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I racconti di Vittorio Goffredo
Il mio viaggio più
O meglio, le impressioni che ho ricavato dal mio lunghissimo soggiorno a Parigi negli anni '60. Le ho raccontate tempo fa ad un amico di Roma innamorato della Francia, o piuttosto della cultura francese e di Parigi, che non ha mai visto e mi ha chiesto di raccontargliela. Si rammaricava di non esserci mai stato, ma si consolava dicendo di fregarsene; poi però pensava di fare come la volpe che non arrivando all'uva la trova acerba. Gliel'ho raccontata Parigi come l'ho vista e capita io. Non metterò il suo nome e ve la racconto come se ognuno di voi fosse quell'amico.

PARIGI

Caro amico mio, la volpe e l'uva non rientrano in questo caso.

Quando vi giunsi nel maggio del 1960, avevo 27 anni; mi stava stretta la mia città e partii per seguire un amore ed in cerca di miglior vita e fortuna, anche se non avevo nessun bisogno di emigrare, ma avevo sempre sognato di Parigi.

Il primo impatto fu disastroso e stavo risalendo sul treno per tornare a casa; cielo plumbeo, facciate annerite dallo smog (tre anni dopo Malraux faceva "ravaler les façades" ed è venuta fuori la vera Parigi), caotica, rumorosa, indifferente alla mia presenza e non si trovavano i franchi per terra.

Ma chi me l'aveva fatto fare?

Poi prevalse l'orgoglio ed il non voler ritornare a Cosenza sconfitto, ancor prima d'aver iniziato a combattere.

Una cosa è fare il turista ed un'altra è affrontare il "trapianto".

La Parigi turistica puoi vederla in cartolina e, quando ci sei stato con un viaggio organizzato, la visita ai luoghi raccomandati ti lascia solo un ricordo di luci, di spettacoli, monumenti, ristoranti e ti stanchi; poi al ritorno ne racconti meraviglie ma... resti come prima. Hai una falsa idea di Parigi e non ti sei neppure avvicinato allo spirito della città.Ti mancano i rumori, i sapori, gli odori, le buone e le cattive cose.

Mi credi se ti dico che in sette anni non sono mai stato al Lido né sull'Arco di Trionfo? Ho sempre rimandato ad una occasione migliore e rimandando sono passati gli anni senza vedere quei luoghi che per il più fesso dei turisti è d'obbligo vedere per primi.

Durante il mio soggiorno sono salito solo una volta fino al secondo piano della Tour Eiffel, al ristorante per una cena d'affari con la ditta; pagava la ditta. All'ultimo piano ci sono arrivato quando ci sono ritornato da turista, con una ragazza che poi ho portato a cena alla Tour d'Argent; stavolta pagavo io e mi sono svenato, ma la ragazza valeva il salasso.

Città per cui tutti gli aggettivi vanno bene. Dove se sei solo lo sei davvero anche in mezzo alla gente, dove se sei qualcuno sei sempre nessuno e se sei nessuno ti senti qualcuno, per il solo fatto di esserci.

Forse è più vera questa seconda "verità"; è ovvio che se sei qualcuno ed hai soldi ci vivi meglio ma non è detto che capisci di più.

Comunque bisogna viverci a lungo per capire e ci vorrebbe un vero scrittore o un poeta per spiegare come, quanto e perché Parigi ti modifichi, cambi il tuo modo di pensare e ti faccia vedere la vita da altre angolazioni.

Ci sono cose che apprezzi, come le belle e disponibili donne divorziate o stanche dei mariti, giovanissime che sono andate a vivere da sole per emanciparsi dalla famiglia, che poi se ne pentono e cercano compagnia per vincere la solitudine, donne che per noia vogliono e trovano l'incontro di una sera e non ti rompono con pretese assurde d'eterno amore (merci et aurevoir à la prochaine fois ... peut être); il Louvre e quello che c'è dentro, i pittori di Place du Tertre, les petits bistrots avec leur plat du jour, i chioschi di pommes frites e les wurstels avec la moutarde, la métropolitaine, una delle più belle e funzionali al mondo, che con un ticket ti permette di attraversare la città e noti come cambia la qualità dei passeggeri a seconda dei quartieri che attraversi, come cambia la musicalità della lingua se parlata da un francese colto o se ascolti l'argot di un operaio, la soupe aux oignons aux Halles après le spectacle théâtral, à minuit, ecc. ecc.

Così ci sono cose che ripugnano e a volte atterriscono, come un uomo che cade a terra, preda di una crisi epilettica e la gente frettolosa lo scansa per non essere coinvolta; e non dirmi che questa indifferenza c'è in tutte la grandi città; proprio a Roma in un caso analogo, prima di fare in tempo a scendere dalla vettura per dare soccorso, già quattro persone si erano fermate ad aiutarlo. O ancora, in piena Pigalle, sfavillante di luci, un negro ubriaco tranquillamente fa pipì tra due vetture in stazionamento ignorando i numerosi passanti o, a Montmartre, una vecchia che si alza le gonne per lo stesso motivo; il ritrovamento nella Senna del cadavere gonfio di un uomo legato con un peso ai piedi, un delitto di malavita o milieu, una puttana picchiata dal suo magnaccia, con arte perché non bisogna rovinarle gli attrezzi del mestiere, e ben altro ancora.

Ma anche queste cose fanno parte della città e completano la tua educazione, le tue esperienze e quando rientri al tuo paese sei un uomo diverso; migliore o peggiore non lo so, ma di sicuro diverso e guardi gli altri con occhi più consapevoli.

Tutto ciò per dirti perché bisogna viverci un periodo di vita molto lungo per capire Parigi e la sua filosofia; una delle migliori definizioni di Parigi e non so più di chi sia è: Paris n'est pas une ville, c'est une façon de vivre.

Quindi se tu intendevi vivere a Parigi a lungo o per sempre forse ti sei perso qualcosa, ma se era per una escursione turistica hai fatto bene a non andarci; ti avrebbe deluso mentre le tua immaginazione conserva intatte le tue belle fantasie; perciò niente volpe e uva.

Si, ho vissuto a Montmartre in Rue des Abbesses, a trecento metri dalla Place du Tertre e a 200 dal Moulin Rouge; poi sono andato a vivere in Rue Royale, in fondo a sinistra dell'Avenue de l'Opera, près de la Comédie Française, des jardins des Tuileries, de la Rue de Rivoli et du Louvre.

Non conoscevo una parola di Francese ed ho fatto tre o quattro mestieri diversi: scaricatore di cassette di frutta alle Halles, sempre nelle Halles trasportavo a spalla le cassette di fiori che il grossista vendeva al fiorista che mi dava le pourboire ("merci monsieur"), saldatore elettrico, all'arco voltaico, per fare le griglie che servono da ripiani nei frigoriferi, garzone di bottega presso la charcuterie de monsieur Raggi di Casalpusterlengo che, da buon italiano, mi dava 10.000 vecchi franchi, anziché i 15.000 come per legge, alla settimana più il pranzo quotidiano e non mi versava i contributi; prima di mettermi a fare il rappresentante otto mesi dopo.

Per imparare rapidamente la lingua ho accuratamente evitato di incontrarmi con Italiani, ho accettato, senza rimpianti per quella italiana, la cucina francese e mi sono messo a pensare in Francese, ho accettato ciò che la Francia mi offriva, apprezzandolo senza mettermi a fare paragoni con l'Italia, che spesso ne usciva con le ossa rotte, e comunque la Francia non mi aveva chiamato, c'ero andato di mia iniziativa. Avevo cominciato a leggere Le ventre de Paris di Emile Zola per poi ripiegare su Paperino, ed otto mesi dopo non ero un accademico ma capivo e mi facevo capire facilmente, anche se con molti errori che. unitamente al mio accento esotico, divertivano il mio futuro cliente e mi facilitavano la vendita.

Fumavo "nazionali super" ed ho avuto qualche difficoltà iniziale ad abituarmi alle Gauloises ma dopo, la prima settimana di allenamento intensivo, ho continuato per 40 anni imperterrito e con molto gusto a fumare tabacco nero; ancora oggi mi faccio il mio pacchetto di Gitanes col filtro.

E' stata sempre la bella vita? Ci sono stati giorni di vacche grasse e giorni di vera boheme, quando dovevo restituire 4 bottiglie vuote per mezza baguette di pane; solo che la boheme è romantica a 18 anni, ma a 27 lo è molto meno.

Mi hai fatto morire dal ridere con la descrizione di te stesso tutto vestito di scuro e con la Gauloise all'angolo della bocca, per fare l'intellettuale di sinistra del cazzo; sono senz'altro ricordi migliori di qualcuno dei miei; e poi perché intellettuale del cazzo? eri pur sempre uno studente di lettere e filosofia e si sente che la tua cultura è superiore alla mia, più specifica ed approfondita; io sono solo un maestro elementare che non ha mai insegnato, proveniente da una deludente frequenza del liceo classico; quello che mi salva sono le numerose letture, sia pur caotiche, che ho fatto e le esperienze da cui ho cercato di trarre insegnamento.

Per ritornare a Parigi, conservo bei ricordi anche degli spettacoli all'Olympia dove ho avuto la fortuna di ascoltare Edith Piaf, Jacques Brel, Charles Aznavour, Alain Barriere, Gilbert Bécaud, la portoghese Amalia Rodriguez la regina del Fado e, tra questi, quel vero poeta che era Georges Brassens, che in Italia 30 anni fa non ha avuto il successo che avrebbe meritato. Eravamo all'epoca di Finché la barca va e La casetta in Canadà, ed il povero Georges sudava copiosamente, forse per l'emozione, in TV.

Negli anni successivi venne ripreso e riproposto in italiano da quell'altro grande che fu Fabrizio de Andrè che fece conoscere canzoni come Il gorilla, Nell'acqua della chiara fontana e tante altre; anche Nanni Svampa lo tradusse, ma in dialetto milanese, e lo cantò; poi Brassens ritornò 15 anni dopo e fu meglio apprezzato.

Nel frattempo anche l'Italia era cresciuta. Era cresciuta ed io rientrai a Cosenza nel gennaio del '67, giusto in tempo per vivere il '68 del quale nemmeno mi accorsi; il mio '68 lo avevo vissuto qualche anno prima.

Il boom economico, se mai c'è stato veramente, volgeva al termine e ci avviavamo con passo sicuro verso gli anni di piombo del 1970.




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