La vendemmia del 1950
Racconto di Gian Cesare Marchesi

(I nomi delle persone che compaiono nel testo sono di pura fantasia)

Pietro Vercesi l'aveva annunciato la sera prima, di fronte alla moglie Adele, ai figli Mauro e Carlotta, e a una fumante zuppa di ceci condita con le cotenne di maiale: "Dumàn càtúma la Martina" ("Domani cogliamo l'uva della Martina").
"Martina" era il nome di uno dei sette piccoli appezzamenti di terreno coltivati a vigneto - in totale non superavano la trentina di pertiche pavesi - che quella famiglia possedeva, disseminati qua e là sulle colline di Canneto Pavese.
Da qualche giorno aveva avuto inizio la vendemmia e dalle viti amorevolmente curate pendevano succosi grappoli di croatina, di barbera e di uva rara, pronti per essere raccolti e trasformati nei rinomati vini della zona: il Barbacarlo, il Sangue di Giuda, il Buttafuoco e la Bonarda.
A quel tempo i filari delle viti (“spàlér”) erano ancora posti orizzontalmente rispetto alla conformazione delle colline e questo favoriva la raccolta delle uve, in quanto i vendemmiatori lavoravano pressoché in piano, senza essere costretti a salire e scendere continuamente lungo il pendio.

Quell'anno il raccolto si preannunciava buono, sia come qualità che come quantità: le piogge erano state equilibrate, il sole aveva fatto ben maturare i grappoli e le regolari irrorazioni di solfato di rame e di zolfo avevano tenuto lontani parassiti e malattie varie. Anche il contenuto zuccherino delle uve era del tutto soddisfacente e per quell'annata si poteva prevedere la produzione di un ottimo vino. I viticoltori erano dunque soddisfatti dei risultati ottenuti e dell'andamento della raccolta, anche se ogni mattina, appena alzati, non mancavano di levare gli occhi al cielo per scrutare l'eventuale presenza di qualche lontana nube foriera di pioggia. Tenevano d'occhio anche la pressione barometrica, per capire se un suo eventuale abbassamento non facesse risalire dalla pianura le prime nebbie autunnali. La pioggia e le nebbie non soltanto avrebbero procurato qualche difficoltà nella raccolta delle uve, ma se protratte a lungo avrebbero potuto guastare l'integrità dei grappoli, coprendoli di muffe.

L'indomani di buon'ora, Pietro si lavò sommariamente nel catino di lamiera smaltata, bianco dai bordi blu, che stava su un trespolo di ferro nella camera da letto; si rasò e sistemò alla bell'e meglio i suoi lunghi baffi bianchi; sopra la camicia di flanella a quadri indossò il solito abito blu di lavoro, si mise sul capo l'immancabile berretto con la visiera e si incamminò lungo la strada sterrata che dalla frazione in cui abitava conduceva, dopo tre chilometri, al centro del paese.
Durante l'intera giornata le strade collinari erano percorse da carretti a due ruote, trainati per lo più da infaticabili muli, carichi di ceste vuote, o piene d'uva, che si dirigevano a seconda dei casi verso il vigneto dove era in corso la vendemmia o verso la cantina dove avrebbe avuto inizio la pigiatura.

Accanto all'edificio comunale si erano pazientemente radunate sin dal primo mattino una trentina di persone che si offrivano quali braccianti "a giornata" per le incombenze della vendemmia. Si trattava di donne e di uomini che venivano da località della sottostante pianura e che arrotondavano i loro abituali e sempre modesti guadagni lavorando per qualche tempo nella "monda" del riso, nella raccolta dei pomodori o, appunto, nelle attività della vendemmia.
Sembravano quasi tutti eguali fra loro: le donne avevano il capo avvolto in una specie di foulard di tessuto scuro, annodato sulla nuca, e indossavano delle comode gonne, solitamente a fiori, completate da un largo grembiule. Ai piedi portavano degli stivali neri di gomma, alti sino a metà polpaccio, dai quali fuoriuscivano lembi di pesanti calze di cotone. Quanto ad abbigliamento gli uomini non erano da meno delle loro compagne: un paio di pantaloni e una camicia di cotone dai colori ormai indefinibili, una giacca sformata e un cappello in testa. D'altro canto, il lavoro che li attendeva non favoriva certamente l'eleganza degli abiti.
Donne e uomini avevano sempre con sé gli strumenti necessari per il loro lavoro: gli uomini si portavano appresso il loro "basi" (si trattava di un robusto pezzo di legno duro, a sezione più o meno circolare, del diametro di cinque-sei centimetri, lungo all'incirca un metro e mezzo, leggermente curvato e appiattito nel centro per favorire l'appoggio sulla spalla e dotato di un incavo in prossimità di ciascuna estremità per consentire il sostegno delle ceste d'uva da trasportare).
Nelle tasche degli uomini c'era l'immancabile piccola roncola a serramanico, mentre in quelle dei grembiuli delle donne non mancava mai un paio di vecchie forbici. Qualcuno di loro aveva con sé anche una fiaschetta di vetro impagliata, utile per una piccola riserva di vino o di acqua. E non mancava mai la presenza, "Non si sa mai: se viene a piovere forte", di un vecchio ombrello.

Pietro Vercesi fece rapidamente la scelta delle forze-lavoro che gli servivano per quella particolare giornata: si trattava di tre donne e di due uomini, che avrebbero rinforzato la squadra delle persone di casa. Concordò con loro la paga da corrispondere - il pasto del mezzogiorno era sempre fornito dal datore di lavoro - e quindi riprese la strada verso casa, seguito a pochi passi di distanza dal gruppetto dei suoi nuovi aiutanti.
Nel frattempo sua moglie Adele si era recata nella più vicina bottega per rifornirsi di un quantitativo sufficiente di pane fresco (la famosa "mica" dell'Oltrepò Pavese), di gorgonzola ("strachéin"), di buon gruviera italiano ("formàgg bianc"), di aringhe affumicate ("saràcc"), di salumi affettati vari e di quant'altro necessario per servire il pasto ai lavoranti. Aggiunse alla lista anche una mezza dozzina di sigari "toscani" per il marito. Il conto della spesa venne come al solito registrato dalla bottegaia su una coppia di pressoché identici quadernetti - uno per il negoziante e uno per il cliente - che sarebbero stati azzerati a vendemmia conclusa con parte del ricavato della vendita dell'uva o delle partite di vino.

Pietro non aveva usato il suo carretto per andare in paese a reclutare la manovalanza, e si era fatto tutta quella strada a piedi in quanto i figli Mauro e Carlotta. erano a loro volta impegnati per l'inizio della vendemmia. Su quel carro stavano infatti caricando le ceste ("scorb") che sarebbero servite per la raccolta delle uve. Si trattava di ampi manufatti rettangolari di vimini, capaci di contenere dai quaranta ai settanta chili d'uva ciascuno e che prima di essere sistemati sul carro venivano incastrati a tre a tre per risparmiare spazio nel trasporto. A questi si dovevano poi aggiungere altre ceste più piccole ("càvagn"), di forma rotonda e dotate di un manico sempre in vimini, che servivano per la prima raccolta dell'uva all'interno dei filari. Le ceste e i cavagni mostravano all'esterno le iniziali del proprietario, sommariamente dipinte a grandi lettere con la vernice nera o rossa. L'apposizione di questi contrassegni era necessaria perché spesso i contadini si aiutavano fra loro e le ceste e i cavagni dell'uno venivano inevitabilmente a mescolarsi con quelli dell'altro. Al temine della vendemmia e una volta rientrati presso i legittimi proprietari, le ceste e i cavagni erano accuratamente lavati con acqua e messi ad asciugare al sole, per essere infine riposti nella legnaia, a disposizione per le necessità della successiva vendemmia.

Poco prima delle otto del mattino tutto era dunque pronto per l'inizio della vendemmia. Pietro, i suoi figli, i lavoranti giornalieri e il mulo con il carretto carico di ceste si avviarono verso la "Martina", mentre Adele rimase a casa qualche tempo ancora per preparare i cibi per il pasto del mezzogiorno.

In quegli anni la vendemmia aveva ancora un fascino del tutto particolare. Se non intervenivano a disturbarla piogge persistenti o altri eventi atmosferici dannosi, le giornate della raccolta si trasformavano in una sorta di rito quasi folcroristico. Mentre lavoravano, i vendemmiatori si sbizzarrivano nel prendersi in giro l'un l'altro con lazzi anche piuttosto pesanti nei confronti dei compagni, soprattutto dei più giovani. “E sì, ti ho ben visto, Luigino, quando ti sei accucciato tre filari più sotto per vedere meglio le gambe e le chiappe della Teresa. Ma non ti fare illusioni, perché tanto lei la dà soltanto al suo Antonio”.
Il tutto, sistematicamente e immediatamente ricambiato. S'intrecciavano canti popolari o le note dell'ultima canzoncina di successo, che risuonavano sino all'opposto versante della collina, dove magari altri vendemmiatori rispondevano con altri canti e con altri lazzi.
In questo allegro schiamazzare risuonava spesso la voce del "padrone", che salendo o scendendo lungo l'impervio sentiero della vigna, con il "basi" che né Pietro, né tanto meno suo figlio Mauro disdegnavano di usare, si fermava all'inizio dei filari, ripetendo bonariamente: "Donne, fate lavorare anche le mani e non soltanto la lingua. Non cogliete i grappoli ancora rossi, che tanto passeremo noi più tardi a raccattarli. Non lasciate cadere le foglie nei cavagni e se vedete che qualche grappolo ha la punta secca, tagliatela via".
Le donne e le persone più anziane si sistemavano lungo i filari, con i cavagni ai piedi, e coglievano l'uva per poi deporla nei cavagni stessi, mentre gli uomini più aitanti provvedevano a raccogliere le ceste piene, a sistemarle sul "basi" e a svuotarle in quelle più capienti che stavano lassù in alto, su una piazzola in prossimità della strada.
Ma anche i portatori dei "basi" avevano da dire la loro: "Donne, riempite bene i cavagni sino al massimo, perché noi preferiamo fare meno salite sin lassù in cima, anche se carichi, che non fare più viaggi con i cavagni mezzo vuoti".

Erano quasi le dieci del mattino quando davanti alla casa di Pietro Vercesi giunse la Topolino di suo fratello minore Angelo, quello che aveva scelto da tempo di non fare il contadino e di lavorare in banca a Milano. Angelo, con la moglie Elena e i figli Matteo e Giuliana, erano venuti “per dare una mano agli zii" durante la vendemmia, "Però, purtroppo dovremo rientrare stasera, in quanto, sapete... il lavoro ci chiama a Milano". La giovane Giuliana era tutta eccitata all'idea di partecipare alla vendemmia e chiese subito alla zia Adele se per caso non avesse avuto un paio di forbici e uno di guanti da prestarle, "Sai, zia, per non rovinarmi le mani".
Adele aveva nel frattempo preparato il necessario per il pasto del mezzogiorno, infilando ciascun ingrediente: formaggio salume o altro che fosse, entro due belle fette di "mica". Il tutto, raccolto in capaci teli di cotone e sistemato in un paio di cavagni, era pronto per essere portato nella vigna. Con il prezioso aiuto dei parenti giunti da Milano, ai quali furono affidate anche alcune fiaschette piene di vino, il gruppetto finalmente si mosse verso la "Martina".

Ai primi rintocchi della campana del mezzogiorno, provenienti da una chiesa vicina, venne tacitamente decretata la sospensione del lavoro per la pausa pranzo. Uomini e donne abbandonarono lungo i filari o il sentiero i cavagni e i "basi" e risalirono la collina per raggiungere il piccolo pianoro dove erano state poste le ceste dell'uva. Lungo il sentiero non era infrequente trovare a quel tempo dei grossi contenitori cilindrici in cemento (“tûbi”), che servivano per raccogliere l'acqua piovana. Quei serbatoi diventavano particolarmente utili per un seppur sommario lavaggio delle mani dei vendemmiatori che stavano per consumare il loro pasto.
Raggiunto il luogo del ristoro, ciascuno si sistemò al meglio per il pranzo: chi sedendosi su una cesta vuota rovesciata e chi accontentandosi della nuda terra. A quel punto Adele diede inizio alla distribuzione dei robusti sandwich che aveva preparato a casa. C'era chi preferiva iniziare a base di salumi e chi di formaggi, accompagnando il tutto con generose sorsate di vino e con il solito commento di battute spiritose. Il figlio di Pietro e un altro uomo "a giornata" tagliarono con le roncole alcuni rametti di biancospino, li scortecciarono e ne appuntirono le estremità, facendo delle specie di spiedi su cui infilarono le aringhe affumicate per riscaldarle sopra un piccolo fuoco di sterpi creato al momento. Le aringhe lasciavano cadere a terra l'eccesso di olio che contenevano, mentre un caratteristico e pungente odore di grasso bruciato si sprigionava nell'aria. Al termine della cottura e con l'ausilio delle solite roncole, le aringhe venivano private della testa, della lisca e delle pinne e i filetti venivano posti fra due fette di "mica" per essere consumate dai commensali. "Non crederete mica che io mangi quella roba puzzolente", disse a quel punto il ragazzino appena giunto da Milano. Sua sorella gli si unì subito confermando il suo disgusto per quel cibo per lei del tutto inusuale. Ovviamente i commenti "cittadini" dei due giovani suscitarono nei presenti un'ennesima serie di battutine ironiche.

Terminato il pasto, ciascuno riprese il proprio lavoro e verso le cinque del pomeriggio le uve della "Martina" erano state tutte raccolte e deposte in una sessantina di ceste nel pianoro a monte. A quel punto Pietro chiamò attorno a sé i lavoranti giornalieri, pagò il compenso pattuito e chiese loro se sarebbero stati disposti a tornare il giorno successivo perché, disse, "Anduma a catà al Carnuvà" (Coglieremo l'uva del “Carnevale”). I cinque lavoranti si dichiararono disponibili anche per il lavoro del giorno dopo e si presero l'impegno di trovarsi alle otto del mattino davanti alla casa di Pietro. Dopo di che se ne andarono lasciando nella vigna la sola famiglia Vercesi.

La cantina di Pietro non era in grado di contenere tutto il vino ottenibile dalle uve dei sette poderi di proprietà e quindi era necessario vendere una parte dell'uva a qualche commerciante all'ingrosso. Nei giorni precedenti l'inizio della vendemmia Pietro si era recato varie volte al mercato di Stradella, dove si riunivano i grossisti di uve e di vini e aveva concordato con un tale Vittorio Fiamberti la vendita del raccolto di tre vigne, “Martina” compresa. Il prezzo era quello stabilito da una sorta di "borsa" che veniva a formarsi giornalmente nello stesso mercato.

Era quasi giunto l'imbrunire quando in prossimità della vigna comparve un vecchio camion Dodge, probabile residuato della seconda guerra mondiale, guidato dal Fiamberti. A bordo c'era anche un suo aiutante e sul cassone era stata sistemata una capiente bigoncia. Si trattava, a questo punto, di pesare l'uva venduta, di travasarla dalle ceste alla bigoncia, di sistemare i conti fra venditore e compratore, e di concludere così la giornata lavorativa.
L'aiutante di Fiamberti prese dal camion una pesante bilancia "a stadera", dotata di un anello per il sollevamento e di due robusti ganci per l'imbracatura delle ceste. Attraverso l'anello venne fatto passare un "basi" sorretto, da una parte, dal figlio di Pietro e, dall'altra, dallo stesso aiutante di Fiamberti. Ciascuna cesta colma d'uva veniva quindi agganciata alla stadera e sollevata dai due uomini, in modo da poterne leggere il peso sull'apposita asta graduata. Pietro, sotto l'occhio sempre vigile del Fiamberti, rilevava il peso di ciascuna cesta e lo comunicava alla figlia Carlotta, che seduta su un'altra cesta e armata di un taccuino e di una matita copiativa (di tanto in tanto ne umettava la punta con la lingua) segnava i risultati delle singole pesature.
Una volta pesate, le ceste vennero svuotate nella bigoncia e si procedette alla determinazione della tara. Le ceste vuote vennero di nuovo incastrate a tre a tre fra loro e poste sulla stadera per determinarne il peso. Dalla somma dei pesi lordi e detratta la tara, si stabilì esattamente il quantitativo dell'uva venduta. Fatto un rapido calcolo, Fiamberti estrasse da una tasca dei pantaloni un vistoso fascio di banconote, contò quelle da dare a Pietro Vercesi secondo le intese già concordate, salutò tutti quanti, risalì sul vecchio Dodge con il suo aiutante e lasciando dietro di sé una nuvola di fumo, si allontanò dalla scena.
A questo punto non rimaneva per la famiglia Vercesi che tornarsene a casa a bordo del carretto che, con il fedele e paziente mulo, era stato parcheggiato all’ombra di un grande mandorlo. Tutti ugualmente stanchi ma soddisfatti del lavoro svolto, rimandarono alla mattina successiva la raccolta delle ceste ormai vuote e che sarebbero servite per la vendemmia del "Carnevale".

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Il "progresso" giunto sul finire degli anni '50 portò radicali cambiamenti anche da quelle parti. Arrivarono i primi motocoltivatori e le prime macchine per la pigiatura, le vecchie ceste in vimini vennero presto sostituite dai ben più pratici ed economici contenitori di plastica, comparvero anche durante le vendemmie i primi blue jeans e le radioline a transistor, portando ovunque un'ondata di modernità. Qualcosa delle antiche tradizioni è rimasto soprattutto nell'animo delle persone più anziane, ma lo spirito dell'antico "modo di fare la vendemmia" appartiene sempre più alla sfera dei ricordi un poco romantici del "tempo che fu".

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