In Africa e in
Russia l’odissea di Davini missionario di pace |
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Giornale di Brescia 26.1.2003 |
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1962: Papi, capi di Stato, personalità della
cultura e dello spettacolo si innamorarono di un
disco sulla pace, tratto da poesie di bambini. Si intenerì
mezzo mondo davanti a un uomo bresciano, franco e
possente, Tino Davini, predicatore di pace
quasi alla maniera di Giorgio La Pira, l’ex sindaco di Firenze cultore di
allucinate e straordinarie visioni di beatitudini umane. Nel 1962 aveva
inciso un disco della pace, tradotto in 8 lingue, finito sulle scrivanie
delle più alte autorità. Così era stato invitato al premio Balzan, preso sotto braccia dal Papa Giovanni XXIII,
affidato alle cure del cardinale Agagianian, di origine armena. Si era negli anni della distensione,
ora si cercavano pacieri come prima si chiedevano guerrieri. Davini appariva subito ambasciatore di pace: ottimista,
nemico degli spigoli. Ora, lasciamo per un momento qui, il nostro amico bresciano, sulle soglie del Vaticano, in compagnia
dell’affascinante cardinale asiatico, Agagianian.
Lo riprendiamo tra qualche decina di righe, dopo averne ripassato un po’ di esistenza. Tino Davini è morto
nel 1983, una parte rilevante della sua vita l’ha spesa alla ricerca dei
camposanti dove furono sepolti i soldati italiani. Nei
camposanti della Russia disegnati dai cappellani, costruiti dai commilitoni,
visitati e tenuti in fiore dalle contadine e dai contadini russi. I
nostri cappellani, nel momento della sepoltura, collocavano una bottiglietta
sotto l’ascella del cadavere e dentro vi infilavano
un biglietto su cui scrivevano nome, cognome, luogo di origine, appartenenza
militare, i dati necessari per essere riconosciuto e riportato in patria il
giorno in cui la guerra fosse finita. «Italiani brava gente», prima del
titolo di un film, fu il libero convincimento del popolo russo della steppa
nei confronti dei militari italiani. Molti contadini
russi della steppa furono dei cappellani in ombra, tacitamente delegati in
terra straniera, tennero puliti, ordinati e rinfrescati di verde i tumuli dei
camposanti italiani, tracciarono dei segni per distinguerli, riconoscerli,
qualora lo stesso Dio avesse portato un giorno, in quel rettangolo, parenti e
amici. Fecero di più con le fosse comuni, invisibili nella steppa anonima e
all’ombra delle betulle. Appuntarono nella memoria i posti delle colline di uomini sottoterra, tennero pulita la superficie per un
facile avvistamento futuro, ma non troppo pulita per evitare i sospetti delle
guardie comuniste. Eppure, Tino Davini
non era stato, prima di andarci, in Russia. Non era un reduce del fronte
russo. Il suo fronte era stato l’Africa, il deserto invece della steppa, la
prigionia dura degli inglesi. Un giorno, lo girarono come
uno schiavo alla Legione Straniera, allo stesso modo in cui oggi accade di
assistere alla vendita di un sequestrato, da una banda all’altra. Come
mai, dunque, Tino Davini cercava
la sepoltura, una croce, rincorreva l’identità di un soldato
sconosciuto in una terra, sentimentalmente più lontana dell’Africa? Tino Davini era un uomo di pace, come tale
amava uomini e animali. Un giorno si prese una pistolettata da un
soldato della Legione straniera per aver difeso l’incolumità di un cane. Ne
provò tante fino a convincersi, totalmente, che la pace è
il più grande affare dell’anima e del corpo. Una pace che
lieviti sulla pietà dei morti, mica il pacifismo peloso, parziale di chi è
per la pace se per la guerra è il nemico di sempre. Erano
stati i disegni, spiega adesso sua moglie, le carte affidategli da
monsignor Pintonello, cappellano capo del Corpo di
spedizione italiano in Russia, ad avvicinarlo alla ricerca. Siamo tornati di nuovo ai piedi del Vaticano, al premio Balzan, lì avevamo lasciato Tino Davini con il disco della pace a fianco del cardinale Agagianian. Le vicende buone dei buoni camminano su
sentieri semplici, non è un adagio indiano, è il succedersi delle azioni nel
quotidiano. Dal Vaticano, Tino Davini passa in
Russia grazie alla dote delle carte cimiteriali del cappellano, monsignor Pintonello e per un incarico di Agagianian. Il cardinale consegna a Davini
un disco della pace per il leader maximo Nikita Krusciov, neo anti Stalin, uomo
della campagna, il semplice del nuovo corso, capace di battere le scarpe sui
tavoli dell’Onu e di trattare, raffinatamente,
nelle cancellerie del mondo. Agagianian suggerisce
a Davini di chiedere, in cambio del disco di pace,
il ritorno in patria del corpo di un soldato italiano sepolto nei camposanti
disegnati e fatti costruire dai nostri cappellani militari. Detta così, sembra la favola di Pinocchio, il passaggio
nei meandri del potere con un colpo di bacchetta magica. Accertato che la
diplomazia sotterranea si sarà mossa parallelamente
al disco della pace, ricordato che il momento storico era di grandi aperture,
di distensione, come si legge satiricamente in Guareschi,
fatto sta che Krusciov, prima ancora di ricevere
l’invito di Davini, lo anticipa, invitandolo a
Mosca. L’affare della pace si conclude con la
concessione di una salma. Tino Davini parte, in
tasca si porta cento dischi della pace, le parole di Agagianian, le carte dei camposanti di monsignor Pintonello, due corone di alloro da deporre sulla terra
di Nikolajewka. A Tino Davini
gli pare di stare dentro le pareti appiccicose di un sogno bello, in un cavo
senza gravità, cammina e invece vola. Viene invitato
al Cremlino, lo attende il potente uomo di Krusciov, Kotov, il potente
segretario per la Pace dell’Unione Sovietica. Inizia la trattativa lunga ed
estenuante per il ritorno delle salme. Intanto gli viene
concesso di portare in Italia una valigia riempita della terra di Nikolajewka. Una volta a Brescia, proprio nella sede del
nostro giornale, avviene una cerimonia toccante: padre Marcolini
benedice quella terra di dolore, intrisa anche della memoria di migliaia di persone. Si riempiono molti sacchetti, vengono distribuiti nei sacrari disseminati nel nostro
Paese. Grazie a Tino Davini, centinaia di famiglie
rimettono ordine al loro dolore, non lo dirigono confusamente in un punto
dell’infinito, in un bosco, su un fiume, nell’avallamento di una Russia
descritta e realmente illimitata, ma conoscono il punto della congiunzione
tra un corpo, uno spirito e una preghiera. Pregare nel posto in cui sei nato,
sulla tomba di una persona cara, che è nata lì, come te e con te che la
preghi, sapendo che la direzione del colloquio è quella giusta, è un
conforto, l’attenuazione di una mortale disperazione, la resistenza
all’assenza del figlio. Un dolore ordinato è un dolore meno
oneroso, abbassa la barriera della sua invincibilità. È un dolore
almeno diretto, legato a un posto dove potrai
rivolgere al figlio soldato, con certezza, la speranza immensa di
ricominciare a parlarsi nell’intimità, con la memoria, il dialogo con
l’immagine sopra il corpo, la dolcezza di un viso, di uno sguardo ogni giorno
diversi. «Oggi la mamma è arrabbiata... non vedi come ci guarda...». Si sente
dire così, ogni tanto, nei nostri camposanti, passando vicino ai figli che
sistemano i fiori vicino all’immagine. Le casse e le cassette di zinco,
coperte dalla bandiera tricolore, tornavano sui selciati dei paesi in quegli
anni. Chi non ha assistito, anche solo visivamente, al volume di tristezza
alzato da una tremenda idea di assenza, appena
colmata dai passi serrati della comunità intera intorno al padre e alla
madre, non conosce la prima lettera di pietà per il soldato di 20 anni
tornato a casa dopo 20 anni. La loro esistenza intera è stata lunga come la
loro assenza da casa. Dunque, il ritorno è una
remunerazione corale a chi è rimasto solo, una sorta di condivisa
colpevolezza inconscia per quella distanza. Poi è accaduta un’altra bella
pietà. Tino Davini muore nel 1983. Muore, ma alcuni
ritorni rimangono sospesi per aria. Le pratiche, le eterne
pratiche di carta, che uccidono anche dopo la morte, finalmente vengono
pronte per alcuni soldati. Tino Davini non
c’è più, la moglie Adele Turelli
continua la sua testimoninza, almeno per
quei corpi sospesi tra Russia e Italia, Brescia e Karhov.
Le cartine dei camposanti hanno liberato tanti nomi, i timbri sono stati
messi, l’attesa, per la moglie di Angelo Bogarelli da Dello, sembra terminata. L’ultima telefonata
di conferma al generale Ricchezza, a Milano: «Sì, è
proprio Angelo Bogarelli, è
morto, una ferita profonda all’addome. È stato sepolto nel cimitero di
Singin, numero 35...». Il prisma di zinco,
intessuto di bianco rosso e verde atterra in Italia e mentre incomincia
l’ultimo passaggio dall’aereo in macchina, muore la moglie di
Angelo Bogarelli. Il destino si è avvitato
su se stesso in un numero implacabile: Bogarelli torna, sua moglie Barbara Piccioni, 1984, muore dopo
averlo atteso 40 anni. Il paese li accompagna al camposanto. Non ci sono
parole, si alza la potentissima rassegnazione delle persone umili, quando vengono attaccate a tradimento perfino da una morte che
imbroglia nonostante si sia impadronita di ciò che voleva. Allora, le persone
umili si piegano tutte insieme a testuggine, si
piegano il corpo così che il funerale si dispone in un inchino, nella somma
di mille teste reclinate, ma si rispetta la linea di marcia diritta verso il
camposanto. Così che le lacrime perdono il solco del viso fino a raggiungere
un movimento di caduta, una cascata di umidità, come
se piovesse del pianto, il cielo fornisse la sua parte di dolore. Niente
rimane fuori dalla partecipazione di questi lutti. I
funerali raccolgono la stessa unanimità dell’ultimo assalto. S’inizia e si
finisce alla stessa maniera. Tino Davini,
dall’Africa alla Russia, passando per i palazzi inaccessibili e le isbe più
basse, è l’esempio credente che le odissee si possono ripercorrere al
contrario, che la fine per sempre non esiste: si può riprendere il viaggio
con chi era rimasto indietro. E si può volgere lo
sguardo oltre il tumulo. Contro il vuoto angosciante che prende ognuno,
quando, a sera, ci manca il respiro di uno di noi e si esige di rivederlo. Al
costo di iscrivere l’anima a un corso di fede da cui
si era ritirata, attaccata da un nevischio improvviso, circondata nella sacca
dell’indifferenza, rifugiata, intanto, in un’isba fraterna. |
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«Lo prego così», una poesia per un amico alpino Caduto |
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Al camposant tra nèbie
e memòrie, só capitat al dù de nóember èn font a le cinte; én dò gh’era ’na
crùs de lègn sènsa finte, con èn nom d’èn soldàt de ’n altra naziù; desmentegat e sènsa deuziù. Èntat che ardàe le erbe bagnàde e me domandàe: «Quacc agn garàl ’vit, en dó sarala
sò mader?» Me passa de fianch ’na fomna
còi fiùr, dai càei zà bianch
e dù öcc dè dulur. Ardando en ciprès
per mìa daga empas, fó alter dù pas,
ma sübit de pres la ède en zönöcc; e stando lé issé, sente i sò requiem tat compicc, de fam restà lé; fin quando la mé arda, e per forsa che parle. «Sala chi l’éra? La cunussiel?»
«No siòr, mé só de Brèssa; Ogni agn vegne ché;
gó èn fiöl sóta tera, restat
a Nikolajewka, e mé èl préghe issé». Al camposanto tra nebbie e memorie, sono capitato al due di novembre in
fondo alle cinte; dove c’era una croce di legno trascurata con un nome di un
soldato di un’altra nazione, dimenticato e senza devozione. Intanto che
guardavo l’erba bagnata mi domandavo; «Quanti anni
avrà avuto, Dove sarà sua madre?» Mi passa vicino una donna coi fiori, dai capelli ormai bianchi e due occhi di
dolore. Guardando un cipresso per non disturbarla, faccio altri due passi, ma
subito appresso la vedo in ginocchio, e sentendo
recitare le sue preghiere così sentite, di farmi restare lì sorpreso; gin
quando mi guarda e allora le chiedo. «Sa chi era? Lo conosceva? «No signore, io
sono di Brescia; Ogni anno vengo qui, ho un figlio
sotto terra restato a Nikolajewka, ed io lo prego
così». Signor
Direttore, ricorre il 60° Anniversario della famosa battaglia di Nikolajewka, nella nostra città. Le chiedo per cortesia,
se potrebbe mettere sul suo Giornale, da me molto affezionato lettore, la
copia di questa poesia dialettale (veda la copia foglio), spedita con la
presente lettera. Questa poesia era stata scritta da una persona di Brescia (signor Davini)
negli anni Cinquanta. Io l’avevo ascoltata tramite un micro-disco
45 giri e mi aveva colpito nelle parole recitate
dallo stesso autore. Credo che molti lettori del suo Giornale, specialmente
gli Alpini ne saranno contenti. Il titolo della poesia (Él
préghe issé) era a ricordo del sottotenente degli Alpini Sandro Bonicelli,
Medaglia d’argento al valor militare Caduto proprio a Nikolajewka.
Faccio presente che non sono alpino, non ho fatto il servizio militare, ma
sono un simpatizzante Ana di Cortenedolo-Edolo.
Da tanti anni partecipo alle varie Adunate alpine e sono fortunato di avere
un amor patrio e sento il dovere come cristiano, e civile, di ricordare tutti
quei Caduti di 60 anni fa, naturalmente anche varie forze dello Stato, ma gli
Alpini sono Alpini! Sentiamo il bisogno di vera pace e non più di guerra,
come si è espresso il sommo Pontefice nel periodo natalizio ed anche il
presidente della Repubblica che hanno lanciato a tutti i popoli del mondo. Amore e gloria alle Divisioni alpine: Tridentina, Julia, Cuneense, ecc. GIANNI
TIBERTI - Brescia |
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7 dicembre 2003-12-07 |
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