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"Uno scolaro nell'ERBA"

Capitolo 10

La laureata dell'interno 725

 

Il Consiglio di Gestione dell'E.R.B.A. non comprendeva alcun esponente del gentil sesso, e la circostanza poteva apparire alquanto anomala in un contesto generale nel quale la presenza femminile aveva ormai assunto un ruolo sempre più significativo. Mi chiesi se ciò fosse del tutto casuale o se ubbidisse a qualche ragione particolare che al momento mi sfuggiva, e un giorno ne accennai a Ciocchini, che mi diede una sua personale interpretazione, stranamente non condita dalle colorite espressioni che di solito accompagnavano i suoi discorsi in materia di donne.
«Credo», mi spiegò il collega, «che la ragione risieda in una inconfessata e viscerale avversione del nostro Presidente nei confronti dell'animale politico di sesso femminile. Non é che Tagliarami sia insensibile al fascino di un bel paio di gambe o che, peggio ancora, abbia tendenze, per così dire, particolari. No, affatto; credo anzi che da questo punto di vista il nostro amico sia del tutto normale. Non è certo uno che si agita troppo, ma ha pur sempre una moglie e dei figli e non mi risulta che siano girate voci circa i suoi comportamenti con le fanciulle, dentro o fuori l'istituto. Tutto regolare, quindi, ma allo stesso tempo decisamente fermo nei confronti di quello che lui talvolta definisce il "rampantismo" femminile».
«Scusa se ti interrompo», dissi a questo punto, «ma c'è qualcosa che non mi quadra del tutto. Mi sembrava di capire che le nomine nel Consiglio avvenissero per designazione esterna e non per decisione del nostro pur benamato Presidente. Quindi, potrebbe capitargli benissimo di trovarsi, volente o nolente, una signora "Consigliera" nella poltrona accanto. Ma, da quanto ho appreso, questa eventualità non si é mai verificata».
«Vedi, Lechi», proseguì il collega, «noi forse crediamo di essere stati nominati semplicemente da chi aveva titolo per farlo, ma - in realtà - le cose sono andate in un modo leggermente più complesso. Il meccanismo delle nomine, o se vuoi, della lottizzazione, è simile a un sottile minuetto, dove i ballerini danzano sulle punte dei piedi, cercando di non pestare quelli degli altri. Già a livello di scelte "a monte" i nostri cosiddetti mandanti cercano di accontentare - o meglio ancora, di non scontentare - questo o quello, individuando di volta in volta quei due o tre personaggi che potrebbero andare bene. Quindi, comincia - sotto sotto e, in certi casi, a tua completa insaputa - il balletto finale, laddove "loro" spiegano, a chi dovrà poi accoglierti, chi sei, come sei fatto, cosa hai fatto, cosa rappresenti e dove vuoi arrivare.
Se le tue caratteristiche - e il peso che in quel momento il tuo proponente riesce a mettere, o vuole mettere, sul piatto della bilancia - riescono a soddisfare anche i desideri del "ricevente", allora la cosa é fatta e ti danno il regolare biglietto d'ingresso. Con beneplacito di tutti. Altrimenti, viene individuato un altro candidato, maggiormente gradito sia al proponente che al ricevente.
E, bada bene, in tutto questo discorso la vera professionalità c'entra fino a un certo punto. E' anche un problema di "dare e avere", che riesce - alla fine - a bilanciarsi in modo quasi perfetto. In qualche circostanza è poi lo stesso candidato che si dà un gran da fare per essere nominato. Non mi riferisco ora al tuo caso specifico che, fra l'altro, non conosco e che non mi interessa conoscere, bensì al "sistema" nella sua accezione più comune.
Ritornando alla domanda iniziale, se si pone il problema di una sostituzione in seno al nostro Consiglio e qualcuno propone una rosa di candidati, fra cui una donna, stai tranquillo che questa non entra. Al nostro Presidente non piacerebbe trovarsi fra i piedi un'esponente del gentil sesso e, senza dichiararlo apertamente, farebbe in modo di esprimere una sua preferenza per un candidato maschio, motivandola con ragioni che nulla hanno apparentemente a che fare con le differenze di sesso. Se, poi, mi chiedi cosa possa esserci alla base di questa specie di misoginia di Tagliarami, penso che vi sia solo il timore che una presenza femminile porti nel nostro consesso quel contenuto di eccessiva praticità e di scarsa vocazione politica che mal si adatterebbe con le caratteristiche del nostro Presidente.
La donna, infatti e con esclusione di qualche isolata "pasionaria" o di qualche altra pulzella che di femminile ha solo l'aspetto esteriore, quando occupa una posizione di rilievo è generalmente portata a vedere le cose in senso molto pragmatico, con un efficientismo alquanto sviluppato e, infine, con una sua particolare sensibilità che non sempre si adatta alle dissertazioni politico-filosofiche o alle schermaglie dialettiche che spesso si esprimono in seno a questo tipo di istituzioni. Non credere, quindi, che la mancata presenza di una donna nel nostro Consiglio sia dovuta alla sola casualità, ma neppure devi pensare che ciò sia motivato da un'avversione "fisica" nei suoi confronti. Per il nostro Presidente le donne vanno molto bene in veste subalterna, quali segretarie o simili, e in questo ruolo le stima e le rispetta, salvo strapazzarle a dovere quando è di luna storta. Forse non si accorge nemmeno quando cambiano la pettinatura o se portano o meno il reggiseno; ma non le vorrebbe mai sedute al suo stesso tavolo in posizione paritetica. Non saprebbe forse come gestirle e come difendersi dai loro eventuali attacchi. Da questo punto di vista Tagliarami ed io siamo molto diversi e ti assicuro che se mi capita un'occasione ... »
.
Accettai per buone le spiegazioni di Ciocchini, ma mi sorse immediatamente un secondo interrogativo che, a quel punto, preferii tenere dentro di me. Se l'eccessivo efficientismo ed il pragmatismo di altre persone, unitamente alla scarsa sensibilità politica, erano caratteristiche non eccessivamente gradite al nostro Presidente, cosa avrebbe potuto pensare di me che, pur non essendo una donna, ho sempre ritenuto di non essere un "animale politico", cercando di porre la concretezza alla base della mia attività lavorativa?. Il mio trascorso politico era stato infatti del tutto inesistente: non fui mai iscritto ad alcun partito e nelle numerose consultazioni elettorali succedutesi da quando raggiunsi l'età per votare, ebbi sempre un grande imbarazzo nel mettere la croce su questo o su quel simbolo. Quindi, come aveva potuto il nostro Presidente accettare la mia candidatura, se gli erano noti i miei trascorsi personali e professionali?. Su questo punto non riuscii mai a darmi una risposta plausibile.
Anche le considerazioni del collega Ciocchini sulle caratteristiche del gentil sesso, viste in un contesto più propriamente lavorativo, mi lasciavano alquanto perplesso. In effetti, avevo avuto modo di osservare a lungo le "differenze" fra i comportamenti in ambito professionale dei due sessi ed avevo potuto riscontrare come la donna non sia sempre e soltanto un "angelo del focolare", tutta devozione e accondiscendenza. In particolare, avevo rilevato come in un ambiente di lavoro dove le donne si trovavano in netta maggioranza, le semplici schermaglie gra colleghe si trasformassero addirittura in feroci duelli alla sciabola. Scontri senza esclusione di colpi, ma condotti con una tecnica tutta particolare, fatta di battute ferocemente sottili, di piccole malizie pungenti, di alleanze che si creavano e che si frantumavano senza una logica facilmente comprensibile, almeno per la proverbiale ottusità del "maschio". Vittorie o sconfitte che si potevano solo capire da come - il giorno dopo - le duellanti si presentavano, o non si presentavano, al lavoro. Ad esempio, la vincitrice di turno arrivava sfoggiando un abito e un'acconciatura che la rendevano particolarmente attraente e invidiabile, mentre la collega "sconfitta", o denunciava un'improvvisa malattia, della serie:
«Carla oggi ha le sue cose», o giungeva in ufficio immusonita, triste e dimessa, dicendo: «Oggi ho una terribile emicrania". E le colleghe che non avevano direttamente partecipato allo scontro, ma che lo avevano seguito attentamente, avevano ampio modo di commentare, infierire, complimentarsi o consolare, a seconda della simpatia del momento per questa o per quella delle due contendenti.
Il tutto si svolgeva in modo leggermente diverso, ma ottenendo il medesimo risultato, allorquando le donne erano numericamente in netta minoranza o quando, peggio ancora, a dirigere l'ufficio, il servizio o la direzione, c'era un uomo. In tal caso, la tradizionale "subordinanza al maschio", e qualche altra piccola civetteria inventata al momento, venivano abilmente utilizzate quale arma di seduzione per ottenere il necessario consenso del "capo" e sconfiggere inesorabilmente le avversarie, riducendole al rango di semplici zerbini di cocco.
Si parla tanto, e certamente a ragione, delle molestie sessuali commesse da taluni individui abietti sul luogo di lavoro, ma forse non si sono ancora studiate abbastanza a fondo le sottili "molestie" messe in atto dalle loro gentili "colleghe". E forse era proprio questo che inconsciamente temeva Riccardo G. Tagliarami: il non sapere come comportarsi in caso di utilizzo da parte della donna delle sue armi più pericolose. Nel dubbio, riteneva più opportuno evitare sin dall'inizio ogni possibilità di scontro.

***

D'altro canto, la presenza attiva della donna negli uffici, notevolmente aumentata negli ultimi decenni, costituisce un elemento caratterizzante dei tempi che stiamo vivendo. Si ritrovano ormai molte situazioni lavorative in cui il gentil sesso è preponderante, con l'inserimento di giovani culturalmente elevate e - com'è più che giusto e naturale - desiderose di migliorare sempre più, nel tempo, la loro posizione professionale.
Iniziata l'attività lavorativa magari appena dopo il conseguimento del titolo accademico, interpretano con impegno e determinazione il loro ruolo, dedicandovi gran parte delle energie disponibili. In molti casi si tratta di una comprensibile esigenza di vita, conseguente al bisogno di raggiungere una maggiore indipendenza economica o di contribuire a far meglio "sbarcare il lunario" alla famiglia. In altri casi, invece, ci si trova di fronte ad un puro, seppure pienamente legittimo, desiderio di vera e propria emancipazione. Non vogliono sentirsi, in nessun caso o in nessuna circostanza, inferiori ai loro altrettanto giovani colleghi, con cui stabiliscono spesso un rapporto di cameratesca parità.
A casa, comunque, c'è quasi sempre una mamma che provvede a non far loro mancare nulla e, nel caso del raggiungimento di una più completa indipendenza, c'é l'extra-comunitaria di turno, ingaggiata "a ore", che pensa alle pulizie di casa e al disbrigo delle altre incombenze domestiche.
Il loro pensiero ricorrente è: lavorare, acquisire meriti professionali e dimostrare l'assoluta uguaglianza dei sessi. L'impegno professionale assorbe la maggior parte del tempo disponibile e ne rimane loro veramente poco per curare come vorrebbero la propria persona, le amicizie e tutto il resto. Per le più fortunate non manca comunque la disponibilità di qualche amico con cui trascorrere piacevoli serate nel ristorante alla moda e, se del caso
«Ma senza coinvolgermi mai troppo, soprattutto dal lato sentimentale», concluderle con piacevoli esercizi fisici di coppia.
Qualcuna, presto o tardi, si sposa, abbandona il lavoro o lo interrompe periodicamente per lasciare spazio alle maternità, più o meno programmate, e dedica la maggior parte delle sue attenzioni non più solo alla carriera, bensì anche alla nuova famiglia. Se per comune decisione coniugale, o per un banale incidente di percorso, le più accanite "carrieriste" mettono al mondo un pargoletto, non appena trascorse le poche settimane post-parto previste dalla legge e consigliate dal ginecologo di turno, tornano al lavoro, parcheggiando il marmocchio un giorno presso una nonna e l'altro giorno presso l'altra o, in mancanza di meglio, presso un asilo-nido.
La tesi giustificativa suona più o meno così:
«E' bene che i figli crescano senza rimanere troppo attaccati alla gonna della mamma e che imparino sin da piccoli a convivere con la gente». Poi, magari, alla fine del mese, facendo i conti delle entrate e delle uscite familiari, scoprono che il costo della collaboratrice domestica addetta alle pulizie e la retta dell'asilo-nido assorbono quasi per intero lo stipendio. D'altro canto, anche il legittimo coniuge della giovane laureata "deve" fare - a sua volta - carriera e sarebbe forse poco dignitoso ammettere di avere un marito che si è assunto il ruolo di "casalingo a tempo pieno".
Durante i primi anni di vita il figlio diventa così una specie di pacco postale, smistato ai vari destinatari con cura e con tutto l'indispensabile corredo di pappe, medicine, pupazzetti e attrezzature di ricambio varie.
Anche per le altre giovani "in carriera" rimaste, volenti o nolenti, strettamente nubili, con il trascorrere degli anni si sviluppano le esperienze professionali, ma in tutte loro cresce altresì piano piano un maggior senso critico nell'intima valutazione verso gli esponenti maschili con cui vengono in contatto. La concorrenzialità con questi ultimi, e la consapevolezza di non essere diverse, le porta ad abbattere del tutto quelle barriere psicologiche e socio-culturali di una certa vetero-cultura terzomondista che faceva ritenere la donna inferiore all'uomo. D'altro canto, per una laureata in scienze biologiche, o con il
master in economia aziendale, è talvolta inconcepibile accasarsi con un semplice operaio metalmeccanico, mettere al mondo una nidiata di bimbi piagnucolosi e doversi poi ridurre a rammendare calzini e lavare le tute sporche di grasso. Capita così che parecchie di queste giovani donne in carriera, superata da tempo la trentina d'anni e passate attraverso alcune infelici esperienze sentimentali, si interroghino sulla loro vita futura e temano seriamente di rimanere single per il resto della loro vita. Una solitudine tipicamente affettiva, che non verrebbe certamente mitigata dal fatto di disporre di quel famoso amico con cui appagare periodicamente, e con le dovute cautele, le necessità puramente sessuali.
La conquistata emancipazione femminile si può così trasformare, alla lunga, in una vera e propria nevrosi, con forme di patologia esistenziale che fanno la fortuna delle case farmaceutiche produttrici di psico-farmaci.
In un certo senso, alla "crisi della casalinga", esplosa negli anni '60, sta ora sostituendosi la "crisi della donna in carriera".

***

La dottoressa Gabriella Conti, responsabile dell'ufficio Ricerche e Studi dell'E.R.B.A., appariva come una tipica rappresentante della categoria delle giovani donne in carriera. Trent'anni o poco più, penetranti occhi scuri e capelli neri tagliati alla maschietto, tailleur-pantaloni di ottima fattura, tre o quattro anelli d'oro alle dita, una coppia di collane di pietre dure e ambra che arrivavano a mezzo busto, l'antenna del telefono cellulare che fuoriusciva da una capace borsa del genere "a tracolla", interessanti giuste "curvature" che modellavano la sua figura rendendola decisamente attraente, un'ombra di rossetto sulle labbra e un trucco sempre impeccabile.
La nostra prima conoscenza avvenne poco dopo la mia nomina a membro del Consiglio di Gestione dell'E.R.B.A. In quella circostanza, Riccardo G. Tagliarami e il Direttore Generale vollero farmi conoscere ad uno ad uno i quadri dirigenti dell'ente, convocando nell'ufficio del Presidente anche la dottoressa Conti, per le presentazioni di rito. La vidi entrare con incedere deciso e con il sorriso di-quella-si-sente-sempre-sicura-di-sé. Ci accomodammo tutti e quattro sulle poltroncine dell'angolo-salotto e, dopo i soliti convenevoli d'uso, Tagliarami l'invitò ad illustrarmi,
«La prego, in poche battute, in quanto il dottor Lechi, che ha avuto la compiacenza di dedicarci qualche minuto, ha molti altri impegni più importanti e, purtroppo, non possiamo trattenerlo più a lungo», le sue funzioni, nonché la "missione" affidata all'ufficio da lei diretto.
L'esposizione fu infatti sintetica, precisa e professionalmente ineccepibile. Mentre la dottoressa recitava alla perfezione la sua parte, avevo assunto un atteggiamento altrettanto compunto, mostrando grande attenzione alla sua spiegazione e facendo cortesi cenni di assenso per sottolineare i punti di maggior interesse. Nel frattempo, cercavo anche di scoprire i suoi lati nascosti, domandandomi - fra l'altro - come sarebbe apparsa appena alzata dal letto al mattino, o come si sarebbe comportata nei momenti di maggiore intimità affettiva. Frenai a stento un sorriso allorquando la mia contorta fantasia mi portò ad immaginare la repentina interruzione di un nostro piacevole rapporto, di natura non propriamente platonica, causata dall'inopportuno squillo di quel telefono cellulare da cui evidentemente non si staccava mai. Mi scossi però subito da quei pensieri poco professionali, intimamente auto-accusandomi di una inguaribile forma di ottuso maschilismo che non mi permetteva di considerare la donna se non come madre, come moglie o come piacevole amante. Quella che stava seduta davanti a me era in quel momento solo una valida collaboratrice dell'E.R.B.A.; una persona che con la sua professionalità e con il suo lavoro quotidiano avrebbe contribuito a rendere meno difficile anche il compito che mi era stato istituzionalmente affidato. La banale circostanza del suo essere donna, anziché uomo, non avrebbe dovuto minimamente incidere nel mio giudizio sulla sua persona. Queste doverose considerazioni mi permisero di mantenere la maschera che era richiesta dalle circostanze del momento e di salvare ancora una volta la faccia.
Ma, indubbiamente, la dottoressa Conti poteva costituire un interessante caso, non solo di studio.
Le occasioni di lavoro ci consentirono, in seguito, di conoscerci meglio. Il primo passo lo fece proprio lei, telefonandomi una sera per informarmi che, il mattino seguente,
«Mi deve scusare per l'ora e per averla disturbata a casa, ma l'abbiamo saputo solo poche ore fa e non mi è stato possibile rintracciarla in altro modo», sarebbe giunto in visita alla sede dell'E.R.B.A. un importante personaggio, il professor Hans Werner, presidente di un prestigioso ente di ricerca tedesco legato al nostro da antichi rapporti di collaborazione.
«Il dottor Tagliarami», mi disse ancora la dottoressa Conti, «vorrebbe riservare all'ospite un'accoglienza di tutto rilievo, con la presenza anche di qualche altro esponente del Consiglio di Gestione. Si tratterà solo di dedicargli pochi minuti di saluti; poi vedrà che la lasceremo libero al più presto. Le sarei personalmente grata se potesse partecipare alla riunione. Come le ho detto, anche il Presidente ci tiene molto».
Quella volta non seppi resistere all'invito della giovane dirigente che, per la circostanza, aveva assunto un'intonazione decisamente convincente e la mattina successiva fui puntualmente presente per adempiere i miei compiti di rappresentanza. Quando la riunione fu conclusa e dopo che l'ospite se ne fu andato con il corredo di una medaglia-ricordo dell'Ente donatagli dal dottor Tagliarami, mi avviai anch'io verso l'uscita, ma fui intercettato nel corridoio dalla dottoressa Conti che mi elargì un ampio sorriso, dicendomi:
«Non so come scusarmi ancora per ieri sera e come ringraziarla per non avermi detto di no. Mi auguro di non averla importunata. Devo confessarle che lei mi è stato di grande aiuto, in quanto il Presidente non era riuscito a trovare nessun altro membro del Consiglio di Gestione che fosse disponibile per questo improvviso ed imprevisto incontro e ... se l'era addirittura presa violentemente con me accusandomi di non avere provveduto per tempo ad organizzare la dovuta accoglienza al professor Werner». E, quindi, in tono più sommesso, aggiunse: «Come se questo compito spettasse a me e non alla mia collega che si occupa delle pubbliche relazioni!». Poi, accortasi di avere abbandonato per qualche istante la veste professionale che si era abitualmente imposta, riprese il suo aspetto ufficiale, congedandosi con un altro compunto ringraziamento e defilandosi rapidamente nel suo ufficio.
Alcuni mesi dopo fummo compagni di viaggio per una visita alla Fondazione Lodovico Lambertini di Trento, una struttura scientifica che si occupava di ricerche per la tutela dell'ambiente. La dottoressa Conti vi si recava in veste di esperta-ricercatrice ed io quale rappresentante politico-istituzionale dell'E.R.B.A. Il tutto, nel quadro di un programma di ampliamento "a rete" delle relazioni scientifiche che interessavano il mondo della ricerca, sollecitato da Riccardo G. Tagliarami con il consenso dell'intero Consiglio di Gestione.
Ci trovammo alle sette e trenta del mattino alla stazione ferroviaria e prendemmo posto in uno scompartimento del rapido che, dopo qualche ora, ci avrebbe condotti a destino. Per tutta la durata del viaggio rimanemmo soli nello scompartimento, mentre in quelli accanto a noi rumorosi gruppi di tifosi tedeschi che rientravano da una partita di calcio giocata a Napoli, scolavano bottiglie di birra e inneggiavano alla vittoria della loro amata squadra.
La dottoressa Conti indossava, questa volta, un completo classico che metteva ancor più in risalto il suo fisico snello e un paio di gambe che già a suo tempo avevo valutato pressoché perfette. Compunta e professionale come al solito, aveva aggiunto alla borsetta-sacca, all'immancabile cellulare e agli altri accessori d'uso, altre due capaci borse - dotate anch'esse di tracolla - che non riuscivo ad immaginare cosa potessero contenere. La nostra permanenza a Trento si sarebbe conclusa il mattino successivo e il corredo personale necessario per una così breve assenza "fuori sede" si sarebbe pertanto dovuto limitare a ben poche cose.
Incuriosito, chiesi ragione delle due borse e appresi così che
«...oltre a qualche cosa di mio. Come dovrebbe sapere, dottor Lechi, le donne hanno sempre bisogno di portarsi appresso le loro cianfrusaglie», aveva con sé un personal computer portatile, su cui aveva "caricato" alcuni studi realizzati dal suo ufficio, e due copie di una ricerca, «a cui il nostro Presidente tiene molto e che dovremo lasciare in omaggio alla biblioteca della Fondazione Lambertini».
Durante il viaggio la nostra conversazione partì da temi classici, quali:
«Speriamo che il bel tempo tenga almeno per un paio di giorni e che non ci faccia rimpiangere di avere lasciato a casa gli ombrelli e gli impermeabili»; o come: «Ha sentito le ultime sul Governo?», per poi continuare in altre banalità riguardanti il motivo specifico della nostra visita a Trento.
Mentre lei parlava, mi sforzavo di mantenere un atteggiamento compito, attratto com'ero dalla vista di quel bel paio di gambe accavallate di fronte a me e da un delizioso alone di profumo che discretamente emanava dalla mia compagna di viaggio. Sapeva scegliere bene i suoi profumi e, soprattutto, dosarne l'uso nella quantità giusta. Ho sempre avuto una particolare attrazione per le donne che sanno circondarsi di una leggera nuvola di essenze delicate, senza con ciò lasciare al loro passaggio una scia di pesanti effluvi. Quando poi alla giusta scelta dei profumi si accompagnano altre caratteristiche meritevoli, il mio interesse non può che aumentare. Dovevo, a quel punto, cercare di interrompere la banalità della conversazione ed indirizzare il discorso verso qualcosa di più interessante, senza tuttavia correre il rischio di essere importuno od eccessivamente "confidenziale". Il mio ruolo, per così dire, gerarchico e il timore di incontrare un muro di esasperato formalismo professionale non me lo avrebbero consentito. Tentai allora di percorrere una strada laterale, che forse poteva rompere il ghiaccio.
«Dottoressa Conti», azzardai, «come mai - quella volta che venne a visitarci il professor Werner - mi disse di essere stata coinvolta in compiti che non riguardavano la sua funzione? Mi era infatti sembrato di capire dalle sue parole che il dottor Tagliarami l'avesse ingiustamente rimproverata per qualcosa che avrebbe dovuto far capo alla sua collega delle pubbliche relazioni».
La mia interlocutrice rimase un attimo pensierosa, poi mutò il suo atteggiamento formale e i suoi occhi assunsero una luce decisamente più "femminile".
«Per quanto riguarda il mio nome, dottor Lechi, mi farebbe piacere se lasciasse in disparte la "dottoressa" e mi chiamasse semplicemente Gabriella. Innanzi tutto è un nome che mi piace e, inoltre, devo confessarle - e non vorrei che lei mi fraintendesse - che fra i membri del Consiglio di Gestione lei è quello che ammiro di più, non solo per la sua competenza, ma anche - e non si inorgoglisca troppo, perché altrimenti mi ritirerò subito nel mio guscio - per un certo tratto di umanità e di disponibilità verso gli altri che traspare dal suo comportamento. Vede», aggiunse, «il nostro ruolo di donne "impegnate" ci impone di indossare una maschera che talvolta non ci si addice del tutto. Dobbiamo essere carine, ben vestite, sempre ligie alle regole imposte dall'etichetta, pronte a rispondere con competenza e professionalità ai compiti che ci vengono assegnati ed accettare, con apparente disinvoltura, le battute - talvolta anche un tantino pesanti - che ci rivolgono, non solo in privato, capi e sotto-capi. Un paio dei suoi colleghi, ad esempio .... ma mi scusi, non volevo; .... lasciamo perdere».
Si fermò un istante, come per scacciare dalla mente qualcosa di sgradevole, quindi proseguì:
«In ogni caso si tratta anche di una nostra scelta e, come tale, la dobbiamo affrontare nel migliore dei modi, risvolti spiacevoli inclusi. Ma tornando alla sua domanda, quella volta il Presidente se la prese con me, non perché sono una donna, ma perché non aveva sottomano nessun'altra persona con cui prendersela. Era stato colto in contropiede dall'inaspettato arrivo del professore tedesco e temeva di non essere in grado di accoglierlo degnamente. Voi del Consiglio probabilmente conoscete il dottor Tagliarami in una veste diversa da quella che è uso mostrare a quelli che lui considera suoi subalterni. Formale e sempre gentile quando si trova con voi o con estranei, può anche coprire di improperi il primo che gli capita a tiro se qualcosa gli va storto e non ci sono altri testimoni di riguardo nelle immediate vicinanze. Quel giorno era capitato a me e ... non era purtroppo la prima volta. Mi creda, dottor Lechi...»
A questo punto interruppi il suo discorso:
«Senta, Gabriella, io ho accettato con piacere di mettere da parte la "dottoressa", ma ora lei deve mettere da parte il "dottore". E' un titolo che non posseggo e che non ho mai cercato di spacciare, ritenendo che, al limite, un banalissimo "signor Lechi" sia più che sufficiente per ogni occasione. Ma mi scusi l'interruzione e la prego, prosegua.»
«OK, affare fatto, signor Lechi.», mi rispose con un sorriso, «Come stavo dicendo, talvolta mi viene voglia di andarmene e di cercare un lavoro come baby-sitter, o qualcosa di simile. Sarebbe un impiego meno appariscente, ma avrei almeno un poco più di tempo da dedicare a me stessa e, forse, alla fine del mese avrei guadagnato qualcosa in più. Sicuramente ci sarebbero meno problemi, sotto vari punti di vista».
Ritenevo che il comportamento di Tagliarami fosse sempre così ineccepibile come l'avevo potuto osservare di persona, ma evidentemente anche quel perfetto
gentleman di stampo britannico aveva i suoi lati controversi. Gabriella, comunque, aveva cominciato a mostrarsi con un volto più umano e la conversazione stava perdendo il suo formalismo iniziale.
«Mi sembra di capire», azzardai, «che, almeno per quanto la riguarda, l'avere raggiunto una posizione di tutto rilievo non le consenta ancora di sentirsi, come si suol dire, del tutto realizzata. Eppure, mi consenta di dirlo, lei è senza dubbio una bella donna, elegante, colta, ammirata e con un ruolo professionale che potrebbe essere invidiato da molti. Sono certo che, anche dal punto di vista sentimentale, non dovrebbe avere particolari problemi. Ma, allora ...», aggiunsi, «cosa c'è che non va?».
Gabriella accennò un sorriso e, quindi, rassicurata da un mio atteggiamento di evidente interesse, cominciò a vuotare il sacco.
«Non vorrei annoiarla con le mie storie personali», disse, «ma visto che me l'ha chiesto e che, come detto, la ritengo diverso da altri suoi colleghi - ai quali probabilmente non racconterei mai i fatti miei - mi permetta di considerarla, in un certo senso, un amico. Che ti sta ad ascoltare e al quale si possono chiedere anche dei buoni consigli. Vede, al di là delle apparenze, che anche lei non ha potuto fare a meno di sottolineare, i miei problemi non sono pochi. Non mi riferisco a quelli economici, anche se l'affitto dell'appartamento ammobiliato in cui risiedo dal lunedì al venerdì, il rientro del fine settimana a casa mia (i miei genitori abitano a Latina e li raggiungo ogni sabato, per lasciarli poi la domenica sera) ed altre spese, per così dire, di immagine e di rappresentanza, mi lasciano spesso letteralmente al verde ancora prima della fine del mese.
Mi riferisco ad altri problemi, che sono ben più importanti. Ho superato ormai da qualche anno la trentina e mi sto avviando a rapidi passi verso quell'età in cui si pensa più al passato che non al futuro. Perché guardando in avanti non si intravede che il pericolo di una tremenda solitudine. Una decina d'anni fa ho avuto una relazione che mi aveva resa inizialmente felice e spensierata. Credevo che affetti e carriera potessero marciare di pari passo e mi illudevo che la mia vita potesse scorrere in modo più normale, appagando completamente il mio desiderio di mettere insieme una famiglia, di avere dei figli e di raggiungere, nel contempo, una buona posizione nel mondo del lavoro...»
Si soffermò per qualche istante come per rivedere mentalmente un'immagine che evidentemente le era ancora cara, poi, riprese: «Era il classico bel ragazzo, della mia stessa età, allegro e spensierato, prossimo anch'egli alla laurea. Stavamo bene insieme e ci si intendeva sotto molti punti di vista. Poi, inaspettatamente, rimasi incinta ed ebbi un aborto alquanto travagliato, le cui conseguenze mi sconvolsero. Il mio "lui" sparì nel nulla, convinto dai suoi genitori che forse era meglio lasciarmi perdere, non potendo pensare seriamente di mettere su famiglia, senza avere ancora un'occupazione e con una donna ... che non poteva più essere madre. E così rimasi sola. Mi gettai allora a corpo morto nel lavoro, cercando di realizzarmi almeno sotto il profilo professionale. Forse, da questo punto di vista, qualcosa sono riuscita a raggiungere, anche se non è certamente la direzione dell'ufficio Ricerche e Studi dell'E.R.B.A. la massima aspirazione cui una potrebbe puntare. Ho vari amici, alcuni anche simpatici, ma niente di serio. Quando cammino per la strada non posso evitare i commenti che lei può facilmente immaginare e non sono pochi coloro che, come ho detto, anche nell'ambiente di lavoro mi rivolgono proposte più o meno velate. Tutto qui. Poi, alla sera, quando torno a casa stressata da una giornata trascorsa in laboratorio, magari anche afflitta da immeritati rimproveri del "capo", non mi resta che cucinarmi qualcosa, guardare un poco di televisione, leggere qualche pagina di un libro e poi addormentarmi subito, nel generale disordine di un anonimo appartamento in affitto. E cerco di non guardarmi troppo in giro, perché non vedrei altro se non l'immenso disordine che regna nel mio mini-appartamento. Devo potermi alzare presto la mattina successiva per mettere un minimo di ordine nelle mie cose più importanti, dedicare qualche minuto al trucco e recarmi nuovamente in ufficio con l'aspetto della persona serena, sicura di sé, senza problemi. E questo é tutto. Mi dica lei come potrà essere la mia vita quando avrò cinquanta o sessant'anni».
Sinceramente non sapevo che dire e in quel momento non riuscii ad esprimere nulla che potesse rasserenarla. Era come se avesse gettato in un angolo il suo telefono cellulare, i suoi abiti firmati, il suo profumo di marca e il suo atteggiamento di donna "arrivata", per mostrarsi nuda davanti a me, con tutte le sue ansie e le sue paure.
Giungemmo finalmente a Trento, parlando del più e del meno e cercando entrambi di non ritornare più su argomenti di tipo personale La visita alla Fondazione Lodovico Lambertini fu abbastanza breve e al termine rimaneva ancora qualche ora libera prima della sera. Ci incamminammo lungo le vie centrali, soffermandoci ad osservare, con tutta calma, i palazzi rinascimentali di via Belenzani, il complesso romanico-gotico del Duomo, la cinta muraria e il castello del Buonconsiglio. Gabriella si mostrava interessata a tutto ciò che apparteneva alla cultura di quell'antica città adagiata sull'Adige e si premurò di acquistare un volume che ne descriveva gli aspetti storici ed artistici. Passando davanti al "Del Vescovo", un accattivante ristorante aperto in un antico palazzo, si fermò incuriosita, osservando il bel portale decorato con fregi architettonici medioevali. Colsi la palla al balzo:
«Cosa ne direbbe di fermarci a mangiare qualcosa in questo posto? Mi sembra meritevole e mi incuriosisce vedere anche l'interno. Inoltre, credo che sia giunta l'ora di prenderci una pausa ... abbiamo camminato parecchio; non trova?».
La scelta, in realtà non fu per nulla infelice. La cucina era squisita e fra una portata e l'altra Gabriella mi chiese qualcosa di me, della mia famiglia e delle mie esperienze di lavoro e di vita. Mostrava interesse per tutto ciò che le dicevo, insistendo perché le raccontassi alcuni particolari dei Paesi tropicali che avevo visitato e delle genti che vi avevo conosciuto. Dai suoi occhi trapelava una viva curiosità, che sembrava trasportarla con l'immaginazione negli stessi luoghi in cui ero stato e che le stavo descrivendo. Mi interrompeva spesso, chiedendo mille particolari e cercando di immedesimarsi nelle situazioni che io avevo vissuto. Non sembrava più la fredda e compita "carrierista" che avevo conosciuto quel giorno nell'ufficio del Presidente Tagliarami, ma una persona che avrebbe forse desiderato vivere esperienze diverse, in altri mondi, con altre persone.
Quando uscimmo dal ristorante, un'aria fredda scendeva dai monti sovrastanti, accentuando il fresco della sera. Continuando a chiacchierare del più e del meno ci incamminammo verso l'Hotel delle Alpi. Erano state riservate, per lei, una camera al primo piano e, per me, una al terzo, in quel piccolo albergo in stile asburgico, silenzioso e ricco di
boiserie, di tappeti e di mobili antichi. Salimmo assieme le scale e quando giungemmo al pianerottolo del primo piano ci fermammo. «La ringrazio per la bella serata», e con un certo imbarazzo, aggiunsi: «spero di non averla annoiata con le mie domande e con le mie storie». Lei sorrise discretamente, scuotendo leggermente il capo in segno di diniego, allungò la mano per un saluto e quindi scappò via, quasi correndo, infilandosi nella sua camera.
Restai per qualche tempo immobile, ancora avvolto in una sensazione di sconcerto. Mi ritirai anch'io nella mia camera ma non riuscii ad addormentarmi subito. Con una certa stizza pensai a chi, come ad esempio il solito Ciocchini, avrebbe anche potuto commentare:
«Sei stato uno stupido, dovevi approfittarne. Una scopata così con una gnocca come la Gabriella Conti non te la dovevi lasciare scappare. Te set propri un bel pirlott. Un'occasione lasciata è persa. Certo, tu in certe cose non ci sai fare per niente e, poi, forse non hai più nemmeno il fisico. Fosse capitato a me, le avrei fatto vedere ...». E con le immagini alternate di Gabriella con lo sguardo pieno di tristezza, nonché con quella di Ciocchini che mi beffeggiava nel suo colorito linguaggio bresciano, finalmente presi sonno - o credetti di farlo - rivoltandomi comunque a lungo nel letto fino al momento in cui mi richiamò alla realtà lo squillo del telefono che mi annunciava l'ora del risveglio.
Il viaggio di ritorno in sede fu quanto di più apparentemente formale e banale si potesse immaginare. Mi parlò a lungo di una ricerca che aveva condotto in campo biotecnologico, proseguendo gli studi di genetica molecolare e predisponendo quindi una relazione che aveva sottoposto al dottor Maci per l'eventuale divulgazione; ma, per quanto lei ne sapesse, il suo lavoro di ricerca non aveva avuto ulteriori sviluppi.
Quando giungemmo in prossimità della nostra destinazione, disse:
«La ringrazio molto per quello che ha fatto per me. Credo di avere trovato in lei, se me lo permette, un amico a cui ci si può rivolgere in caso di bisogno. Mi farebbe piacere che questo nostro rapporto non si interrompesse. Ma ... non scompaia nel nulla e se non la chiamassi io, qualche volta mi chiami lei. Potremo continuare, se lo vorrà, le nostre chiacchierate. Però non mi contatti sul telefonino, perché...», aggiunse con un sorriso, «ho capito che non le piace. Mi chiami invece in ufficio quando vuole, ... può fare il "diretto": l'interno 725».

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