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"Uno scolaro nell'ERBA"

Capitolo 4

La macchina e i suoi macchinisti

 

Le finalità istituzionali dell'Ente erano sintetizzate in un articolo dello Statuto, che nella sua più recente versione così recitava:

« L'E.R.B.A. ha per scopo:
1 - lo studio dei processi produttivi in campo biotecnologico agricolo ed agro-alimentare, anche attraverso l'individuazione di nuove tecnologie, al fine di facilitare la diffusione e l'applicazione dell'innovazione biotecnologica nelle realtà esistenti dello stesso settore, salvaguardandone altresì la tradizione produttiva e la tipicità, anche a livello di singole unità produttive, con particolare riferimento a quelle di piccole e medie dimensioni;
2 - il coordinamento delle esperienze biotecnologiche maturate da enti esistenti nelle singole realtà nazionali, regionali o provinciali, utilizzandone i risultati e valorizzando i compiti degli enti stessi, escludendo nuove realizzazioni ripetitive di esperienze già in atto;
3 - lo svolgimento di un'azione informativa e formativa, offrendo soluzioni flessibili sulle tematiche che - nel tempo - si rivelassero di particolare interesse per l'utenza; a favore della quale si potrà anche disporre l'erogazione di servizi reali, particolarmente rivolti al miglioramento della qualità e delle caratteristiche igienico-sanitarie; nonché ai servizi finalizzati all'ottenimento delle certificazioni di qualità.
Nello svolgimento della sua attività l'E.R.B.A. potrà stipulare specifiche convenzioni con enti ed istituti, avvalendosi dei loro laboratori e delle loro strutture scientifiche, dando impulso a ricerche ed accertamenti analitici, nonché richiedendo consulenze specifiche.
L'ente potrà altresì compiere qualsiasi operazione - anche di carattere mobiliare, immobiliare e finanziario - ritenuta necessaria e utile per la realizzazione degli scopi istituzionali; esclusa soltanto la raccolta del risparmio».

Gli estensori del documento erano stati quindi attenti nel definire le finalità istituzionali, senza trascurare i riferimenti d'obbligo alle unità produttive di piccole e medie dimensioni, nonché alla prestazione di "servizi reali" all'utenza.
La citazione delle "piccole e medie imprese", ormai comunemente definite "PMI", ha assunto negli ultimi decenni un carattere di puntuale ricorrenza in tutti i documenti, seminari o convegni in cui si affrontano i temi dello sviluppo economico o socio-economico del Paese.
Come il prezzemolo, il richiamo alle PMI costituisce un ingrediente buono per tutte le cucine, ma si può tuttavia notare come l'uso e l'abuso di questo termine nasconda spesso un sottile pretesto per dire, al tempo stesso, tutto e niente. Non esiste infatti uomo politico, economista o conferenziere di grido che dimentichi di citare le PMI in uno qualsiasi dei suoi interventi a sostegno di una qualsivoglia tesi di sviluppo del Paese. Ben sapendo, alla fine, che a differenza delle imprese di grandi dimensioni - di cui si possono facilmente conoscere nomi e cognomi - le piccole e medie imprese non potranno mai sollevare alcuna critica o contestazione, in quanto costituiscono proprio quell'"uno, nessuno e centomila" che, anagraficamente non ha un volto ben definito e che, quindi, non conta proprio nulla.
Tutto ciò lo sa bene anche il signor Rossi, titolare della piccola impresa artigiana omonima, che il più delle volte si trova le porte sbarrate dal sistema bancario se chiede un prestito; che deve ricorrere a super-specialisti per compilare la denuncia annuale dei redditi o per presentare una qualsiasi istanza a un qualsiasi ufficio pubblico; che deve quotidianamente affrontare una sua solitaria battaglia contro la concorrenza, i creditori, i sindacati, il fisco, e - se gli va proprio male - anche contro la propria moglie che gli ripete spesso all'orecchio:
«ma pianta lì tutto, realizza il realizzabile e trasferiamoci tutti in Nuova Zelanda!».
Anche sul riferimento ai "servizi reali" ci sarebbe qualcosa da osservare. Si tratta, infatti, di un'allocuzione coniata per cercare di impreziosire talune prestazioni offerte da organismi di tipo consulenziale, assistenziale, o simili. In sostanza, si vorrebbero contrastare le critiche che talvolta vengono espresse nei confronti delle attività di enti o istituzioni che, nell'accezione comune, servono a poco o a nulla, identificando quelle che, invece, realizzerebbero qualcosa di utile. Ma, allora, perché definire queste prestazioni come servizi reali? Solitamente all'aggettivo "bello" si contrappone "brutto", al "buono" il "cattivo", all'"onesto" il "disonesto", e così via. Nel caso specifico, i servizi ci sono o non ci sono, non risultando ancora che vi siano, in antitesi ai "reali", quelli "irreali". E' vero che qualcuno fa anche cenno all'esistenza della nuova categoria di servizi cosiddetti "virtuali", ma ancora una volta si tratterebbe di capire se, nella fattispecie, si tratta di veri e propri servizi.
Con tutto il rispetto dovuto alla categoria a cui appartiene, la collaboratrice domestica viene generalmente assunta per pulire la casa, lavare, stirare, portare a spasso il cane, ecc. Presta, quindi, un ben definito servizio, sulla cui "realtà" o meno l'essere umano in questione può anche giocarsi il posto e le referenze.

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I principali mezzi di sostentamento dell'E.R.B.A. traevano origine da un codicillo, incluso in una vecchia disposizione ministeriale, che aveva introdotto una sovratassa dello 0,27 per cento su un certo numero di prodotti agricoli ed agro-industriali importati o esportati dal Paese.
Mi era stato detto, molto confidenzialmente e senza che potessi verificarne la veridicità, che il proponente di tale disposizione era stato proprio colui che sarebbe successivamente diventato il primo Presidente dell'Ente, il professor Lorenzo De Luigi; una persona che, già a quel tempo, credeva fermamente nello sviluppo delle applicazioni biotecnologiche più innovative. La norma era stata successivamente e variamente modificata e da qualche tempo il balzello era applicato unicamente sulle derrate che coinvolgevano Paesi esteri non legati al nostro da accordi di tipo preferenziale. Nonostante tali modifiche, in gran parte di carattere restrittivo, il gettito annuale rimaneva interessante e consentiva all'ente una certa autonomia di gestione, che veniva arricchita da ulteriori finanziamenti ottenuti da istituzioni pubbliche europee.
L'E.R.B.A. non aveva dunque eccessivi problemi di tipo economico-finanziario e al momento della mia accettazione dell'incarico tutto ciò mi aveva alquanto tranquillizzato; in quanto non avrei accettato di trascorrere il resto della mia vita professionale a preoccuparmi per come far quadrare i conti della struttura in cui mi trovavo, a vario titolo, inserito.
Sapevo infatti, avendolo direttamente sperimentato per molti anni, quanto sia angosciante dover fare i conti con i costi e i ricavi d'esercizio, soprattutto quando i primi sono soggetti a una ferrea rigidità, dovuta agli stipendi da pagare al personale, agli aumenti delle materie prime e alle varie imposizioni dirette o indirette di emanazione governativa, e quanto i secondi siano condizionati dalle variazioni della domanda, da una concorrenza spesso spietata e dalle altre non sempre prevedibili condizioni del mercato. Tutto ciò non avrebbe toccato, se non in misura limitata, l'E.R.B.A., che viveva in un suo particolare mondo, per sua fortuna non affetto da questo tipo di preoccupazioni.

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La sede e gli uffici dell'E.R.B.A. erano situati in un edificio a due piani, al numero 37 di viale del Rinascimento, occupato in passato da un'antica distilleria di liquori che si era in seguito trasferita nella periferia meridionale della città. La porzione del fabbricato prospiciente la strada era decisamente moderna, dotata di ampie vetrate che venivano pulite raramente e che mostravano sempre più i segni dell'inquinamento atmosferico cittadino. Sul retro esisteva un ampio cortile, all'interno del quale si ergeva un padiglione circolare che a suo tempo era destinato a contenere i tini verticali in acciaio per la maturazione dei liquori. Quest'ultima costruzione, anch'essa fornita di ampie vetrate e dal soffitto sufficientemente alto, era stata principalmente adibita dall'E.R.B.A. a sala per i convegni e per le proiezioni cine-televisive. Al suo interno erano anche stati ricavati il locale per le riunioni del Consiglio di Gestione, alcuni salottini d'attesa ed altri vani di servizio. Un corridoio sotterraneo collegava il padiglione centrale con il resto degli uffici operativi. A parte la sala-convegni e i servizi annessi, il complesso assicurava, nel suo insieme, lo spazio necessario per il lavoro di tutti i collaboratori dell'ente.
L'interno del palazzo era arredato con uno stile moderno e sobrio, impreziosito da colori prevalentemente chiari che si stagliavano su una moquette uniformemente blu, posata su tutti i pavimenti e sulle scale. Soltanto l'ufficio del Presidente disponeva di una moquette di colore grigio-topo e di mobili in palissandro. Il Presidente e il Direttore Generale potevano inoltre usufruire di posti-macchina loro riservati, mentre altri quattro o cinque parcheggi, intorno al padiglione centrale, erano disponibili per le auto di rappresentanza e per quelle dei più importanti visitatori. Un circuito televisivo interno, collegato con alcuni monitor collocati nella portineria, garantiva la necessaria sicurezza contro l'eventuale intromissione di persone non autorizzate. All'ingresso e alle finestre del piano-terra che si affacciavano sul viale erano stati applicati i cristalli anti-proiettile, dopo che a seguito di una manifestazione degli extra-parlamentari avvenuta sul finire degli anni '60, per protestare contro le violenze degli attivisti dell'opposta fazione, erano state infrante a sassate - più o meno intenzionalmente - anche alcune vetrate dell'ente

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Sin dalla costituzione dell'E.R.B.A. il dottor Pier Luigi Maci svolgeva le funzioni di Direttore Generale e il suo ufficio era situato al primo piano, al di sopra dell'entrata principale. Di età appena superiore ai quarant'anni, non molto alto, di corporatura grassoccia e claudicante per i postumi di un incidente automobilistico occorsogli alcuni anni prima, il dottor Maci possedeva una folta capigliatura nera, vagamente ondulata, che gli scendeva sulla nuca, fin quasi alle spalle. Qualche dipendente sussurrava malignamente che il colore dei capelli del Direttore fosse aiutato da una tintura e che la loro perenne lucentezza non fosse naturale, bensì l'effetto di una sorta di brillantina di cui, una volta, sarebbe stato trovato un flacone ormai vuoto nella toilette del primo piano.
In tanti anni di servizio nell'istituto, il Direttore Generale aveva acquisito un suo personalissimo stile comportamentale, che gli consentiva di gestire a suo piacimento i collaboratori e, nello stesso tempo, di barcamenarsi al meglio nei confronti del Presidente e dei Consiglieri. Indubbiamente ambizioso, intelligente e scaltro, aveva tutti i numeri per rimanere sempre "in sella", qualsiasi fossero gli eventi e le circostanze, anche le più imprevedibili, del momento. D'altro canto, un giorno si era lasciato scappare una frase che sintetizzava egregiamente il suo pensiero e la sua linea di condotta:
«I Presidenti e i Consiglieri passano; i funzionari restano». E con il personale convincimento della sua inamovibilità, era riuscito ad accentrare nella sua funzione non solo il potere, per così dire, esecutivo, ma - in pratica - anche quello più propriamente "politico" e teoricamente riservato al Consiglio.
In effetti, tutto ciò che veniva portato all'esame del Consiglio di Gestione doveva essere prima accuratamente vagliato dalla struttura interna dell'ente che, attraverso l'Amministrazione e la Segreteria, predisponeva quindi la necessaria documentazione per i Consiglieri. In base ai dettami dello statuto la struttura interna dipendeva direttamente dal Direttore Generale. Tutto ciò gli consentiva di filtrare opportunamente gli argomenti, presentando al Consiglio soltanto ciò che lui riteneva opportuno.
In ogni caso, il dottor Maci faceva in modo che le sue scelte non scontentassero mai troppo i membri del Consiglio di Gestione e, in primo luogo, il suo Presidente. Aveva studiato bene i vari personaggi e, cogliendone i lati caratteriali più sensibili, trovava sempre il modo di lasciare a ciascuno di loro quel tanto di soddisfazione che avrebbe impedito il formarsi di uno schieramento eccessivamente critico nei suoi confronti. Ad esempio, aveva da tempo capito che Tagliarami amava apparire davanti alle telecamere e sulle pagine dei più noti quotidiani e, quindi, assecondava questo suo desiderio curando che non mancasse mai la presenza di giornalisti e di fotografi ad ogni apparizione pubblica del Presidente. Che si trattasse del funerale del padre di un pur modesto collaboratore o della presentazione dei risultati di una ricerca scientifica curata dall'E.R.B.A., i media erano sempre presenti, per dar modo al Presidente di esternare il suo illuminato pensiero sui più svariati argomenti.
Con i Consiglieri il compito era leggermente più complesso, in quanto non si trattava solo di comprendere e di accontentare il più possibile le loro aspirazioni - per così dire, personali - bensì anche di fornire una risposta equilibrata alle diverse esigenze dei rispettivi "mandanti". E in questa difficile azione di mediazione il dottor Maci si sapeva ormai destreggiare in modo quasi perfetto, mettendo in pratica la famosa massima del dare "... un colpo al cerchio e uno alla botte".
Si diceva, ad esempio, che un membro del Consiglio di Gestione, precedente a quello in cui io ero stato inserito, fosse particolarmente sensibile al fascino di avvenenti e generose fanciulle; in special modo di quelle che incontrava, più o meno casualmente, lontano da casa e dalla moglie, nelle hall degli alberghi dove alloggiava in occasione dei suoi viaggi di lavoro. Per consentirgli di coltivare meglio queste "fortuite e fortunate" opportunità, il dottor Maci faceva sempre in modo di favorire la partecipazione del Consigliere alle missioni che l'E.R.B.A. organizzava nell'ambito di importanti ricerche da effettuare nei Paesi esteri o, comunque, in località piuttosto distanti dalla sede. L'Amministrazione dell'Ente, sempre molto attenta nel controllare la correttezza formale e di merito delle note-spese relative alle missioni, aveva ricevuto un velato suggerimento perché, nel caso del personaggio in questione, sorvolasse con una certa generosità su talune voci che comparivano nei conti degli alberghi, soprattutto quando venivano citati costi piuttosto elevati del "minibar" o "del portiere". Non ebbi modo di conoscere quel collega, anche perché mi fu riferito che venne colpito da un infarto durante una missione a Rio de Janeiro e che, riportato d'urgenza in un ospedale in Italia, dove fu sottoposto alle migliori cure mediche, due settimane dopo spirò serenamente nelle braccia della affezionatissima moglie. I principali quotidiani nazionali diedero ampio spazio alla notizia del suo decesso, anche perché si trattava di una persona che rivestiva varie cariche in enti pubblici e privati di una certa rilevanza. Qualche maligno ebbe la spudoratezza di insinuare che a quell'infarto non era stata estranea la collaborazione di una graziosa fanciulla locale, conosciuta più o meno casualmente lungo i marciapiedi, lastricati a mosaico, dell'Avenida Atlantica.
Il trattamento "di favore" riservato dal Direttore agli altri Consiglieri era differenziato, ma sempre puntualmente attento. Ognuno aveva le proprie debolezze, che si esprimevano - ad esempio - nel desiderare che un'automobile con autista andasse a prelevarli a casa in vista delle riunioni del Consiglio di Gestione; oppure nel piacere di partecipare sistematicamente alle cene dove "è gradito l'abito scuro" o, ancora, nel poter usufruire di un telefono cellulare, gentilmente prestato dall'ente.
Il consigliere Manzonini, ad esempio, era un accanito collezionista ed aveva una particolare passione per la raccolta degli oggetti più disparati, dalle scatolette di fiammiferi alle bottigliette di liquori che, diceva,
«devono essere rigorosamente piene e intatte». Il dottor Maci aveva allora opportunamente istruito i suoi più diretti collaboratori perché raccogliessero quanto più materiale interessante fosse loro capitato a tiro. Così vennero donate a Manzonini, alcune scatole di vecchie mignonette, inaspettatamente scoperte nelle cantine dello stabile dell'ente e probabilmente abbandonate dai vecchi proprietari della distilleria di liquori. Ogniqualvolta, poi, un collaboratore rintracciava in un albergo o in un ristorante un posacenere di ceramica, "asportabile" senza dare troppo nell'occhio, una scatoletta di fiammiferi o un piccolo sapone, di quelli racchiusi in involucri di plastica colorata, li portava orgogliosamente al Direttore Generale che, non appena possibile, li donava al Consigliere in questione.
Una delle mie tante "debolezze" riguarda invece la passione per i libri e da quando il dottor Maci credette di individuarne la dimensione, non mancò di farmi pervenire una copia dei volumi più diversi: dal manuale di contabilità aziendale, aggiornata con le ultime novità della normativa comunitaria, al catalogo riccamente illustrato delle più prestigiose vetture d'epoca, o alle memorie postume di un illustre umanista calabrese. Inizialmente la cosa mi fece piacere, ma quando scoprii che la mia abitazione stava velocemente trasformandosi in una sorta di magazzino di una casa editrice, con il pericolo di un cedimento strutturale dei piani d'appoggio, pregai il dottor Maci di sospendere l'invio. Il Direttore mostrò una certa sorpresa e, temendo che la mia richiesta fosse motivata dal timore che il costo dei libri in questione fosse a carico dell'E.R.B.A., si premurò di assicurarmi che si trattava di volumi ricevuti in omaggio in duplice copia: un esemplare, a suo dire, entrava a far parte della biblioteca dell'ente e il secondo veniva spedito a me. Più tardi scoprii casualmente che era invece lo stesso dottor Maci a richiedere due copie in omaggio agli autori o agli editori. Ma non insistetti oltre e, vincendo una mia naturale ritrosia, presi la pur dolorosa iniziativa di gettare sistematicamente nel contenitore comunale della carta da riciclare tutti quei volumi che assolutamente non rientravano nella mia sfera d'interesse.

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Si diceva anche che Maci, forse a causa della sua difficoltà deambulatoria, avesse una particolare predisposizione nell'inciampare, finendo con le mani contro i glutei e i seni delle impiegate, soprattutto di quelle più giovani e più dotate. Lo faceva comunque con grande dignità e signorilità, scusandosi ogniqualvolta il bersaglio di turno avesse mostrato evidenti segni di disappunto. In altri casi, questo tipo di contatto avveniva sotto forma di un paterno abbraccio, che il Direttore elargiva generosamente in occasione delle principali festività religiose, dei compleanni o delle promozioni del personale. Ma gli uomini, almeno quelli, erano rigorosamente esclusi da questo tipo di attenzioni.
Le impiegate che presentavano attributi meno interessanti, o prossime all'età pensionabile, malignavano spesso sulle preferenze che il Direttore Generale manifestava, a loro avviso, nei confronti delle colleghe di più recente assunzione. Con quella proverbiale propensione alla maldicenza che aleggia in tutti gli uffici che si rispettano, venivano attentamente cronometrati i tempi spesi dalle colleghe più avvenenti nell'ufficio del dottor Maci, e quando queste ultime rientravano al loro abituale posto di lavoro, se ne scrutavano attentamente le sembianze, per cogliere eventuali importanti particolari quali - ad esempio - un bottone slacciato della camicetta, una sbavatura del trucco, un lieve rossore o una smagliatura nel collant. Se poi, un'impiegata cambiava spesso il proprio abbigliamento, ricorreva al parrucchiere una volta alla settimana, ostentava un nuovo orologio o un qualsiasi smagliante gioiellino, le colleghe riunite attorno alla macchina automatica del caffè giuravano di averla vista uscire il giorno prima dall'ufficio del Direttore Generale con la gonna stropicciata e con il foulard fuori posto.
Una collaboratrice dell'ufficio Archivio era particolarmente chiacchierata. Si trattava di una bella signora dai capelli color rame, ormai prossima ai quarant'anni, regolarmente sposata e con prole. Qualche anno prima era stata la segretaria del Direttore Generale e si diceva che a quel tempo avesse assunto un atteggiamento di ostentata superiorità nei confronti delle colleghe, imperversando con angherie e soprusi di ogni genere. Era stata a lungo bollata come "l'amante del Direttore" che, a detta di molte, era stato circuito a tal punto da delegare alla sua segretaria le più importanti funzioni disciplinari e operative. C'era anche chi asseriva di aver casualmente scoperto i due in atteggiamenti non propriamente professionali e di averli notati varie volte «uscire assieme e partire con la macchina del Direttore». Queste voci giunsero, infine, alle orecchie del dottor Maci che, colto il momento più propizio, decise di trasferire la collaboratrice in questione al piano terra, all'ufficio Archivio, dove ormai svolgeva mansioni d'ordine che, comunque, non erano servite a toglierle del tutto l'etichetta appiccicatale addosso. Cosa ci fosse di vero in tutto ciò non mi fu dato modo di saperlo e, tutto sommato, non mi interessava più di tanto.

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Includendo il Direttore Generale, l'organico dell'E.R.B.A. comprendeva una settantina di persone, delle quali sette impiegate nella segreteria generale, sei nelle pubbliche relazioni, cinque nell'ufficio ricerche e studi, una decina erano in forza all'amministrazione, quattro si occupavano di "tempi e metodi" e poco meno di quaranta erano distribuite nelle varie funzioni facenti capo ai servizi tecnici. Fra queste ultime c'erano i responsabili degli acquisti, i tecnici dell'impianto radio-televisivo e del centro elaborazione dati, gli addetti all'archivio e al centralino telefonico, i commessi e, infine, i due autisti.
La funzione di ricerca, che avrebbe dovuto essere preminente rispetto alle altre, disponeva soltanto di cinque persone, assolutamente insufficienti a garantire la necessaria produttività; mentre la maggior parte dei collaboratori erano impiegati in attività ausiliarie o, per usare un termine aziendalista, improduttive.
In effetti, e come ebbi modo di rilevare non senza sorpresa poco dopo il mio ingresso nell'ente, la maggior parte delle ricerche o degli studi venivano commissionati all'esterno, appoggiandosi ad istituti specializzati "privati" che svolgevano il compito loro richiesto sulla base di contratti ad hoc. L'ufficio Ricerche e Studi svolgeva, quindi, solo un ruolo di individuazione e proposta delle ricerche da effettuare, di selezione degli enti a cui commissionarle e, infine, di verifica dei risultati ottenuti. D'altro canto, la vastità dei campi d'interesse dell'E.R.B.A. avrebbe richiesto un organico interno di gran lunga più numeroso e qualificato, che avrebbe inciso molto più pesantemente sui già gravosi costi del personale.
Le organizzazioni sindacali avevano sollevato questo scottante tema in varie occasioni, chiedendo chiarimenti sulle spese che l'ente sosteneva nel commissionare le ricerche all'esterno, ma ogni volta la risposta del Direttore Generale (che aveva, lui solo, la responsabilità della struttura operativa e, conseguentemente, il compito di negoziare con le controparti sindacali) giungeva puntuale:
«... la specificità della particolare ricerca ... e le limitazioni della recente "legge finanziaria"...», o di altri vincoli esterni che di volta in volta potevano far gioco nell'economia del discorso, «... non ci hanno consentito di disporre dei quadri necessari a realizzare lo studio con il solo impiego delle risorse interne. Comunque, vi do la mia più ampia assicurazione che, d'intesa con il Presidente e con il rappresentante dei lavoratori presente nel Consiglio di Gestione, stiamo attentamente esaminando il problema per far sì che - quanto prima - si possa giungere a una maggiore autonomia produttiva interna e favorire così, da una parte, la riqualificazione professionale dei quadri e, dall'altra, il possibile inserimento di ulteriori risorse umane». Con queste precise assicurazioni i delegati sindacali si ritenevano per il momento soddisfatti e potevano riferire ai loro rappresentati di «aver continuato a sostenere, con la coerenza e la fermezza che caratterizzano da sempre la nostra posizione, gli interessi dei lavoratori nei confronti dei tentativi di discriminazione messi sistematicamente in atto dall'ente, in arrogante dispregio delle professionalità individuali e di un più attento impiego delle risorse».
Dopo di che, non succedeva più nulla di nuovo e la situazione si ripeteva, più o meno negli stessi termini, alla successiva occasione.

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Il personale era stato inserito partendo da un criterio selettivo che non poteva non tener conto della realtà e delle caratteristiche istituzionali dell'ente stesso. L'età media era attorno ai 30 anni e, se da un punto di vista quantitativo primeggiavano le donne, sotto il profilo qualitativo la maggior parte dei collaboratori erano forniti di prestigiose lauree rilasciate dai più famosi atenei nazionali. Al momento dell'assunzione non veniva loro richiesta una specifica e precedente esperienza in strutture similari, «... così le singole professionalità si possono formare meglio all'interno del nostro stesso istituto», ma - ciò non ostante - l'ufficio del personale e, in ultima analisi, il Direttore Generale, valutavano un insieme di elementi che rispecchiavano le necessità di equilibrio delle diverse esigenze "politiche" ed operative dell'ente.
Nelle mie precedenti esperienze lavorative avevo avuto modo di rilevare come la ricerca di nuovi collaboratori seguisse uno schema abbastanza semplice: esaurite le disponibilità di figli o di parenti stretti del titolare o dei principali azionisti (in questo caso non venivano tenute in eccessivo conto le singole caratteristiche culturali, professionali, di sesso e di età dei candidati), si andava, come si suol dire, "sul mercato", riesumando i
curricula disponibili in azienda e pervenuti dalle più diverse fonti. Oppure, si procedeva rispondendo agli annunci dei quotidiani o, infine, incaricando un professionista esterno. Il "mercato", nel suo complesso, doveva rispondere fornendo all'azienda un candidato le cui caratteristiche rispecchiassero le esigenze di tipo culturale, caratteriale, professionale, di età e, non ultime, economiche, poste alla base della ricerca. Dopo soli due o tre mesi, si poteva anche scoprire che la persona assunta aveva "barato" su tutti i fronti e che era in realtà ben diversa da quella che aveva fatto credere di essere al momento dell'assunzione. Ma tutto questo faceva parte dei "rischi d'impresa" e il funzionario responsabile della selezione ne poteva subire le conseguenze.
Il sistema usato dall'ente per l'assunzione del personale era invece leggermente diverso. Dovendo reperire un nuovo collaboratore, ci si trovava immediatamente di fronte ad una massa incredibile di sollecitazioni che piovevano da tutte le parti. Come nel famoso film,
Così parlò Bellavista, il responsabile del personale dell'E.R.B.A. doveva trovare un rifugio in cui rintanarsi per difendersi dagli assalti dei parenti, degli amici, degli amici degli amici, e dell'onorevole di turno, che peroravano la causa del "bravo giovane in cerca di un impiego". Era una difesa difficile e disperata e, alla fine, la decisione veniva presa dal dottor Maci che, valutato il "peso" dei vari proponenti e trovate le debite giustificazioni per tutti gli esclusi - che, senza dubbio, avrebbero potuto trovare una soddisfacente "riparazione" in una successiva occasione - emetteva il suo verdetto finale ed inappellabile.
E così ciascun dipendente aveva il suo "santo protettore", piccolo o grande, che lo tutelava. Ma poiché i "santi" erano soppesati con cura in modo che non si prevalicassero troppo l'un l'altro, risultava, alla fine, che nessun collaboratore fosse particolarmente "tutelato" e che l'unico, indiscusso arbitro dei destini del nuovo assunto fosse soltanto il Direttore Generale.
Gli effetti di questo complesso sistema selettivo erano palesemente evidenti: il giovane laureato in discipline umanistiche si trovava ad operare ai terminali di una banca-dati statistico-economica, fianco a fianco con un "110 e lode" in medicina e in neurochirurgia, mentre la ragazza dai lunghi capelli biondi e dalla minigonna vertiginosa, che non biascicava nemmeno una parola nelle più comuni lingue d'oltralpe, era addetta all'accoglienza degli stranieri che partecipavano ai seminari e ai convegni di contenuto tecnico-scientifico. Al centralino telefonico, infine, c'era una laureata in biologia, "tutelata" da un Consigliere che, a causa dell'età avanzata e di un peggioramento dei suoi disturbi alla prostata, si era dimesso dal Consiglio di Gestione due anni dopo l'assunzione della giovane.
Tutto questo non aveva comunque impedito al Presidente di esternare in un paio di affollate ed applauditissime conferenze-stampa l'esigenza che tutti gli enti di sviluppo e di ricerca,
« ... nell'attuale fase congiunturale, che determina e comporta impegni di elevata professionalità e di coordinamento sinergico di tipo sistemico, e in prossimità dell'attuazione degli accordi di Maastricht che - come noto - permetteranno un maggior interscambio di esperienze all'interno del meccanismo comunitario, pongano in primo piano l'esigenza di una intelligente ed attenta riqualificazione delle risorse umane, sul modello delle più avanzate economie dei Paesi industrializzati».

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L'ufficio "Tempi e Metodi" aveva il duplice compito di coordinare e ottimizzare il lavoro dei vari servizi operativi dell'ente, e di partecipare alla realizzazione delle ricerche scientifiche, apportandovi il suo contributo di indirizzo e di controllo metodologico. Vi lavoravano a tempo pieno quattro persone, due donne e due uomini, delle quali una aveva la responsabilità dell'ufficio, nei confronti diretti del Direttore Generale. L'intero servizio era, da sempre, alquanto osteggiato dalle rappresentanze sindacali, sia interne che esterne, che non vedevano di buon grado la sua continua e pretesa ingerenza nelle attività operative dell'intera struttura. Quando l'ufficio scopriva una lacuna o una dispersione di risorse nello svolgimento di una particolare attività, cercava di porvi rimedio, proponendo soluzioni, a suo avviso più semplici e razionali. La reazione dei sindacati era allora immediata e, con la minaccia di uno sciopero, veniva convinto il Direttore Generale a soprassedere dall'emanare ordini di servizio interni che modificassero lo statu quo. Tutto, quindi, restava più o meno come prima e ciascuno era libero di gestire il proprio lavoro secondo una sua personale visione che - tutto sommato - aveva sinora fatto funzionare la "macchina" in modo accettabile. O, meglio, tutto era andato avanti più o meno normalmente, fino al momento in cui non venne dato l'incarico a una società esterna di mettere fine alle incomprensioni e ai dissidi esistenti fra l'ufficio "Tempi e Metodi" e le rappresentanze dei lavoratori.

***

L'idea fu del dottor Maci, che risolse di scaricare formalmente sul Consiglio di Gestione il compito e la responsabilità di porre un termine alla pesante situazione determinatasi all'interno della struttura. Suggerì infatti al Presidente di permettergli di individuare e reperire una società di consulenza aziendale che, forte delle sue conoscenze professionali e delle più moderne tecniche di gestione, avrebbe potuto rivedere l'intero iter burocratico-amministrativo interno.
Uscì quindi il nome della Honey Moon (Italia) S.r.l. di Cuneo, un'azienda di apparente emanazione statunitense che, a quanto fu riferito, aveva già realizzato con successo analoghi interventi organizzativi in varie strutture pubbliche e private, anche di notevole rilevanza, con piena soddisfazione dei committenti. L'Amministrazione dell'E.R.B.A. predispose i necessari documenti propositivi per il Consiglio di Gestione che diedero origine alla discussione di rito - alla quale non partecipai, in quanto a quel tempo non facevo ancora parte del Consiglio di Gestione - e, infine, fu deliberato l'affidamento dell'incarico per il corrispettivo di 620 milioni di lire, tutto compreso. Il lavoro sarebbe stato portato a termine nell'arco di sei mesi, salvo imprevisti. La somma richiesta, che avrebbe potuto apparire esorbitante a chi non avesse ancora avuto sufficiente dimestichezza con i costi dei veri specialisti, era stata ampiamente giustificata dall'esigenza di disporre di una consulenza altamente professionale, da svolgersi all'incirca in 130 giorni lavorativi, per due persone a due milioni al giorno, ovviamente, più IVA.; e così il conto è presto fatto.
Poco tempo dopo fecero il loro ingresso negli uffici dell'ente due "specialisti", un uomo e una donna, che cominciarono ad intervistare e interrogare i dipendenti dell'E.R.B.A., raccogliendo preziose indicazioni sulle incombenze dei vari uffici, sui compiti svolti dai singoli, sul flusso dei documenti all'interno della struttura, e così via. Nel corso del loro lavoro i due esperti non si lasciarono mai sfuggire pubblicamente alcun commento, limitandosi ad ascoltare le risposte degli interrogati e a prendere nota dei punti più salienti. L'intervista si svolgeva sulla base di una sorta di questionario che - se mi è stato compiutamente riferito - chiedeva, fra l'altro: le generalità complete dell'intervistato; le sue qualifiche scolastiche e professionali; l'anzianità di servizio nell'ente e le funzioni svolte durante il periodo; le modalità di svolgimento dell'attuale incarico e i livelli di responsabilità; la quantificazione del lavoro svolto; i rapporti operativi con il resto dell'organizzazione, comprese le modalità di gestione del flusso dei documenti in arrivo e in partenza; nonché eventuali opinioni sullo svolgimento del lavoro e sulle sue possibili modifiche.
Al termine dei primi tre mesi di lavoro, la Honey Moon trasmise alla Direzione Generale dell'ente un primo elaborato che esponeva i risultati delle interviste e che sottolineava alcuni difetti organizzativi e strutturali emersi dall'analisi e dalla comparazione delle risposte ottenute dai collaboratori. In sostanza, venivano messe in rilievo una forte disaggregazione delle funzioni, una costante tendenza all'improvvisazione da parte dei vari funzionari, la mancanza di precisi livelli di responsabilità e di sufficienti controlli e, infine, la duplicazione di molte funzioni operative. Si trattava di un'accurata fotografia dell'esistente; di una prima diagnosi che sarebbe servita per formulare la terapia d'intervento più conveniente.
I due esperti sparirono per i successivi tre mesi e, alla fine, si ripresentarono al n. 37 di viale del Rinascimento con un voluminoso fascicolo che conteneva il risultato del loro complesso lavoro. Si trattava della sintesi conclusiva, che avrebbe consentito all'E.R.B.A. di ristrutturare l'intero apparato burocratico-amministrativo e permetterle di operare con maggiore organicità e funzionalità.

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Nel corso di un'affollata riunione di lavoro, il dottor Maci, coadiuvato dai due specialisti esterni, illustrò ai propri collaboratori le decisioni operative emerse dalle indicazioni formulate dall'Honey Moon. Innanzi tutto, veniva varato un nuovo "organigramma interno", corredato da un apposito "mansionario" che stabiliva i nuovi livelli di funzioni e di responsabilità del personale dell'Ente. Lo schema adottato era quello della "struttura a matrice" dove, in pratica, ognuno aveva un suo ruolo preciso, che si intersecava sinergicamente e funzionalmente con quello di altri colleghi. Le responsabilità erano assegnate singolarmente e collegialmente, in modo che fosse estremamente chiaro - si fa per dire - di chi fosse il merito dei successi o la colpa delle eventuali disfunzioni. Venivano stabiliti livelli decisionali e di controllo basati su dettagliate norme procedurali che riguardavano i singoli aspetti operativi e i vari servizi.
Tutto era, quindi, specificato sin nei minimi dettagli e non sarebbero state più ammesse deroghe o "fantasie personali" nell'attuazione dei diversi compiti. A ciascun collaboratore venne consegnata una copia delle nuove "procedure", con l'invito a studiarla rapidamente, per poi metterla in attuazione a decorrere dal primo giorno del mese successivo.
Nel volgere di due mesi si raggiunse il totale congelamento delle attività operative dell'Ente e, nel contempo, si registrò un imprevisto aumento dei costi della cancelleria. La mole di comunicazioni interne che circolavano fra gli uffici era infatti cresciuta in modo abnorme, in quanto i singoli collaboratori, richiesti di rispettare i dettami delle nuove procedure, non godevano più del benché minimo potere discrezionale e dovevano sottoporre ogni loro atto al vaglio di altri colleghi i quali, a loro volta, prima di emettere un proprio parere, esaminavano per bene le procedure che li riguardavano, interpretavano i singoli livelli di responsabilità, cercavano di comprendere il loro ruolo "matriciale" e, alla fine, rispedivano al mittente l'intera pratica appena ricevuta, sottolineando la loro incompetenza,
"... a sensi del paragrafo tale della procedura talaltra".
Chi riceveva di ritorno il fascicolo, non sapendo esattamente cosa farne, rileggeva la procedura, vi dava una sua interpretazione personale e rispediva il tutto all'originale destinatario con una nota che faceva riferimento ad altri paragrafi di altre procedure.
I due famosi specialisti nel corso delle loro interviste "avevano capito tutto" ed avevano preteso di regolamentare dettagliatamente una materia che poteva benissimo continuare a funzionare così com'era, pur nel permanere dei piccoli dissidi interni fra l'ufficio "Tempi e Metodi" e le rappresentanze sindacali.
Ne scaturì un dibattito a livello di Consiglio di Gestione, nel corso del quale il Direttore Generale - che vi partecipava d'ufficio in veste di Segretario - fece rispettosamente osservare ai signori Consiglieri che la decisione formale di attuare la "riforma" era stata tutta e soltanto loro. Venne allora deciso di "lasciar decantare" il problema, consentendo ai collaboratori un tacito ripristino delle modalità operative precedenti. Tema, contenuto e risultato della discussione non vennero messi a verbale e la vicenda non ebbe altri seguiti degni di rilievo.
Qualche tempo dopo la mia entrata nel Consiglio di Gestione dell'E.R.B.A. venni casualmente a conoscenza di alcuni particolari che mi fornirono maggiori lumi sulla Honey Moon (Italia) S.r.l. e sui suoi esperti. Si trattava, in realtà, di una struttura di consulenza nata soltanto pochi anni prima, che non disponeva di alcun dipendente né di altri partner professionisti. Aveva il minimo capitale sociale consentito dalla legge ed era retta da un Amministratore Unico che, del tutto incidentalmente, era felicemente sposato con la figlia di un ex-Consigliere dell'E.R.B.A.: quello stesso che aveva rappresentato gli interessi del mondo sindacale prima della nomina di Esposito. Per svolgere gli incarichi che le venivano affidati, la società si avvaleva abitualmente di giovani laureati in attesa di impiego, che reclutava con appositi contratti di collaborazione "a scadenza".
Questi piccoli particolari forse davano una risposta anche ad un interrogativo che mi ero posto da qualche tempo: come mai le rappresentanze sindacali del personale dell'E.R.B.A., che pur avevano alimentato una conflittualità quasi permanente nei confronti dell'ufficio "Tempi e Metodi", non avevano avuto nulla da obiettare contro la "riforma" suggerita dalla prestigiosa compagine di specialisti?.

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