affettivo non era poi così intenso come si poteva supporre. Questa potrebbe sembrare un’affermazione alquanto discutibile e blasfema, se non si tiene conto del fatto che, in talune situazioni, la scomparsa della persona “cara” si traduce per il superstite in una forma di dichiarata indifferenza (“quella persona mi ha rovinato la vita; della sua morte non me ne importa nulla”). Poi, in realtà, anche in quei casi potrebbero esserci delle forme di dolore tenute - forse - troppo orgogliosamente nascoste.
C’era stato recentemente un famoso personaggio pubblico che aveva perso il proprio figlio gettatosi da un viadotto autostradale e sfracellatosi sul greto del torrente sottostante. Ebbene, il padre di quel ragazzo si era presentato regolarmente il giorno dopo a presiedere la riunione del Consiglio di Amministrazione di una delle sue società. Ancora più recentemente, due fratelli, entrambi noti piloti di Formula Uno, hanno puntualmente partecipato, con estrema lucidità, ad una gara svoltasi poche ore dopo l’inatteso decesso della loro madre, affetta da qualche tempo da una grave malattia.
Nessuno naturalmente ha il diritto di valutare e nemmeno di giudicare l’intensità del dolore altrui, ma evidentemente ci sono delle situazioni nelle quali altre sollecitazioni della vita quotidiana sembrano far passare in secondo piano il trauma della perdita di una persona cara.
Ciascuno, come detto, ha un proprio modo di amare e di soffrire, così come ciascuno ha un proprio modo di affrontare il “dopo”.

Credo che a questo punto sia anche opportuno soffermarsi un poco a considerare come la trasformazione delle abitudini di vita verificatasi in forma epocale negli ultimi decenni – non soltanto nel nostro Paese - abbia creato situazioni del tutto nuove, alle quali si è reso necessario contrapporre strumenti parzialmente sostitutivi, altrettanto nuovi.
In un tempo ancora non troppo lontano (mi riferisco alla prima metà del secolo scorso) “la famiglia” era solitamente intesa come un insieme di persone (nonni, genitori, figli, fratelli) che vivevano spesso sotto lo stesso tetto, che consumavano i pasti raccolti insieme nella grande cucina, che condividevano le fatiche quotidiane e lo spazio esterno (paese, piazza, corte, ringhiera, ecc.) con altre “famiglie” aventi più o meno le stesse abitudini di vita.
Quando un esponente di una di queste famiglie veniva a mancare, si manifestavano attorno ai parenti più stretti la partecipazione, la solidarietà e il conforto dell’intera comunità, senza alcuna affettazione, senza alcuna remora. Ci si riuniva in una casa o – clima permettendo – ci si sedeva in circolo sull’aia e si ricordava insieme il defunto, confortando il dolore dei superstiti e facendo loro sentire che “non erano rimasti soli”.
A questo proposito, per interporre una parentesi un poco distensiva in un elaborato che per sua stessa natura distensivo non può essere, ricordo un vecchio detto in uso dalle mie parti, e che così recitava:

gli uomini,
quando nascono, sono tutti belli,
quando si sposano, sono tutti ricchi,
quando muoiono, sono tutti bravi.


Ora, purtroppo, assieme a molti altri valori, si è perso anche quell’antico senso della comunità allargata, che forse è sopravvissuta in minima parte soltanto in qualche sperduto angolo delle vecchie città o in qualche piccolo villaggio di campagna.
Nei più importanti agglomerati urbani ci sono ora i grandi “casermoni” (simili spesso a degli immensi dormitori), i condominii o le villette unifamiliari, dove vivono famiglie molto meno numerose che non nel passato. I nonni, se ancora viventi ed auto sufficienti, abitano per conto loro, magari svolgendo il ruolo di baby sitter per i nipotini, che vengono ogni giorno prelevati, a mo’ di pacchi postali, e amorevolmente curati in sostituzione dei giovani genitori, a loro volta impegnati nelle loro pur necessarie attività lavorative.
Negli appartamenti, c’è sempre una porta d’ingresso (spesso fatta debitamente corazzare: “con i tempi che corrono... non si sa mai cosa può capitare”), che quando viene chiusa, “lascia fuori” il resto del mondo, così come il resto del mondo “chiude dentro” i relativi abitanti.
L’incomunicabilità fra “vicini” appare sempre più evidente e spesso diventa persino difficile scambiare qualche frase, che non sia di pura circostanza, quando casualmente s’incontra in ascensore l’inquilino della porta accanto.
Quando una persona passa a miglior vita, i vicini si sentono in obbligo di presentare ai parenti le loro condoglianze, di partecipare alla funzione religiosa, di contribuire alla spesa per la corona di fiori. Si sentono anche pronunciare frasi del tipo: “mi raccomando, per qualsiasi cosa di cui avesse bisogno, non si faccia scrupolo di farmelo sapere: io sono sempre a sua disposizione”. Dopo di che, corrisposta questa “tassa” che consente di mettere a tacere la propria coscienza, viene chiusa la porta di casa... lasciando fuori il resto del mondo.
Si tratta di manifestazioni del tutto formali che non aiutano di certo a mitigare il dolore per la perdita di un proprio caro. Ma sono proprio situazioni generate dalle nuove condizioni di vita, alle quali si cerca di porre rimedio anche attraverso quelle altrettanto nuove forme di volontariato - quali i Gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto - di cui parlerò brevemente in seguito.

Come ho già avuto modo di dire, il dolore affettivo colpisce le singole persone in modo molto soggettivo ed è difficile stabilire dei modelli equamente validi per tutti. Tuttavia il senso della perdita di un proprio caro può assumere aspetti meno soggettivi e meno estemporanei se viene alimentato e assistito da una convinta fede religiosa.
Personalmente mi ritengo “un cattolico poco praticante” e, come tale, non sufficientemente edotto in materia religiosa. Ma pur in qualità di modesto “credente”, confido nell’esistenza di un mondo che travalicando la caducità della vita terrena, la perpetua; e nel quale le anime dei defunti vivono in eterno, godendo della luce di Dio.
Sotto questo profilo, vedo la pur dolorosa perdita di una persona cara come un passaggio obbligato nell’eterno ciclo dell’umana esistenza e se anche mi rendo perfettamente conto della triste mancanza di una certa realtà fisica, “sento” costantemente attorno a me la presenza dello spirito dei miei più cari defunti, che mi aiutano a superare i più tristi momenti di sconforto. E attendo con fiduciosa rassegnazione il momento del mio ricongiungimento con le anime delle persone care che mi hanno preceduto nel trasferimento verso la Luce eterna.
Questo concetto fa parte della Fede e, come tale, oggetto di un mistero certamente non spiegabile in senso materialista. A tutti gli scettici (le cui convinzioni sono in ogni caso degne del massimo rispetto) voglio soltanto ricordare che da che mondo è mondo, e da quando l’uomo ha sviluppato una propria intelligenza, la sensazione di una vita extraterrena (basata per lo più sul concetto di immortalità dell’anima) ha sempre fatto da corollario, se non addirittura da basamento, di ogni credenza religiosa. Basti pensare ai graffiti e ai dipinti ritrovati nelle caverne dei paleolitici, agli Assiro-Babilonesi, all’Egitto dei Faraoni, agli Etruschi, ai Maya, agli Ebrei, ai Romani e a tante forme di spiritualità tramandate dal sorgere e dallo svilupparsi di ogni civiltà, sino ai giorni nostri. Su questo tema forse sarebbe il caso di approfondire maggiormente le nostre conoscenze, al fine di considerare e di accettare il passaggio dalla vita alla morte con maggiore rassegnazione.

Nel libro della Genesi è scritto (III, 19) che cacciando Adamo dal paradiso terrestre, Dio disse: “mediante il sudore della tua faccia mangerai il tuo pane, sino a tanto che tu ritorni alla terra, dalla quale sei stato tratto; perocché tu sei polvere, e in polvere tornerai”.
Ma mentre il breve ciclo terreno nasce e muore nella polvere, lo spirito vive in eterno, in costante simbiosi con il suo Creatore.
Secondo l’Apostolo Giovanni (5,24-25), Gesù disse: “...chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. ...è venuto il momento, ed è questo, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno”, e poi prosegue (8, 51): “...se uno osseva la mia parola, non vedrà mai la morte”, per aggiungere ancora (11,25): “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno”, per concludere dicendo (14,1-4): “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via”.

Ma quello citato più sopra è un aspetto puramente spirituale del concetto della vita e della morte, che purtroppo da solo non è sempre sufficiente ad alleviare altri momenti nei quali il dolore sembra prendere il sopravvento sia sulla ragione che, appunto, sulla Fede. Mi riferisco al momento della “solitudine materiale” che, a mio avviso, può rappresentare il punto più delicato e traumatico conseguente alla perdita di un proprio caro.
Una persona si sente sola quando attorno a sé, nel mondo - tanto per capirci meglio - dei “vivi”, avverte una sorta di indifferenza, di dimenticanza, di abbandono. E a quel punto la presenza spirituale del defunto può anche non bastare più.
La solitudine manifesta la sua più feroce virulenza quando il “sentirsi solo” non è tanto il risultato di una scelta, bensì l’effetto indesiderato di una costrizione imposta dall’età, dalle condizioni familiari o di salute, o da altre avversità della vita. Il “single” che ha fatto a suo tempo una ben precisa scelta di vivere solo, avverte forse meno di altri l’effetto della dipartita di una persona cara, perché gli mancano quei riferimenti quotidiani che invece circondano l’esistenza residua di una persona che ha vissuto per molto tempo pressoché in continua simbiosi con “l’altro”. L’esempio più elementare è quello riferibile al coniuge superstite che si trova a dover continuare a vivere, ormai solo (e magari con qualche indesiderato acciacco fisico di troppo), fra i mille ricordi di una vita intensamente condivisa con il proprio partner.
Quando la solitudine vince la resistenza oppostagli da qualche forzata distrazione (la lettura di un libro, la visione di uno spettacolo televisivo, la telefonata a qualche conoscente, la partita di calcio, la chiacchierata al bar, ecc.), possono subentrare la melanconia, la tristezza, la disperazione.
La solitudine, se di lunga durata, può diventare opprimente e accentuare a sua volta il dolore, creando una sorta di cocktail esplosivo che potrebbe anche sfociare in reazioni del tutto incontrollabili, che assumono le vesti di una vera e propria patologia.
Tornando ai ricordi del tempo che fu, la presenza di una famiglia allargata e la costante assistenza di persone vicine, o comunque amiche, riuscivano proprio nell’intento di non consentire alla solitudine di prendere il sopravvento. E questo, a mio avviso, è il punto dolente sul quale occorrerebbe riflettere a fondo con l’obiettivo di combattere non tanto il dolore in sé stesso, bensì la solitudine, che del dolore è la spesso la linfa vitale.
Il dolore lo si può soltanto attenuare (in questo, il trascorrere del tempo è di grande aiuto), mentre la solitudine va combattuta strenuamente.

Ma quali sono gli strumenti che possono essere messi in campo per contrastare la solitudine? Cerco di rispondere in prima istanza con un esempio.
Ad una mia conoscente, che ha da poco perso il marito, ho chiesto se dopo tale disgrazia la solitudine l’ha particolarmente colpita. “No”, mi ha risposto, “perché ho la fortuna di avere un meraviglioso nipotino di due anni al quale faccio da nonna, da mamma e da baby sitter, quando i suoi genitori sono al lavoro. Quel piccolo diavoletto basta e avanza per riempire interamente le mie giornate e quando alla sera mi corico, sola nel mio letto, non ho più la forza né il tempo per lasciarmi prendere dalla tristezza”. In quella signora il dolore per la perdita del proprio congiunto rimane di certo inalterato, ma non è alimentato in modo patologico dalla solitudine. E questo non è di poco conto.
Ecco che allora la consapevolezza di far parte, seppure in modo parziale, quand’anche non addirittura soltanto virtuale, di una “famiglia”, di condividerne le gioie e le ansie, aiuta a superare i momenti di tristezza.
Quella “presenza” si può anche manifestare in altri modi: attraverso l’attenzione prestata agli amici più cari e/o da loro ricevuta (non dimentichiamo infatti che l’amicizia può esprimersi tanto più intensamente quanto più è di tipo “bilaterale”); la realizzazione di particolari attività sociali, creative, culturali, sportive, ecc.; attraverso qualsiasi forma di “sistematica distrazione” che possa in qualche modo surrogare la mancanza della famiglia e impegnare la mente in modo più sereno.
Un aiuto in questo senso può essere certamente fornito dalla partecipazione ai Gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto, visti non tanto nella alquanto modesta e immeritata funzione di riunione periodica, della serie “non sapendo che altro fare…”, o nella altrettanto limitata veste di “confessionale del proprio e dell’altrui dolore”, quanto sotto forma di luogo di aggregazione, di confronto di idee, e di laboratorio di iniziative atte a far partecipare le pur diverse componenti del Gruppo ad attività che possano in qualche modo porre un argine alla solitudine.

Il dolore affettivo non potrà essere sconfitto, ma non verrà certamente alimentato da una situazione di forzata solitudine.

Milano, Maggio 2003



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