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L’auto-mutuo-aiuto per le persone in lutto
(Pensieri in libertà)

Un antico proverbio inglese ci ricorda molto amabilmente che “If you look for an helping hand, you’ll find it at the end of your arm” (“Se cerchi una mano che t’aiuti, la troverai alla fine del tuo braccio”). La tradizione italiana, legata spesso anche alle cose extraterrene, fa invece recitare quella massima in una formulazione più semplice: “Aiutati che il ciel t’aiuta”. Ma, tutto sommato, il senso è lo stesso.
Questa piccola parentesi introduttiva mi porta a riflettere su alcune differenze, non soltanto semantiche, che coinvolgono in appassionati dibattiti taluni promotori di quei “Gruppi” che aiutano certe categorie di persone ad uscire dal tunnel nel quale, per varie ragioni spesso indipendenti dalla loro volontà, si sono trovate purtroppo confinate. Mi sto riferendo ai Gruppi di auto-mutuo-aiuto, che operano da tempo nel nostro Paese, quale importante componente di quelle forme di volontariato che cercano in tutti i modi anche di sopperire alle carenze ormai endemiche del nostro “sistema pubblico”.
Nel mondo anglosassone questi Gruppi assumono semplicemente la caratteristica di “Self-help” (letteralmente: “auto-aiuto”), mentre qui da noi – disponendo di tre distinti vocaboli: “auto”, “mutuo” e “aiuto” – la ben nota fantasia mediterranea può spaziare meglio, utilizzando di volta in volta, a seconda di scelte individuali (che vengono giustificate con interpretazioni altrettanto individuali), “auto-aiuto”, “mutuo-aiuto” o “auto-mutuo-aiuto”.
In qualche caso, quindi, viene volutamente omesso il termine “auto” (ritenendo forse che debbano essere prevalentemente gli altri a fornire il sostegno necessario?), in altri il “mutuo” (nel senso di: “aiutati che il ciel t’aiuta”?). Ma, ancora una volta, indipendentemente dalle interpretazioni soggettive, il senso è, tutto sommato, lo stesso.
Tuttavia il dibattito rimane vivace, con prese di posizione, e conseguenti scelte, talvolta apparentemente irrinunciabili. D’altro canto il desiderio di distinguersi, di esercitare una qualsiasi forma di marcato presenzialismo (non disgiunto da un malcelato desiderio di “presidenzialismo”), di primeggiare sugli “altri”, fa parte del DNA del nostro popolo.
Così come non mancano coloro che analizzano, teorizzano, vivisezionano, interpretano, canonizzano e rendono in tal modo quasi “accademico” un tema che di per sé stesso potrebbe benissimo rientrare in una dimensione molto più semplice: in quella cioè di più mani che, trovandosi alla fine di altrettante braccia, se le stringono fra loro per “non sentirsi sole”.

Pur dichiarando a priori di non far parte attiva (esclusivamente per serie ragioni di salute e di conseguenti difficoltà motorie) di nessun Gruppo AMA e di essere del tutto estraneo alle piccole o grandi diatribe che a vario titolo coinvolgono i promotori e gli animatori dei vari Gruppi, credo di poter esternare qualche considerazione personale su alcuni aspetti che hanno particolarmente attratto la mia attenzione. E proprio per la mia estraneità alla vita attiva di quei Gruppi, penso di potermi esprimere al di là di qualsiasi interesse di parte. Per fugare sin da subito eventuali dubbi, ritengo comunque quei Gruppi estremamente validi nelle loro azioni concrete, e meritevoli quindi di ogni elogio.
La mia attenzione si è particolarmente focalizzata sui Gruppi di auto-mutuo-aiuto (o comunque li si voglia chiamare) che si occupano delle persone in lutto. Gruppi nei quali dovrei essere personalmente presente, avendo recentemente subito anch’io la dolorosa perdita di una persona cara.

Ho letto con attenzione molta della documentazione che è stata prodotta negli ultimi tempi ad opera di promotori, animatori o di semplici partecipanti ai Gruppi AMA per le persone in lutto, ed ho in primo luogo notato la presenza di due ben distinte correnti di pensiero:
- coloro che attribuiscono al Gruppo una caratteristica del tutto “laica”;
- coloro che vedono la necessità di mantenerlo in una dimensione del tutto “confessionale”.

Due “correnti” che portano con sé anche una differente impostazione metodologico/operativa, laddove la prima tende a considerare il lutto come una sorta di “patologia” che deve essere in qualche modo curata, e la seconda che delega quasi totalmente alla sfera religiosa il compito di assistere e di “consolare” i superstiti..
La base comune che unisce le due correnti è, per lo più, il tentativo di combattere “il dolore” conseguente alla perdita di una persona cara, cercando di esorcizzarlo, attraverso forme di “confessioni/esperienze partecipative di gruppo” o principalmente attraverso un deciso ricorso alla “fede”.

Nel primo caso si tende – a mio modesto avviso – a confondere le esperienze acquisite da altri Gruppi (ad esempio quelli che riuniscono gli alcolisti, gli incalliti giocatori d’azzardo, piuttosto che i tabagisti, od altri), dove “il vizio” può essere forse curato facendo tesoro delle testimonianze di chi è già riuscito in qualche modo a sconfiggerlo, con le realtà di “un dolore” che ha ben più profonde radici, che toccano in modo molto più intimo la sfera personale e squisitamente affettiva del singolo individuo.
Nessuno con le sue personali e pur rispettabilissime testimonianze, potrà purtroppo insegnarmi come mitigare, se non addirittura sconfiggere, il mio dolore. Potrò forse essere incuriosito/interessato ad ascoltare le espressioni del dolore altrui, così come forse potrò trovare un temporaneo sollievo nel raccontare ad altri il dolore mio, ma quando tornando a casa mi ritroverò di nuovo solo con i miei pensieri, con i miei ricordi, con le mie ansie e con il mio dolore, cosa potrà restare dei pochi momenti in cui mi pareva di aver trovato una possibile soluzione?

Non molto dissimile mi appare la terapia proposta dai cultori della linea “confessionale”, allorquando si tende ad enfatizzare più l’attenzione e la cura “dell’aldilà” che non quella “del presente”. Certamente per un convinto credente potrà essere di sollievo pensare che se la materialità della persona amata è purtroppo tornata ad essere polvere, il suo spirito è tuttora vivo, accolto nelle braccia di Dio che, magari, nella Sua immensa bontà lo lascia anche un pochino accanto all’addolorato superstite.
Un superstite che poi, al limite, si può anche auto-suggestionare al punto di convincersi di entrare quasi in contatto quotidiano con il defunto, in una sorta di continuità di dialogo che – mi si voglia perdonare il parallelo portato agli estremi – potrebbe anche ricordare il famoso balletto dei tavolini a tre gambe. Mi rendo perfettamente conto che con quest’ultima citazione sono andato ben oltre le righe di ciò che “la fede” può fornire in concreto per attenuare le fitte del dolore, e di ciò mi scuso di nuovo con tutti coloro che potrebbero essersene risentiti.
Lungi comunque da me l’intenzione di entrare nelle tematiche che possono riguardare il mondo dell’occulto, dell’extrasensoriale o del para-normale.

Un altro aspetto che mi ha incuriosito nella lettura delle relazioni e degli elaborati sulle tematiche dei Gruppi AMA per le persone in lutto, riguarda un’apparente particolare simpatia per il lato – oserei dire, lugubre – delle immediate conseguenze della morte. Con ampie dissertazioni sulle cerimonie funebri, sulle tumulazioni dei feti e delle salme degli adulti, sulle varie usanze cimiteriali, sulla profetica (biblica) reincarnazione delle ossa, ecc. Quasi che le persone colpite da un lutto dovessero rimanere a lungo ancorate ai momenti più macabri della disgrazia che le ha colpite. Sarà forse anche l’antico retaggio derivante da una discutibile interpretazione del momento del trapasso, ma certamente questo atteggiamento che quasi si compiace di portare l’abito nero del “croqu'mort”, mal si addice alle istanze che provengono da tutti quei superstiti che cercano una mano in grado di aiutarli a mitigare l’asprezza del loro dolore.
Ricordo a questo proposito il grande Jacques Brel, che ancora giovane ma già pienamente consapevole di uno stato di salute che l’avrebbe portato pochi anni dopo alla morte per una grave forma di tumore, ripeteva in uno dei suoi celebri refrain:

“Je veux qu'on rie
(Voglio che si rida)
“Je veux qu'on danse (Voglio che si balli)
“Je veux qu'on s'amuse comme des fous (Voglio che ci si diverta come dei pazzi)
“Je veux qu'on rie (Voglio che si rida)
“Je veux qu'on danse (Voglio che si balli)
“Quand c'est qu'on me mettra dans le trou (Quando mi metteranno nella tomba)

Qualcuno ricorderà certamente anche alcune celebri composizioni musicali in stile “spiritual” e risalenti alle origini del jazz afro-americano, e che venivano utilizzate nell’accompagnare il defunto al cimitero: il brano partiva con una sorta di lenta e triste marcia funebre e, via via che il corteo si snodava lungo il percorso, il ritmo musicale diventava sempre più vivace, fino a rappresentare una sorta di gioioso ed augurale saluto all’amico che stava per iniziare la sua nuova vita extraterrena.
D’accordo che si tratta di espressioni artistiche certamente non facili da utilizzare nel doloroso momento di una perdita, ma anche ricorrere con così tanta attenzione alle immagini più tristi…

In un mio precedente elaborato
(“Alcune riflessioni sul dolore per la perdita di una persona cara”, Maggio 2003) avevo sostenuto, e avevo cercato di dimostrare, che il principale nemico da combattere in caso di un lutto non è tanto il “dolore affettivo”, bensì la possibile “solitudine” del superstite. Una solitudine che – se non corretta in tempo – può diventare la linfa vitale che accentua ed estremizza la depressione e il dolore. E questo dovrebbe essere il principale obiettivo dei Gruppi per le persone in lutto, comunque li si vogliano etichettare. Tutto il resto appartiene alla sfera della pura teoria/speculazione accademica, che potrà comunque continuare ad interessare i cultori “scientifici” della materia. Ma soltanto loro.

Non voglio qui ripetere quanto già scritto in precedenza, ma penso sia il caso di aggiungervi qualche ulteriore personale considerazione.
Nel mondo, nel nostro Paese, nella nostra piccola comunità, avvengono purtroppo ogni giorno parecchi lutti per le cause più disparate, lasciando nel dolore una gran massa di individui.
Così come, fortunatamente, nascono per contro molti bimbi che procurano tanta gioia ai loro fortunati genitori.
Ma restando al tema del lutto, ci possiamo porre la domanda: “Cosa succede a quella moltitudine di superstiti che, certamente, sono molti, ma molti di più di coloro che vengono fraternamente accolti nei Gruppi?”
La risposta è quanto di più banale ci possa essere:

- molti di loro si tengono nel loro intimo il dolore ma continuano a vivere più o meno come prima, in quanto non si sentono e non rimangono soli;
- molti altri soffrono in silenzio la loro solitudine, pressoché dimenticati (o, almeno, così pensano) dal mondo che li circonda, e rischiano di sprofondare nel baratro della depressione;
- altri (pochi, per fortuna) non reggono a lungo il binomio solitudine/dolore e cercano, quanto prima, di… raggiungere la persona cara. La cronaca dei quotidiani non manca di segnalare le vicende più toccanti.

Voglio qui riprendere per qualche istante il tema della solitudine, cercando di capire meglio perché “molti non si sentono troppo soli”.

- Non si sentono soli perché il mondo che li circonda (parenti, amici, conoscenti, ecc.) rimangono loro vicini come lo erano anche prima del lutto, e questo è di enorme conforto per il superstite che “sente” attorno a sé che “non tutto è cambiato” nel suo vivere quotidiano.
- Non si sentono soli perché le loro risorse interne (salute fisica e mentale, volontà e desiderio di vivere, attenzione ed interesse ai problemi quotidiani, ecc.) li spingono ad agire; a rimanere nel mondo; a continuare ad interagire con ciò che li circonda, assegnando al dolore una ben delimitata sfera del proprio intimo.
- Non si sentono troppo soli perché la loro fede religiosa fa sì che la morte venga considerata (pur nell’inevitabile dolore) un passaggio purtroppo del tutto naturale nel ciclo eterno degli esseri umani.

Ben diverso è il caso in cui l’individuo si sente tendenzialmente condannato a rimanere solo, in una solitudine che se non viene compresa per tempo da chi gli potrebbe stare intorno, potrebbe portare a ben più tristi conseguenze, in quanto:

- la solitudine accentua dolore e depressione
- dolore e depressione diventano una vera e propria malattia

Ecco che proprio in questo caso interviene appieno la validità e l’efficacia dei Gruppi di auto-mutuo-aiuto, che attraverso un’azione intelligente possono creare proprio quei “surrogati di compagnia” (ben lungi da me considerare questa espressione in senso minimalista!) che aiutano il superstite a “non sentirsi più solo”. Certamente non si può ragionevolmente attendere che i soli Gruppi (i cui incontri hanno di solito una frequenza non certo giornaliera) possano risolvere il problema della solitudine, ma in molti casi il loro intervento può essere di grande aiuto.

Avendo avuto in questi ultimi mesi amichevoli ed utili incontri con alcuni partecipanti ai Gruppi AMA per le persone in lutto, ho tratto la conclusione che il principale pregio di tali raggruppamenti sta proprio nella loro capacità di “aggregare”, di “riunire”, di favorire le conoscenze reciproche e di sopperire così (avevo prima usato il termine “surrogare”), se non in toto almeno in parte, alla solitudine lasciata al superstite dal “resto del mondo”. In questo contesto viene spesso usato il termine “empatia”, che personalmente sostituirei con l’intima necessità di “fare gruppo”. In sostanza, mi è parso di capire che le persone più svariate che s’incontrano in quelle sedi, ascoltano; parlano (chi vuole si confessa o, quanto meno, racconta ciò che più gli aggrada); si conoscono; si valutano e si selezionano silenziosamente fra loro, trovando utili concomitanze (di pensiero, culturali, ecc.) o differenze magari incolmabili. Salvo, per alcuni partecipanti, considerare quegli incontri una sorta del “giovedì del bridge”, dove si trascorre un po’ di tempo fra persone che, tutto sommato, non dispiacciono.
Dopo di che, si possono ritrovare attorno al tavolo di una pizzeria, facendo una vacanza insieme, giocando a bocce, organizzando qualche nuova riunione o sgambettando in una sala “di liscio”, e ricreano così quello “spazio comune” che la realtà della vita aveva mostrato di far loro mancare.
In tutto ciò, a mio avviso, c’entra poco la battaglia contro il dolore (che comunque a livello individuale rimane sempre tale e quale), mentre assume grande importanza l’aiuto a “non sentirsi troppo soli”.

Quella che più sopra avevo definito come una “silenziosa valutazione” fatta da ciascuno dei singoli partecipanti rispetto agli altri, fa sì che nell’aggregazione del Gruppo si disgreghino e si formino a loro volta rapporti interpersonali magari diversi (Tizio si trova meglio con Caio che con Sempronio; Carla e Maria sono diventate grandi amiche, Luigi e Anna hanno scoperto di avere molti lati in comune, ecc.), ma che trovano sempre nel Gruppo la matrice di base e il collante che tiene insieme il tutto. Ecco perché le riunioni collegiali periodiche trovano un’ulteriore ragione d’essere e un motivo di rafforzamento della solidarietà di Gruppo. In tutto ciò riveste un ruolo essenziale la persona che, a vario titolo e/o con le più diverse qualifiche (animatore, coordinatore, moderatore, ecc.), assicura la continuità, indirizza l’andamento degli incontri, seda – se necessario – eventuali contrasti interpersonali interni, propone e favorisce l’avvio di nuove iniziative, e nello stesso tempo stimola l’allargamento della partecipazione al Gruppo di nuove persone che possano sopperire all’inevitabile turnover di natura fisiologica.

Per concludere queste mie riflessioni, auspicherei che i vari Gruppi AMA per le persone in lutto, presenti nel nostro Paese, mettessero da parte certe velate (ma non troppo) divergenze ideologiche o metodologiche che paiono contrapporli fra loro. Che venissero intelligentemente utilizzate le esperienze reciproche al fine di rendere sempre più efficace l’azione dell’auto-mutuo-aiuto e che, infine, venisse data maggiore enfasi alla lotta contro la solitudine che – come ripetutamente sottolineato – costituisce la linfa vitale che alimenta ed esaspera il dolore e che può portare alla depressione.

Milano, Luglio 2003


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