Marroni di San Zeno e castagnàri del Baldo
Angelo Peretti
Marroni di San Zeno e castagnàri del Baldo
La festa delle castagne di San Zeno di Montagna e la tradizione della castanicoltura baldense

Nel nome della fame dei nostri vecchi
Lo confesso: sono un patito della castagna. Meglio: del marrone. Quello dolce, che ti fa compagnia nei giorni dell'autunno, quando l'aria s'è fatta frizzante e il freddo e l'umido delle prime nebbioline cominciano a scavarti nelle ossa. Quello che viene dai castagnàri del Monte Baldo. Il marrone di San Zeno.
Lo si vende alla fiera che si tiene ogni anno a San Zeno di Montagna, in piazza, ai primi di novembre. Vicino ai giorni dei morti. Quasi evocando i tempi in cui la castagna era davvero il "pane dei morti", e la si consumava al ritorno dalle funzioni.
Mi piace accompagnare i marroni con vino novello. Magari col Bardolino migliore, figlio di quella tecnica che gli addetti ai lavori chiamano macerazione carbonica: sa donare tutta la fragranza dell'uva colta quando ancora sul Garda splende l'ultimo sole. Oppure li sposo col Recioto che si fa in Valpolicella: rosso austero, dolce senza esagerare, un po' speziato. Vino che sa d'antico, che narra le storie della sua terra.
Adoro soprattutto le caldarroste. Cotte lentamente, nella barbéra bucata, sopra la fiamma del camino. E amo il minestrone di marroni che si fa a San Zeno. Ché il marrone baldense è perfetto per lavorarlo in cucina, per via di quella sua dolcezza mai stucchevole. E mi ci son messo volentieri qualche anno fa a cercare di rilanciare questo piatto sontuosamente pitocco. Non riuscendo a capacitarmi come dalle parti del Baldo si facessero scrupolo ad offrirlo nei ristoranti. Quasi avessero il timore o il pudore d'esporre i sapori d'una povertà non ancora del tutto dimenticata. Di cui è invece bene essere orgogliosi, oggi che per fortuna il pane e il sovrappiù non mancano neanche sulle montagne.
Le sofferenze della fame dei nostri vecchi possono essere un valore in questi giorni di vacche grasse. Addirittura un elemento di promozione del territorio e dei suoi prodotti. "Oggi la scommessa dei sostenitori della castagna - sottolinea l'antropologa francese Ariane Bruneton-Governatori su "Slow" - è quella di riuscire ad approfittare delle immagini discordanti evocate dal frutto giocando la carta del naturale, addirittura del biologico, da un lato, e quella della gastronomia raffinata dall'altra". Perfettamente d'accordo.
Angelo Peretti
Sommario
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Nel nome della fame dei nostri vecchi
La risàra e la novéna
Castagne o marroni?
La festa delle castagne
Il cibo rituale
El chisöl per i pòri morti
San Martin de le castagne
La Madonna del Castagnàr
I pollini dei primi castagni
Le Villenove e i castagnàri
La fame e la castagna
L'antica castanicoltura di montagna
Sia gloria al minestrone di marroni
Sotto il segno di San Marco
Bòle, bòle! L'elogio del castagnaccio
Lo splendore dell'Ottocento e la crisi del Novecento
La ripresa della castanicoltura
L'associazione castanicoltori del Monte Baldo Veronese
I criteri di valutazione
La compagnia de la castagna
Il marrone di San Zeno in cucina
La marronata del cavalier Vivaldi
Le ricette della tradizione
Bibliografia

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La risàra e la novéna

Sul Baldo i ricci sostano in piccoli mucchi chiamati risàre. Oppure fanno la novéna immersi nell'acqua. Tecniche naturali per eliminare le castagne difettose.

È bello camminare d'autunno sugli antichi sentieri in mezzo ai boschi del Baldo, dalle parti di San Zeno di Montagna, col lago di Garda laggiù, incorniciato da nuvole basse. Il fondo è lastricato da grosse pietre, levigate dal passaggio di uomini e bestie, dall'acqua che corre nei giorni di temporale. Lastre posate da chissà chi, chissà quando. Non è difficile notare i solchi delle barùsole, le slitte trainate dai muli: servivano per trasportare legna, carbone, foglie, fieno. E castagne.
D'un tratto senti il rumore secco di legni battuti violentemente. T'avvicini alla fonte degli schiocchi, ed ecco che noti uomini e donne intenti a percuotere con lunghe pertiche i rami dei castagnàri. Cadono in terra i ricci, piccoli scrigni spinosi che racchiudono dolci tesori: i marroni.
I ricci caduti vengono raccolti e ammucchiati con cura in una parte asciutta del castagneto. Si fa la risàra. Come si usa da secoli in altre zone castanicole, del resto. "E raccolti co' ricci, si riducono in monte, infra una siepe per paura de' porci. E quando saranno così stati rinchiusi per alquanti dì nella ricciaia, s'aprono: e questi cotali son migliori a salvarli freschi" scriveva nel Trecento l'agronomo bolognese Piero de Crescenzi.
Nei piccoli mucchi, i ricci fermentano un poco e, schiudendosi, liberano il loro dolce contenuto. La modesta fermentazione naturale che fa aprire il riccio pare sia un toccasana contro funghi, muffe e larve d'insetti. La sosta all'aperto in risàra dura dagli otto ai quindici giorni. Poi i frutti, eccellenti, sono pronti per il mercato.
Qualcun altro usa invece la tecnica della novéna. Si tratta d'un altro trattamento del tutto naturale: la cura dell'acqua fredda.
Le modalità sono controverse. "Per conservare le castagne fresche per molti mesi - ha scritto Annamaria Messa sull'inserto "Salute" della "Repubblica" -, si immergono in un secchio pieno di acqua fredda man mano che si raccolgono e vi si lasciano per un giorno interno, almeno una ventina di ore. Poi si sgocciolano all'ombra e si dispongono a strati in un recipiente con della sabbia asciutta". E la tecnica del passaggio in acqua è comune un po' a tutte le aree castanicole. "Come alimento collaterale - scrive Ariane Bruneton-Governatori a proposito della Francia - il frutto si consuma fresco, conservandolo per brevi periodi nella sua pelle e sottoponendolo, a volte, a brevi immersioni in acqua". C'è chi sostiene che l'acqua debba essere fatta scorrere per una o due notti: quelli difettosi vengono a galla e sono gettati, gli altri non mostreranno difetti.
Raffaele Bassi in uno dei suoi lavori sulla castanicoltura propone un iter più lungo e complesso: le castagne vengono estratte dall'acqua solo al nono giorno. Per i primi quattro giorni si dovrà aver cura di cambiare la metà dell'acqua con frequenza giornaliera. Il quinto giorno la si cambia tutta. Il sesto e il settimo se ne cambia la metà. L'ottava giornata nuovo cambio completo. Il nono giorno le castagne sono pronte: passano in una cassetta, e qui dovranno essere periodicamente rivoltate.
L'associazione castanicoltori del Monte Baldo Veronese prescrive, come s'è detto, la novéna, che consiste proprio nel prolungare la cura per nove giorni. Avendo riguardo a cambiar l'acqua in tutto o in parte ogni due giorni. Ovviamente è bandito ogni additivo.

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Castagne o marroni?

Il marrone è la varietà più pregiata di castagna. Ma gli esperti dibattono da secoli sulle differenze fra castagne e marroni. C'entrano pezzatura, dolcezza, fiori...

Marroni? Castagne? Fra i due termini c'è un po' di confusione. Diciamolo subito: il marrone è una castagna. Ma di una varietà particolare, pregiatissima.
Non a tutti è chiara la differenza. Gli stessi esperti ci si accapigliano da sempre.
"Dal Medioevo in poi - scrive Ariane Bruneton-Governatori su "Slow" - sono indicati come marroni quei frutti di una varietà particolarmente grossa e saporita, oggetto di un fiorente commercio con l'Italia settentrionale". Del resto la grossezza del marrone è proverbiale: "Setànta fa chilo" usano dire i vecchi dalle parti di Tenno, in area trentina prossima al Garda e al Baldo.
C'è oggi chi fa distinzioni in base alla pezzatura: in genere i marroni sono più grossi delle castagne e dunque ce ne sono pochi per riccio, da uno solo a un massimo di tre.
I francesi usano distinguere le varietà basandosi sulla percentuale di frutti che presentino un'intrusione nel frutto da parte della pellicina interna. Nei marroni la pellicola non deve penetrare.
Altri si basano sul sapore. Affermando che il il marrone è più dolce della castagna. E proprio per questo differente carattere organolettico, "se la modesta castagna è, in genere, il componente fondamentale di una grande serie di tradizionali dolci - scrive la "Grande enciclopedia illustrata della gastronomia" -, il marrone è invece alla base di molte preparazioni di pasticceria ricche ed alborate". In più "il marrone ha un suo posto anche in varie preparazioni salate, usato specialmente come contorno o elemento di ripieno".
I botanici fanno affidamento anche alle caratteristiche dei fiori, ma qui la faccenda si fa davvero complicata.
"La distinzione tra castagne e marroni - annota l'antropologa Bruneton-Governatori - è uno di quegli argomenti destinati a suscitare sempre una certa perplessità, e tali da discriminare nettamente i veri intenditori dai neofiti. A oggi, è stato decretato che per potersi chiamare marrone la castagna deve essere di calibro superiore, e soprattutto deve essere costituita da un solo, unico frutto. La scorza bruna deve quindi racchiudere un frutto che non sarà diviso neppure dalla seconda buccia più sottile".
Resta il fatto che castagne e marroni sono entrambi frutti del castagno. E che sul Baldo e in particolare a San Zeno di Montagna si coltiva da sempre l'eccellente marrone. Il marrone di San Zeno.
Le porzioni di territorio baldense a castagno ammontano complessivamente a circa trecentocinquanta ettari, che sono circa la metà dell'estensione del castagneto in tutta la provincia veronese. Nel territorio comunale di San Zeno di Montagna e di Brenzone c'è la concentrazione maggiore: i castagni qui si susseguono senza soluzione di continuità ad un'altitudine fra i seicento e gli ottocentocinquanta metri, occupando un'area stimata attorno ai centosessanta ettari.
Sono tre in terra baldense i tipi di castagno coltivati, o meglio, le cultivar, come dicono gli esperti: il pregiato e diffusissimo marrone dal frutto grosso e saporitissimo, presente in tutti i castagneti del versante occidentale del Baldo, la castagna dei Masi, che si trova soprattutto attorno alla contrada di Lumini, nella fascia più alta delle coltivazioni, ed infine il meno conosciuto bastardone che è il primo a dar frutti maturi, all'inizio d'ottobre, ma che è presente solo in tratti ristretti, ancora nei pressi di Lumini. Ce n'è anche per gli intenditori più raffinati. Che sul Baldo cercano ovviamente soprattutto il gustoso, prelibato marrone.

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La festa delle castagne

Un appuntamento immancabile dell'autunno sul Monte Baldo: la festa delle castagne a San Zeno di Montagna. Accompagnando i marroni col vino novello.

La festa delle castagne con l'annessa mostra mercato dei marroni a San Zeno di Montagna si svolge, per tradizione, nel primo fine settimana di novembre, oppure nel secondo, se quello precedente coincide con la celebrazione d'Ognissanti.
L'aria è fresca nei giorni della fiera. Ma ugualmente a San Zeno di Montagna arrivano a migliaia gli appassionati della castagna. Perché la festa dei marroni è uno degli appuntamenti consolidati dell'autunno nella zona del Baldo e del Garda. Immancabile, a scandire il passaggio di stagione.
La si faceva già in tempi andati, questa sagra. C'è documentazione continua sin dagli anni Venti. Qualche fotografia d'epoca fascista mostra la festa delle castagne in pieno svolgimento. Passata la guerra, ha assunto il ruolo di mostra mercato del marrone. L'hanno rifondata, più di trent'anni fa. Oggi sarebbe impossibile rinunciarvi.
La piazza si anima già di prima mattina. Sotto il tendone vengono esposti i marroni in gara: una giuria dovrà valutarli seguendo regole millimetriche. Accanto, ecco gli altri prodotti della terra e degli orti del Baldo: zucche, verze e cavoli, nespole selvatiche.
Nel chiosco si cuociono le caldarroste. Gli stand offrono castagnaccio e altre ghiottonerie. Fuori, i produttori di San Zeno di Montagna vendono sacchetti di marroni. Quelli passati al vaglio dell'associazione castanicoltori hanno il cartoncino col marchietto.
C'è il vino, naturalmente. Il novello di Bardolino, sposo fedelissimo della caldarrosta. E poi il torbolino, bianco torbido, un po' mosso. Quasi ancora mosto. Trebbianello mostato da poco. Vin nóvo e marroni: abbinata classica dell'autunno. Oppure c'è il brulè, il vin caldo, preparato nei pignatóni mettendoci dentro vino, scorze di limone, chiodi di garofano e cannella. Ti danno il mano il bicchiere che quasi ustiona. Ci devi soffiar sopra per far passare il bollore. Poi giù, a scaldarti la pancia e le ossa.
Tutt'intorno è vociare di uomini e donne e ragazzetti. C'è il mercato coi banchéti dove si vende di tutto un po'. Chi sta in montagna dice di com'è andata la raccolta dei marroni, chi sale dal lago conta di come sta andando quella delle olive. Poi tutti zitti, ché passano gli sbandieratori: sono gli amici venuti da Soriano nel Cimino, nel nome d'una comune storia castanicola.

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Il cibo rituale

La castagna era il "pane dei morti". Simbologie e ritualità antiche sono giunte sino ai nostri giorni. Con curiose analogie fra il Baldo e i monti lombardi.

Non è solo questione di mercato, di contingenza stagionale. C'è una qualche ritualità ancestrale nell'allestire una sagra delle castagne ai primi di novembre.
Oggi il significato di certi gesti arcaici s'è quasi del tutto perso. Eppure ne siamo tuttora impregnati: alcuni riti sono entrati nel nostro dna, fanno parte di noi.
Pensiamo alla castagnata, immancabile evento collettivo d'autunno inoltrato in ogni circolo dopolavoristico. Non è solo convivialità. È anche inconscia rievocazione di arcaiche rappresentazioni del cibo dei morti. Perché la castagna era cibo simbolico, col suo frutto che esce dalla scorza così come il corpo resuscita dal sepolcro.
Il primo novembre, nella zona del Baldo e del Garda, in famiglia ci si dividevano i compiti. I più andavano alle funzioni sul cimitero, ma qualcuno restava a casa a cuocere le castagne, che fossero pronte al ritorno. Guai a farle mancare. Erano il pane dei morti, appunto.
Non è un caso che un tempo il prezzo dei marroni restasse alto sino a fine ottobre, sino al giorno dei morti, per poi calare di colpo. Non è casuale la sostanziale coincidenza fra il mercato di San Zeno di Montagna e i giorni delle festività dei defunti.
La consuetudine non era solo del Baldo e del vicino lago di Garda. "I giorno dei morti - racconta Annamaria Comalini Fumagalli a proposito dell'area del lago di Como -, mentre le castagne cuocevano nel culdirö (paiolo) di rame appeso alla catena del caminetto, la famiglia riunita attorno al focolare recitava il rosario per i parenti che avevano raggiunto la pace eterna".
È curiosa questa comunanza di usi tra il lago di Como il Baldo. In una corrispondenza di tradizioni alimentari di origine lombarda che si ripete frequentemente. Accade per esempio per certe polente: la balòta e la carbonéra. In terra veneta, le trovate solo sul versante del Baldo che dà verso il Garda, soprattutto a Brenzone. Per ritrovarle poi pressoché uguali (solo il nome della carbonéra cambia, mutandosi in taràgna) nelle valli bresciane e bergamasche. Polente indicatrici d'antiche migrazioni di carbonai e taglialegna, che popolarono il Baldo per sfruttarne i boschi rigogliosi. Lasciando traccia di sé nei dialetti (a Brenzone molte parole sono lombarde) e nei cibi. Nella cultura materiale.

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El chisöl per i pòri morti

La questua del chisöl era fra i riti dei giorni dei morti. I ragazzini andavano di casa in casa a chiedere in dono le castagne. Altrove c'è una focaccia dallo stesso nome...

Non c'era solo il rito della caldarroste nei giorni dei morti. Un'altra usanza rituale era in qualche modo legata alla castagna e al culto dei trapassati. Era il chisöl dei pòri morti.
Domandate ai vecchi di Brenzone che cosa sia il chisöl. Vi risponderanno che era una questua. La facevano da ragazzini, in novembre, andando ad elemosinar castagne di casa in casa.
Ne ha parlato "El Gremal", il periodico brenzonese, nel '95. Lo spunto veniva da una breve composizione di una (allora) allieva di seconda elementare, Marta Sartori, che, dovendo indagare sulle tradizioni dei nonni, ha scritto così: "Nei giorni dei morti, quando i nonni erano bambini, nei nostri paesi c'era questa usanza: i bambini più poveri andavano, con un sacchetto, dalle famiglie che possedevano tanti castagni a chiedere 'el chissöl per i pori morti', cioè un po' di castagne". La notizia raccolta dall'alunna venne sottoposta al vaglio dei compagni, che a loro volta intervistarono i familiari. Se ne ricavò che "quasi tutti i nonni conoscono questa usanza". Pochi invece i genitori che avessero fatto la questua: la tradizione del chisöl per i pòri morti si sta perdendo.
La questua rituale di castagne in onore dei morti trova riscontro nell'area lariana. Anticamente, in occasione delle festività dei morti, "i bambini di Gravedona - scrive Annamaria Comalini Fumagalli - passavano nelle case del paese chiedendo quaicòs per i pòver mort, sapendo di ricevere castagne cotte e monetine". E che la castagna fosse considerata "cibo dei morti" lo conferma un'altra usanza della zona del lago di Como: "Nelle Tre Pievi, mezzo secolo fa - la testimonianza è sempre della Comalini Fumagalli -, era ancora diffusa l'usanza di preparare sul tavolo di cucina, per la sera antecedente la commemorazione dei defunti, una bièla (ciotola) colma di castagne cotte e un mèz (recipiente panciuto con beccuccio) d'acqua per i familiari defunti".
Qualcuno, d'origine bresciana o mantovana, potrebbe obiettare che il chisöl dalle sue parti è in realtà un pane arricchito, una specie di torta. Vero. Ma la funzione è la medesima: pane dei morti, schiacciata arcaica impreziosita da grasso e uova e a volte ciccioli di maiale o canditi o altro ancora, come dono rituale ai trapassati nei giorni novembrini loro dedicati. Per implorarne l'aiuto nel rendere fertile la terra, propizio il raccolto. Chisöl è il rito, il dono propiziatorio. Qui è applicato alla castagna, là al pane schiacciato. Pane dei morti l'uno e l'altro.

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San Martin de le castagne
Il grande poeta veronese Berto Barbarani ha celebrato in versi la castagna e il vino nuovo. Fornendo una poetica ricetta dei peladèi: "Salvia, aloro, fenocin..."

Ritualità o no, se i marroni baldensi son serviti in tavola ancora fumanti della cottura sul focolare o nella pentola bollente o in forno, allora è festa autentica anche per il ghiottone, che accompagna questo frutto dell'autunno col vino novello. In un matrimonio perfetto.
A proposito: se volete che i marroni escano perfettamente dal loro guscio e che la pellicina interna si stacchi senza problemi, allora, appena li avete tolti dal fuoco, avvolgeteli per qualche minuto in uno strofinaccio. Si formerà un po' di vapore, che favorirà la pulitura. Un tempo al posto dello straccio c'era anche chi adoperava delle foglie di verza: l'effetto è identico.
Poi è il momento di goderseli, in abbondanti, piacevoli spanciate. Con dei bei gòti di vino nuovo. "Et elle ricchieggono il vino nuovo dolce" ricordava agli inizi del Seicento il Castelvetro dal proprio esilio londinese.
L'abbinamento marroni-novello è stato cantato in versi anche dal grande poeta dialettale veronese Berto Barbarani nella sua "San Martin de le castagne". Così:
"Gran castagne e amissi veci
col vin novo in casa mia".
E il "coro alla porta" pensato dal maestro dei rimatori veronesi ribatteva:
"Ancò l'è el giorno de San Martin
bevaremo un bocal de vin,
magnaremo sti quatro maroni,
a la salute dei nostri paroni...!"
Ed è sempre nel barbaraniano "San Martin de le castagne" che si trova una sorta di ricetta in versi dei peladèi, le castagne mondate e poi lessate in acqua con la salvia e l'alloro e anche, stando al poeta, un po' di finocchietto:
"Sì, in malora le magagne...
Torna al mondo i nostri noni;
su, padele de castagne
su, ramine de maroni;
e vualtri, 'Olà', putei,
che sì lì sen a far gnente,
via la scòrsa a i peladei,
drento in l'acqua a fiama ardente:
Salvia, aloro, fenocin...".

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La Madonna del Castagnàr
In località Cà Longa una nicchia ricavata nel tronco di un secolare castagno custodisce una statuetta della Vergine. Vi si celebre una festa a ferragosto...

Feste, sagre, concerti, spettacoli: il ferragosto somiglia una sorta di grande lunapark ovunque diffuso per iniziativa di enti, istituzioni, pro loco e chi più ne ha più ne metta. L'area del Garda e del vicino Monte Baldo, a fortissima vocazione turistica, offrono attrattive a non finire. Qui e là sopravvivono occasioni autenticamente popolari, nelle quali la macchina organizzativa si limita alla piccola contrada, al nucleo di famiglie, alla compagnia di conoscenti e amici. Appartiene a questa categoria la festa della Madonna del Castagnàr che si tiene da qualche anno il 15 d'agosto nei pressi di Cà Longa, a due passi da Lumini, nel comune di San Zeno di Montagna.
La stradicciola passa in mezzo al minuscolo borgo, svolta dietro a un'azienda agricola e conduce a un groppo di castagni. Uno, maestoso, probabilmente ultrasecolare, ha uno sbrego verticale che parte dal suolo. Uno squarcio ampio, che sembra una casetta incuneata nel legno. O una cappella votiva. E in effetti lì dentro ci hanno collocato un capitello, uno staffolo. Sopra un altarino di legno c'è un'immaginetta della Madonna: una piccola statua di poco pregio artistico e molto valore affettivo. È la Madonna del Castagnàr. E davanti al tempietto incassato nel grande albero si celebraa erragosto una Messa all'aperto. Poi, sui prati, si mangiano risotto e polenta e salame.
Fosse ancora vivo, Fortunato Tomei, semplicemente Nato per chi lo conosceva, sarebbe commosso a vedere tutta la gente che va alla festa della Madonna del Castagnàr. Perché pare sia stato lui, il Nato, caprinese della classe 1895, l'iniziatore mezzo di quella devozione mariana.
Com'è andata c'e l'ha raccontato il figlio, Dino Tomei. Il Nato era solito recarsi a fare una scampagnata da quelle parti. Una volta, probabilmente attorno al '56 o al '57, fra l'erba trovò un santino della Vergine. Lo ripose nella cavità che un fulmine aveva scavato in un maestoso castagno: uno sbrego che parte da terra e sembra quasi una cappella. Ogni tanto ci tornava a recitare un'avemaria. Pian piano si unirono degli amici: fra di loro Silvio "Mosè" Pozzo e Vittorio "Fàina" Zumiani. Com'era apparso, il santino un giorno sparì. Nato Tomei lo sostituì con una statuetta dell'Immacolata. Nel frattempo, come ci ha riferito il parroco di Lumini, don Ivo Fiorini, questa sorta di capitello era divenuto caro ai malghesi che passavano di lì per andare a cargàr la montagna, a portare le vacche al pascolo sul Baldo. Lo staffolo era diventato la Madonna del Castagnàr. Scomparsi i "fondatori" e cambiati gli itinerari dell'alpeggio, la devozione per la Madonnina deposta nel tronco del castagno andò affievolendosi. Finché nel 2000, in occasione del Giubileo, la comunità di Lumini non decise di rivitalizzarla.
La statuetta originale è stata riposta nella parrocchiale, mentre nella cavità dell'albero s'è costruito un piccolo tabernacolo in legno che custodisce una nuova immagine. E lì davanti a ferragosto si ritrova qualche centinaio di persone. "Vorremmo che questa restasse una festa spontanea, genuina" ha osservato don Ivo il giorno del ferragosto del 2001. Lo vorremmo tutti.
Il castagno di Cà Longa è gigantesco. L'albero monumentale incute da sempre meraviglia, ammirato rispetto. Per l'età, la grandezza. Per il fatto che supera di gran lunga la vita dell'uomo, è quasi simbolo di eternità. O di divinità. L'albero è stato elemento sacro a tutte le civiltà, a tutte le culture. Perché si protende verso il cielo, verso gli dei, verso Dio. Il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male, mangiato contro il volere divino, costò il paradiso ad Adamo ed Eva. "In realtà ogni pianta, come ogni essere - scrive Alfredo Cattabiani - è la rappresentazione di uno o più archetipi nascosti da un velo impalpabile che soltanto l'evocazione della mente può rendere più o meno trasparenti".
Che cosa evoca dunque il grande castagnàr di Cà Longa con la sua festa mariana di ferragosto? Probabilmente, anzi, sicuramente chi ha collocato quell'immagine nella cavità del castagno non ci ha pensato, ma in quel segno sembrano rivivere le antiche usanze del culto degli alberi, risacralizzato in età cristiana. Riti antichi, di cui restano però tracce profonde nel nostro dna. In fondo, duemila anni di cristianesimo sono piccola cosa rispetto alla lunga storia dell'umanità.
Le foreste erano sacre ai celti. Era nei grandi boschi di querce che tenevano le loro assemblee per decidere sulla vita pubblica, per tenere giudizi, per celebrare liturgie. Anche i romani consideravano sacre le selve. Plinio racconta che "la gente semplice di campagna consacra ad un Dio, seguendo un rito antico, gli alberi maestosi". L'ingresso in un bosco sacro era accompagnato da riti propiziatori. Se lo si doveva sfoltire, era necessario l'atto espiatorio del sacrificio d'una maiale: è Catone a ricordarlo.
Il cristianesimo faticò molto nel contrastare la religiosità delle selve: "Il culto degli alberi - scriveva MacCulloch in un lavoro del 1911 - era parte integrante dell'antico culto della natura e la Chiesa incontrò enormi difficoltà a sopprimerlo. I concili tuonavano contro il culto degli alberi, contro le offerte loro fatte o l'accensione di fuochi intorno a essi". Come per molti altri riti preesistenti, tuttavia, la Chiesa preferì risacralizzare il culto degli alberi piuttosto che combatterlo apertamente. In un'opera di mediazione continua. "Ecco allora che, soprattutto nel Medioevo - scrive Ugo Pellini, ricostruendo la storia di Reggio attraverso gli alberi -, si ritrovano immagini di Madonne appese ad un tronco di un albero o poste vicino ai boschi. In alcuni casi appare addirittura, tra i rami di un albero, la Madonna; in tutta la regione sorgono edicole, cappelle o anche chiese e santuari, mete di pellegrinaggi per richiedere grazie o esprimere gratitudine, a ricordare tale evento. Tra le tante ricordiamo la Madonna dell'Acero nel Bolognese, la Madonna della Quercia nel Piacentino, quella del Pino vicino a Cervia, quella del Salice a Ferrara". Nella zona del Baldo-Garda la Vergine appare a un contadino su un olivo a Marciaga e su un frassino a Peschiera, e sorgono due santuari.
A San Zeno di Montagna la statuetta della Vergine è nel piccolo capitello ai piedi dell'albero di castagno secolare. La si festeggia a ferragosto, giorno dedicato alla Madonna Assunta nel calendario della Chiesa. Ma il ferragosto moderno trae origine dalle feriae di Augusto, e agli inizi dell'epoca imperiale romana questo era periodo di grandi feste in onore di alcune divinità. La più importante era dedicata a Diana, la "regina delle selve". "Nello stesso periodo - annota Cattabiani - si svolgeva in un bosco di lauri sull'Aventino, al centro del quale vi era un tempietto, la festa in onore di Vortumno, il dio preposto alla trasformazione e al mutamento ciclico che determina le stagioni e faceva maturare i frutti".
Feste in onore della dea dei boschi e del dio della fecondità degli alberi, nel ferragosto pagano. Oggi si celebra la Madonna Assunta, ma "che la ricorrenza del 15 si sia innestata su un substrato precristiano - è sempre Cattabiani a scrivere - lo potrebbe confermare la sua origine nel Vicino Oriente dove in questo periodo era festeggiata una Grande Madre, la dea siriana Atargatis, metà donna e metà pesce, considerata la patrona della fertilità e dei lavori nei campi. Probabilmente la sua funzione di protettrice delle attività agricole fu trasferita alla Vergine nei primi secoli, durante il processo di evangelizzazione, tant'è vero che oggi ancora in Armenia si benedicono all'Assunta i primi grappoli d'uva matura".
La Madonnina dei Lumini ha il suo capitello nel castagno. Ma anche le edicolette votive della tradizione popolare cristiana si rifanno in qualche modo a preesistenti ritualità. Spesso al culto degli alberi. "I capitelli - osserva Giulio Rama - sono espressione storica legata, nei contenuti, alla religione cristiana ma, nello stesso tempo, essi esprimono una sensibilità già diffusa in ambito pre o extra cristiano che tende a cogliere il Trascendente nell'ambiente circostante o nelle forze della natura. Tra i simboli sacri che i romani ponevano a capo delle strade, le fonti, le alture, gli alberi venerati dalle popolazioni celtiche ed il capitello cristiano, vi è diversità di contesto e di messaggio ma il canale comunicativo resta il medesimo, talvolta con sorprendenti analogie dal punto di vista formale; basti pensare alle edicole sacre presenti nelle case romane o agli alberi, come il frassino, venerati dalle popolazioni dei campi molti dei quali vengono 'cristianizzati' dalla Chiesa".
A tutto questo il Nato non ci pensava quand'ha messo il santino nel castagnàr. Né ci pensavano nella comunità di Lumini. Ma, che lo vogliamo o no, nelle nostre vene scorre il sangue degli antenati...

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I pollini dei primi castagni

Il castagno esisteva nella zona del Baldo e del Garda già nell'età del ferro. Lo dimostrano alcune indagini condotte sui pollini sepolti nei terreni.

C'è chi sostiene che il castagno in area baldense ci sia sin da epoche piuttosto lontane.
Vittore Foradori, riassumendo il "panorama forestale" della montagna affacciata sul Garda agli albori della civiltà neolitica, sostiene che si possa "ragionevolmente" ritenere che a quel tempo le pendici più basse fossero ricoperte dal querceto, mentre più su, sui terreni argillosi tra i quattro e gli ottocento metri, poteva comparire il castagno. Le zone di possibile presenza di quei primordiali castagnàri dovevano essere quelle di San Zeno di Montagna e Lumini, ma anche Spiazzi, sull'altro versante, e poi le parti di Brentonico, in quella che è oggi terra trentina.
Decisamente interessanti sono certe analisi sui pollini presenti nei vari strati del terreno condotte nell'area delle colline moreniche del Garda meridionale. Zona prossima al Baldo. Se ne ricava che il castagno da quelle parti doveva esistere già nell'età del ferro, l'ultima delle epoche in cui si usa suddividere la preistoria.
Ovviamente, il fatto che il castagno fosse già presente in area baldense in epoche così remote non vuol assolutamente dire che lo si coltivasse. Così come il ritrovamento di vinaccioli nelle palafitte del lago di Garda non significa che l'uomo preistorico coltivasse la vigna sulla riviera.
Qualcuno il castagno lo vorrebbe originario dell'Europa orientale o dell'Asia minore. Lo stesso nome deriverebbe da una certa città del Ponto, dove questa pianta da frutto sarebbe stata particolarmente presente in epoca antica: Kastanis. A dar bado a Plinio il Vecchio, le castagne sarebbero arrivate da Sardi, e questo sarebbe il motivo per cui i Greci le chiamavano "balani di Sardi". "Per molto si è ritenuto che il castagno non fosse indigeno dell'Europa ma reperti pollinici postglaciali in Italia meridionale, Veneto e Corsica - taglia corto Carlo Mihelcic - hanno confermato il contrario".
Si dice che la sua coltura del castagno abbia trovato diffusione sugli Appennini, sulle Alpi ed in altre aree europee - ma non necessariamente anche sul Baldo - ad opera dei romani, conquistatori d'imperi, ma anche propagatori di arte, ingegneria, leggi e coltivazioni. Che i romani antichi lo coltivassero è certo: per utilizzare i frutti, naturalmente, ma anche per ricavarci ottimi pali per le vigne. Prova ne sia che Columella, nel suo trattato sull'"Arte dell'agricoltura" - siamo attorno ai duemila anni fa - invitava ad allevarlo perché "è per natura vicino al rovere, e perciò è adatto a fornire di appoggi le vigne".
Di tipi di castagni in epoca romana ce n'erano già parecchi. "Al giorno d'oggi - scriveva Plinio - ne esistono numerose varietà. Le tarantine sono facili da masticare e leggere da digerire e hanno forma piatta. Più tondeggiante è la cosiddetta balanitide: facilissima da mondare, si stacca spontaneamente dalla buccia senza residui. Piatta è anche la salariana, mentre la tarantina è meno flessibile, la corelliana è più pregiata e così anche la tereiana la cui scorza rossastra la fa preferire alle varietà triangolari ed alle nere comuni, dette da cottura. Terra d'origine delle qualità più pregiate sono Taranto e, in Campania, Napoli. Tutte le altre specie sono fatte crescere per servir da cibo ai maiali, poiché la buccia si riproduce con scrupolo anche all'interno dei frutti". Insomma, ce n'era già di che sbizzarrirsi.
Sta di fatto che queste testimonianze d'antica castanicoltura non dissipano i dubbi. E resta difficile, se non impossibile, stabilire con certezza quando la castagna sia arrivata in terra italica. Anche se Giulia Carazzali, annotando una edizione dell'"Arte culinaria" di Apicio, monumento della gastronomia "ricca" dell'età romana, sostiene "sicuramente" furono prodotte già nel primo secolo avanti Cristo.

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Le Villenove e i castagnàri

La diffusione della castanicoltura avvenne sulla spinta della crescita delle popolazioni verificatasi dopo il Mille. Probabilmente accadde così anche sul Baldo.

Datare la castanicoltura del Monte Baldo è impresa improba. Anche se si potrebbe azzardarne un'origine medievale. Qualche pur sporadica testimonianza di terre con castagni sul Baldo la si trova del resto già a partire dal XIII secolo.
La diffusione della coltivazione del castagno potrebbe aver tratto origine sul Baldo, così come in altre aree, sotto la spinta di quella pressione demografica che si ebbe a verificare a partire dal secolo XI, dopo una "prima ondata" nel IX secolo. La continua crescita della popolazione costrinse a conquistare nuove terre coltivabili. Occorreva dar da mangiare a un numero crescente di persone e servivano nuovi raccolti.
I nuovi insediamenti erano spesso caratterizzati da massicci impianti di castagno. Per due motivi. Il primo: dai frutti si ricavava la farina, indispensabile per farci un surrogato del pane. Il secondo: ci si potevano nutrire i maiali, insostituibile riserva di carne e di grassi per l'inverno. Scrive Massimo Montanari: "Fu questo, in molte zone dell'Europa centro-meridionale, il periodo della massima diffusione del castagneto da frutto, selezionato a partire dalle specie selvatiche e spesso impiantato al posto di antichi querceti. Il perché di questa scelta è piuttosto evidente: dalle castagne si può ottenere farina; il loro ruolo alimentare è perciò assimilabile a quello dei cereali".
È stato dunque il fermento agricolo medievale a portare allo sviluppo della castanicoltura baldense?
Prove documentarie al proposito per il momento non ne abbiamo, ma c'è un interessante indizio. Gli insediamenti che s'andarono diffondendo dopo il Mille sulle terre strappate all'incolto avevano in moltissimi casi, in tutt'Europa, un nome comune: si chiamavano Villanova, il villaggio nuovo. "Il termine, che ancor oggi sussiste in un gran numero di toponimi - spiegano Alessandro Barbero e Chiara Frugoni -, indica un insediamento creato ex novo, per volontà di un signore o di un principe, nei secoli della grande espansione demografica e dei massicci dissodamenti di terre incolte, cioè fra XI e XIII secolo".
In terra di San Zeno di Montagna, lungo la strada che porta verso Pai e Castelletto, poco di là del ponte di Borno, a ridosso del confine col comune di Brenzone, c'è contrada Villanova. Un gruppetto di case coi resti ormai quasi del tutto scomparsi di un'antica fabbrica di tegole. "Qui c'è una fornace per cuocere tetti" annotava nel 1790 Domenico Marocchi. "Tanto Villanova quanto Borno - aggiungeva il cronista di fine Settecento - rimangono quasi sopra Paj in alto, cioè in mezzo ai Boschi: sono luoghi che hanno del selvaggio come i prodotti di questi luoghi lo testificano". Villanova è tuttora al margine dei boschi. Proprio al centro di quella che resta l'area di massima diffusione del castagno in terra baldense. E non può essere solo una coincidenza fortuita.

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La fame e la castagna

La castagna: pane dei poveri. La vecchia definizione dei sussidiari scolastici ha un fondamento: con la farina di castagne si faceva il pane.

La fame: questa la spinta alla diffusione della castanicoltura. Per ottenere castagne da pane e castagne da maiali.
Che la castagna fosse il pane dei poveri lo si è letto, anche un po' retoricamente, in decine di sussidiari scolastici. Ma in effetti, in parecchie zone d'Italia è stato davvero così per secoli: con la farina di castagne di ci facevano pane e polenta. Grezzi, rustici, difficili da digerire, ma capaci di garantire la sopravvivenza. "Migliaia de' nostri montanari - scriveva nel 1614 Giacomo Castelvetro - di questo frutto si cibano in luogo di pane, il quale o non mai overo di rado veggono. Per la qual cosa, quando gli alberi producenti simigliante frutto ne producon poche, come alcuna volta aviene, quivi il frumento diviene carissimo e i popoli delle nostre montagne patiscono molto, perché, quando essi han dovizia di castagne e di latte, poco si curano di pane né di vino, e quivi si veggono uomini ben fatti e robusti, quantunque in vita loro non vedessero mai pane".
Lo stesso Plinio in epoca romana c'informava di come le castagne costituissero davvero una sorta di surrogato del pane "durante il digiuno delle donne". E già lo storico greco Senofonte, vissuto fra il 430 ed il 355 prima di Cristo, aveva definito il castagno come "la pianta del pane".
E poi, s'è detto, la castagna serviva, con la ghianda, a nutrirci i maiali, riserva carnea. La carne del porco, essiccata o insaccata, era la fonte di sostentamento nella stagione fredda. Ed aveva un valore tale che in età antica gli stessi boschi si misuravano in maiali: s'indicava, cioè, quanto capi potessero essere nutriti dai frutti spontanei d'un certo appezzamento di terra boscata. "Il maiale - scrive Massimo Montanari - costituiva la principale unità di riferimento della produzione silvo pastorale, tanto da fungere da vera e propria unità di misura dei boschi, valutati in base al numero di capi che vi si potevano allevare: silva ad saginandum porcos...; era questa la stima principale che si riteneva utile fornire, secondo una prassi caratteristica soprattutto dell'Europa continentale e, in Italia, dell'area padana".
Ancora adesso c'è sul Baldo qualcuno che dalla risàra di castagne, tratti i marroni per il mercato e trattenuta la seconda scelta per gli usi domestici, dà le ultime castagne, le meno belle, ai maiali. Ad allevarli così sono purtroppo ormai pochissimi. Un peccato, perché i salami che derivano dal porco nutrito a castagne hanno carni profumate, che daranno salumi che giocano sui toni della dolcezza. Ghiottonerie.

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L'antica castanicoltura di montagna

Le castagne e le erbe selvatiche erano l'alimento abituale dei contadini di montagna. E gli antichi statuti montani difendevano i castagneti.

L'importanza alimentare della castagna nelle aree montane trova numerose testimonianze. Valga a mo' di esempio una "Memoria" del toscano Saverio Manetti data alle stampe nel 1765. Vi si legge che il frutto del castagno "ridotto questo in farina e polenta, ovvero in altre forme cotto o accomodato, serve loro per tutto alimento e per pane in tutto il corso dell'anno". E sempre nel Settecento, un naturalista, il Targioni Tozzetti, annotava, a proposito della Garfagnana, che "il vitto consiste quasi solamente in castagne, o fresche o cotte arrosto ed in ballotte, o seccate e ridotte farina".
Conferma autorevolmente Piero Camporesi, dal cui lavoro sul "Pane e la morte" abbiamo preso le citazioni appena riportate, che "le castagne, insieme alle rape cotte sotto la cenere, ai fagioli, alle erbe selvatiche, erano l'alimento abituale dei contadini di montagna". Ed era cibo tanto popolare, la castagna, da esser considerato forse l'unico frutto non riservato, in età medievale o rinascimentale, al consumo signorile. "Quanto ai vegetali - scrive in materia Massimo Montanari - bulbi e radici (i porri, le cipolle, le rape) si lasciavano volentieri ai contadini, come pure le erbe più 'basse' e comuni; più idonei alla mensa dei signori erano stimati i frutti degli alberi. A meno che la loro abbondanza, o il loro particolare impiego alimentare, o la loro conservabilità nel tempo ne facessero - eccezionalmente - un prodotto popolare: è il caso delle castagne, che perciò non fanno parte dell'universo ideologico signorile".
Il ruolo alimentare della castagna era tale che le norme statutarie delle comunità montanare ne facevano ampia menzione. Accade ad esempio di trovarne vari riferimenti nei quattrocenteschi statuti di Soriano nel Cimino, popoloso centro del Viterbese che da qualche tempo intrattiene rapporti di amicizia con San Zeno di Montagna nel nome della comune tradizione castanicola (ancora oggi, come riferisce Valentino D'Arcangeli, "poco meno di un quarto dell'intera superficie del territorio di Soriano è ricoperta da boschi" e se la vetta del Cimino è contraddistinta da maestosi faggi, più sotto, oltre i quattrocento metri, "e, in taluni casi, anche a livelli più bassi" predominano invece i castagni "della varietà domestica e di quella porcina o cedua").
Ebbene: negli antichi statuti sorianesi non è difficile trovare riferimenti alle sanzioni previste nel caso di danni arrecati ai castagni dall'uomo a dagli animali al pascolo. La stessa raccolta dei frutti vi è regolamentata con precisione. Così il trentanovesimo capitolo dello statuto del 1447 determina la "poena colligentium castaneas ante tempus". Prescrive che "nessuna persona e nessun sorianese osi o ordini raccogliere o portare a Soriano le proprie o le altrui castagne, se non in quei giorni che furono stabiliti dal Consiglio e dagli Officiali della Terra di Soriano a pena di cinque solidi e perdita delle castagne che furono raccolte o trasportate".
È la stessa situazione che si incontra, per fare un ulteriore esempio, in Val Bormida, dove in passato, come scrive Luigi Ferrando, il "tempo delle castagne" segnava il periodo delle grandi ferie, quello in cui non si potevano celebrare i processi, "per lasciare libera la popolazione di accudire ai vitali raccolti". Ed anche lì le castagne "potevano essere trasformate in farina per produrre pappe, polente, castagnacci, od anche pane, integrate alle altre farine". Nei tempi di carestia erano fra le poche risorse sicure. E non è raro imbattersi in antichi atti notarili che attestano i "tragici momenti in cui padri e vedove impegnano tutto il loro misero avere, pur di ottenere qualche pugno di castagne secche con cui sfamare i propri figli".

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Sia gloria al minestrone di marroni

Pane, farinate, zuppe: la castagna era la materia prima di molti piatti della cucina contadina. Sul Baldo il piatto tipico resta ancora oggi il rustico minestrone di marroni.

La diffusione del castagno contribuì in qualche modo a migliorare, a potenziare l'alimentazione della povera gente. Già all'epoca di Roma, come asserisce Nico Valerio, al posto delle arcaiche farinate "di emergenza" a base di faggiòle o di ghiande, i contadini avevano preso ad adoperare la castagna per farci una specie di purea (una "lenticula de castaneis") o una zuppa. E quella zuppa, riadattata, non pare davvero male neanche oggi. Si fa così. Le castagne vanno lessate con sale e semi di finocchio. Poi vanno schiacciate nel brodo. Si condiscono con timo e semi di finocchio macinati e si fanno cuocere ancora un po'. Infine si versa la densa minestra nei piatti sopra dei crostoni di pane. Una progenitrice del minestrone di marroni in uso ancora oggi sul Monte Baldo.
Zuppe: non solo farina da pane e polenta, ecco la novità impostasi gradualmente nell'uso della castagna. E di quelle antiche minestre resta traccia fondamentale sul Monte Baldo. O meglio, a San Zeno di Montagna, dove il piatto tipico resta il minestrone coi marroni. Che è poi un'interessante variazione baldense sul tema della famosa minestra coi fagioli della tradizione veneta. Le castagne si uniscono ai fagioli in una robusta zuppa montanara.
È tuttavia, questa del minestrone coi marroni, un'elaborazione gastronomica non esclusiva del Baldo. Perché l'uso delle castagne nelle minestre attraversa i secoli nella storia della cucina italiana. Il milanese Bonvesin de la Riva, vissuto fra il 1240 ed il 1315, poeta e grammatico, ebbe per esempio a scrivere che le castagne "spesso si lessano senza guscio e, cotte così, molti le mangiano con i cucchiai; oppure, buttata via l'acqua di cottura, spessissimo le masticano senza pane, o anzi, al posto del pane". Minestra poverissima, insomma. Con la sola acqua di cottura dei marroni, di quelli che, in particolare, sul Baldo si chiamano peladèi.
Il trecentesco "Libro della cocina" d'un anonimo toscano, considerato fra i primi trattati di cucina "italiana", riporta invece una ricetta dedicata ai ceci in cui appare anche la castagna. Ecco il testo: "Togli ceci rossi e bianchi; e, tenuti a mollo cuocili col pepe, e col zafferano, e erbe odorifere. E quando sono queste cose cotte, ponni parte nel mortaio e pesta che sia spessa, e ponvi brodo saporoso, e poi ponvi castagne arrostite intere, e radici di petrosilli, e brodo di carne". A beneficio del lettore, chiariamo che il petrosillo è il prezzemolo. E detto questo, non ci resta che osservare che qui il connubio fra legumi e castagne è ben presente, come sul Baldo quello appunto tra fagioli e marroni.
Arriviamo al Seicento. Nel "Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l'erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano", Giacomo Castelvetro scrive anche delle castagne. Si sofferma su quelle seccate. E ricorda che con queste "la povera gente ben si nutrisce, cuocendole a diverse maniere, e prima in minestra, sole in compagnia d'alcuni legumi, quali sono fagiuoli".
Anche quando venne il tempo in cui un cuoco per aver successo doveva essere di scuola francese - stiamo parlando del Settecento - la minestra di castagne continuò a far la sua figura. Sul "Cuoco piemontese perfezionato a Parigi", raffinato ricettario edito a Torino nel 1766, si legge la ricetta della "minestra di castagne in magro e grasso". Ne trascriviamo il testo: "Per fare una minestra di castagne in magro metterete in una casseruola un pezzo di butirro con tre cipolle tagliate in fette, una carota, un occhio di sellero e tre porri, il tutto tagliato in piccoli pezzi, un mezzo bacello d'aglio, e due garofani; mettete tutto al fuoco sinché sia un po' colorito, bagnate con acqua, facendo bollire per un'ora; colate il brodo alla stamigna, aggiungendovi sale, poi prendete un centinaio di castagne di quelle marroni, oppure di quelle grosse, levatele prima la scorza mettendole al fuoco in una padella pertugiata, maneggiandole sempre finché non si possa levare la seconda scorza; quando saranno ben mondate, fatele cuocere con una parte del detto brodo: dopo sceglierete quelle che sono intiere per ornamento della minestra, e le altre le pesterete e passerete per una stamigna, facendone un sugo colorato che bagnerete col brodo che si adoperò per farle cuocere; fate cuocere a rilento la minestra col brodo di erbaggi e, quando servirete, mettetegli il sugo de' marroni. La minestra grassa si può fare nella stessa maniera, mettendone in luogo del brodo magro quello grasso". Qualche chiarimento è d'obbligo. Il sellero è il sedano. La padella pertugiata è quella bucata, per cuocere le caldarroste: sul Baldo la chiamano barbéra. La stamigna era invece un panno che si adoperava per filtrare: lo potete sostituire con un moderno setaccio a maglia molto fine.

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Sotto il segno di San Marco

Durante il dominio veneziano il castagno era ampiamente diffuso sul Baldo. Il Calzolari, botanico e farmacista veronese, ricordava d'averne viste "antiche et frondute selve".

Per lunghi anni anche sul Baldo sventolò il gonfalone col leone di San Marco. La dominazione veneziana durò quasi ininterrottamente dal 1405 al 1796, quando venne Napoleone a spazzar via la Serenissima.
Ai tempi di Venezia il castagno doveva esser piuttosto diffuso in zona. Anche se Venezia a dire il vero i boschi li adoperava più per far legname da costruzione o per il fasciame delle sue barche mercantili. "Le richieste di legname in continuo aumento - scrive il geografo Eugenio Turri riferendosi al Settecento - portarono a ulteriori devastazioni dei boschi, che misero in allarme gli studiosi, numerosi nella Verona colta e illuministica di allora".
La spogliazione dei boschi dovette in effetti essere pesante, lasciando solo qualche parvenza delle selve d'un tempo. Il castagno comunque ebbe a resistere, se il Pignolati, scrivendo una relazione per l'Accademia di agricoltura di Verona nel 1773, ebbe a dire che "alle falde del gran Monte, ed all'intorno sorgono molte deliziose colline coperte di ulivi, castagni, e viti secondo la varia situazione, essendovi pure qualche rimasuglio d'antica boscaglia". E quei "rimasugli" dovevano esser davvero poca cosa se il Pignolati si sente in dovere d'aggiungere: "Dirò inoltre cosa, che sembra incredibile, ma ch'è pur vera, cioè che vi sia penuria di legno da fuoco, e ciò pel barbaro estirpamento de' boschi persino nelle maggiori e più declivi alture, derivato forse dalla poca utilità, che ne ritraevano i possessori in confronto alle gravose spese di tagliarle, e condurle fuori de' boschi, e dall'ineguaglianza d'aggravio dello smercio".
E pensare che un paio di secoli prima, in piena età veneziana - era il 1566 - il famoso e celebrato Francesco Calzolari, farmacista veronese delle "Due Campane" e caposcuola della scoperta botanica dell'area baldense, nel suo "Viaggio di Monte Baldo della magnifica città di Verona" annotava poche ma preziose notizie "delle antiche et frondute selve di faggi, elci, e quercie, alcune di castagne sole, altre di pini ed abeti".
Insomma, già nel Cinquecento c'erano addirittura sul Baldo "antiche selve" di soli castagni. Segno d'un adattamento perfetto e di una coltivazione consolidatasi da vecchia data.
Che all'epoca del Calzolari la castanicoltura fosse diffusa sul Baldo trova un'indiretta conferma cinquecentesca sulla dirimpettaia riviera occidentale del Garda. Bongiani Grattarolo, tracciando sul finire del secolo la sua "Historia della Riviera di Salò", descrive, con spirito invero piuttosto campanilista, i boschi della riva lombarda del Benaco. Dicendo che vi si trovano "pinne, castagne e simili, e tutti questi frutti, così gli indorati, come gli altri di grossezza, di forma, e di sapore, e di altre qualità diverse, pare che siano molto più grati prodotti in questa Riviera". Frutti sontuosi, quelli bresciani, che, a sentire il Grattarolo, non avevano pari in zona. E il paragone poteva esser con la riva opposta, quella sulla quale s'affaccia, appunto il Baldo.

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Bòle, bòle! L'elogio del castagnaccio

Il castagnaccio, delizia dei mesi freddi. Ebbe a scriverne anche Pellegrino Artusi nel suo celebre trattato di cucina. E a Verona si gridava "Bòle, bòle!"

Fine Ottocento: erano gli anni in cui in Italia conosceva fortuna uno dei capisaldi della letteratura gastronomica nazionale, "La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene" di Pellegrino Artusi.
Ebbene, anche l'Artusi ebbe a occuparsi di castagne. Proponendo un paio di ricette, ma soprattutto deprecando quell'italica mancanza d'industriosità che impediva di utilizzare al meglio la farina di castagna. Dice infatti il banchiere-gastronomo, introducendo una ricetta d'un "migliaccio" di castagne: "Anche qui non posso frenarmi dal declamare contro la poca inclinazione che abbiamo noi Italiani all'industria. In alcune provincie d'Italia non si conosce per nulla la farina di castagne e credo che nessuno abbia mai tentato d'introdurne l'uso; eppure pel popolo, e per chi non ha paura della ventosità, è un alimento poco costoso, sano e nutriente. Interrogai in proposito una rivendugliola in Romagna descrivendola questo migliaccio e le dimandai perché non tentava di guadagnare qualche soldo con questo commercio. 'Che vuole', mi rispose, 'è roba troppo dolce, non la mangerebbe nessuno'. 'O le cottarone che voi vendete non sono dolci? eppure hanno dello smercio', diss'io. 'Provatevi almeno', soggiunsi; 'Da principio volgetevi ai ragazzi, datene loro qualche pezzo in regalo per vedere se cominciassero a gustarlo, e poi dietro ad essi è probabile che a poco a poco si accostino i grandi'. Ebbi un bel dire; fu lo stesso che parlare al muro".
Insomma, niente da fare: non c'era modo di far avviare il commercio di quel "migliaccio" che altrove prendeva il nome di castagnaccio. Almeno con la venditrice romagnola. "Chissà - si sarà detto l'Artusi - che non vada meglio con qualcun altro".
Quel "qualcun altro" l'avrebbe potuto magari trovare a Verona, dove il castagnaccio è di casa. In piazza Erbe lo si vendeva sui banchetti. Lo si chiamava e lo si chiama tuttora bòle. La leggenda vuole che il nome derivi proprio dal grido d'un venditore d'origine toscana: "Bòle, bòle!" urlava per dire del bollore del suo dolce. Sarà da crederci?
Dino Coltro, cultore del folclore scaligero, nel suo bel volume dedicato alla "Cucina tradizionale veneta" ricorda che un tempo nel Veronese il castagnaccio lo si preparava con la farina di castagna, "dal biancore latteo", che "era venduta dai frutaroi, fruttivendoli, in dosi da far invidia alla bilancia del farmacista e forse avevano ragione perché se ti andava, per caso, su per il naso o di traverso, la te stofegava, soffocava". Poi eccolo servito, il castagnaccio "tagliato in quadratini soffici dal colore della cioccolata, diffuso in varie dosature tenute segrete".
Ricorda ancora Coltro: "Dalle mie parti portava il nome di papazin, altrove era detto bole o, semplicemente, polentina de castagna, termine derivato dalla montagna dove la farina di castagna serviva a fare davvero la polenta".

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Lo splendore dell'Ottocento e la crisi del Novecento

"Sulla cima più ardua, cresce gigante il castagno": lo scriveva nel 1897 il Solitro nel "Benaco". Poi vennero le malattie e lo spopolamento della montagna.

Nell'Ottocento al castagno dell'area gardesana ha dedicato attenzione Giuseppe Solitro, autore del magnifico "Benaco" stampato a Salò nel 1897. Ne trascriviamo un passo perché la descrizione è deliziosa: "E col noce confuso, e più in alto ancora, sulla cima già ardua, cresce gigante il castagno, col nocchiuto pedale e le tortuose radici che lo tengono saldamente confitto in terra. Nei prati verdeggianti si leva solitario o a gruppi, e protegge dalla pioggia repentina e dal cocente raggio del mezzodì il pastore e la mandria che gli chiedono ricovero e riposo". Una memoria quasi poetica, questa, di tempi andati in cui la castagna costituiva un'importantissima fonte di reddito per la gente della montagna.
Poi venne il Novecento, scoppiarono le guerre e il castagno diede ancora di che vivere alle genti della montagna. Ma nel secondo dopoguerra l'imperversare d'una malattia della pianta e il graduale spopolamento della montagna, col conseguente abbandono della pratica agricola, hanno messo in crisi la tradizione baldense. "E pensare che, nel corso della storia di questa regione prealpina - scrivono Giorgio Bargioni ed Ettore Peretti -, i motivi che avevano favorito l'introduzione del castagno e il progressivo sviluppo della coltura, soprattutto sul versante occidentale del Monte Baldo, sembravano garantirle una sorta di immunità contro il tempo e contro le mutevoli vicende legate alla presenza dell'uomo".
Sostanzialmente i fattori che avevano giocato a favore della diffusione del castagno erano tre. In primo luogo il fatto che quest'albero richiede poche cure colturali, peraltro non coincidenti con il periodo di grande impegno della fienagione. Poi la possibilità di ottenere un prodotto ad alto contenuto energetico e di facile conservazione. E infine lo sfruttamento di altre risorse, come la legna da ardere ed un buon fogliame per la stabulazione del bestiame.
Le cose si complicarono quando questi fattori smarrirono la loro originaria valenza economica. Accadde allorché anche l'agricoltura montana dovette cominciare a confrontarsi con il mercato "sotto la spinta di nuove crescenti esigenze economico-sociali". La castanicoltura, allora, incominciò a subire un progressivo declino, accentuato, tra l'altro, da massicci attacchi di cancro della corteccia. Si rischiò addirittura la scomparsa dei castagneti baldensi.

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La ripresa della castanicoltura

La ricerca del genuino e del naturale ha ridato visibilità alla castagna. Il consumatore si è fatto attento alle produzioni di nicchia. Nel nome di sapori autentici.

Fortunatamente, dopo un periodo di notevole difficoltà, la castagna, sul finire del Novecento, è tornata ad esser protagonista. Sulla spinta della ricerca del "genuino", del "rustico", del "naturale", dei sapori, insomma, non convenzionali. Col consumatore che s'è fatto più attento. E cerca di contrastare la globalizzazione da multinazionale, la standardizzazione da ipermarket con la ricerca del prodotto di nicchia.
I nuovi gusti, le nuove sensibilità alimentari hanno rilanciato la richiesta di castagne e marroni. Tant'è che l'Italia ha incominciato addirittura, in verità anche a fronte di un sensibilissimo calo nella produzione, ad importare dall'estero.
Se agli inizi degli anni Ottanta le importazioni di castagne estere erano pressoché nulle (una quarantina di tonnellate appena), sul finire del decennio si era già passati ad un import pari ad oltre ottomila tonnellate, mentre le esportazioni sono calate drasticamente da quasi ventiduemila fino a circa tredicimila tonnellate. Nel contempo, la produzione era drasticamente caduta. Erano quarantamila le tonnellate di castagne prodotte in Italia agli inizi degli anni Novanta. Un'inezia se confrontato, questo dato, con le quattrocentoventimila tonnellate giusto di un secolo prima. E la differenza è ancora più clamorosa se teniamo conto che attorno al 1910 il territorio nazionale forniva oltre seicentoquarantamila tonnellate di castagne.
Poi ecco la graduale flessione, fino al crollo produttivo a partire dagli anni Sessanta. Ma in quegli anni cominciava già ad imperare l'omologazione alimentare nel nome del consumo di massa. La montagna iniziava a spopolarsi. E certi cibi dell'antica ritualità alimentare contadina erano visti quasi con disprezzo. Salvo poi riscoprirli quando ci siamo trovati a mangiar pietanze precotte, tutte uguali, senza sapori e senz'anima, all'insegna del mordi e fuggi, con l'unico pregio della bella confezione e della seducente pubblicità.
Oggi dunque, come scrive Giampiero Rorato in un suo aureo libretto, "grazie a tutta una serie di sollecitazioni culturali, la coltivazione del castagno sta ridestando l'interesse di enti pubblici, di comuni, di comunità montane e di associazioni ambientalistiche e paesane". La salvaguardia dell'ambiente montano e il sostegno a quelle famiglie che hanno scelto di continuare a vivere sui monti passano anche attraverso la ripresa della castanicoltura. "Il rilancio del castagno - ha affermato Romano Veroli, presidente dell'associazione nazionale delle Città del Castagno - si prefigge innanzitutto lo scopo di offrire una valida opportunità produttiva ed economica in molte zone pedemontane che attraversano l'intero territorio nazionale, attraverso la valorizzazione e la promozione di prodotti tipici quali le castagne e i marroni. Contestualmente il castagno offre una positiva occasione al bisogno di ambiente e di natura non contaminati sempre più pressante nella vita dell'uomo, oggi più che mai condizionato da uno sviluppo tecnologico sfrenato e spesso senza regole. Il castagno infatti rappresenta un importante patrimonio genetico da salvare ed una ricchezza paesaggistica ed ambientale da spendere in chiave turistica, ricreativa e socioculturale".
Il peggio sembra essere alle spalle. E passata la crisi, anche sul Baldo ci ritroviamo oggi con dei castagneti ancora piuttosto estesi.

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L'associazione castanicoltori del Monte Baldo Veronese

L'associazione castanicoltori del Monte Baldo Veronese è il motore della castanicoltura baldense. Il marchio d'origine rende immediatamente percepibile la qualità al consumatore.

È il vero protagonista del rilancio della castanicoltura baldense. L'associazione castanicoltori del Monte Baldo Veronese è stata fondata nel 1997 col preciso intento di ridare slancio a una tradizione antica e a un prodotto di gran pregio qual è il marrone tipico del Baldo.
Lo statuto indica chiaramente fra le finalità associative "la tutela, la valorizzazione, il miglioramento e l'incremento della produzione delle castagne tipiche della zona interessata, commercializzate con il marchio 'marrone di San Zeno di Montagna'".
Non solo. L'associazione vuole anche "promuovere lo sviluppo di attività agricole complementari e non eccedentarie nel territorio del Monte Baldo, in modo particolare, al fine di creare 'attività pilota', diffondere e costituire nuovi impianti di drupacee, castagno, noce, piccoli frutti, nespolo, melo, pero ed altre specie e varietà tipiche". E poi fra gli obiettivi c'è quello di "introdurre presso i produttori le tecniche colturali più razionali volte ad ottenere un più elevato reddito, sensibilizzando i soci sull'opportunità di limitare i trattamenti antiparassitari attuando metodi di lotta integrata e guidata".
La sede legale è presso il municipio di San Zeno di Montagna. Dalla stessa località baldense proviene anche la maggior parte dei soci: molti uniscono l'attività di allevatore con quella di castanicoltore, in un legame profondo con la terra del Baldo. Ma ve ne sono pure di residenti nelle altre aree castanicole individuate dalla bozza di disciplinare della denominazione d'origine del "marrone di San Zeno": oltre a San Zeno di Montagna, la zona di produzione e trasformazione comprende i comuni di Brentino Belluno, Brenzone, Caprino Veronese, Costermano e Ferrara di Monte Baldo, tutti all'interno del territorio della Comunità montana del Baldo.
L'associazione ha un marchio che include da un lato il vescovo moro, patrono di Verona e del paese, e dall'altro il riccio stilizzato, che racchiude il pregiato marrone. Appare sui cartoncini che vengono acclusi ai sacchetti di marroni commercializzati dai soci.
È all'associazione castanicoltori che si deve la stesura dei parametri di valutazione dei marroni del Baldo, fondata su una matrice di qualità che tiene conto tra l'altro del colore della buccia, della grandezza e della consistenza del frutto, ma anche del sapore, del profumo o dell'untuosità. Tutti requisiti di cui si tiene conto nel concorso del "Marron d'oro". È una gara riservata ai soci, nata come "incentivo per spingere i produttori locali a puntare sempre più sul miglioramento della qualità del prodotto", riprendendo le dichiarazioni del presidente dell'associazione, Giacomo Peretti, su "L'Arena" del 2 novembre 2000.
All'associazione castanicoltori va poi assegnata ampia parte del merito d'aver spinto verso l'attribuzione del marchio di tutela europeo per il marrone di San Zeno. Scelta opportuna. Di più: scelta felice, capace di offrire nuove prospettive alla castanicoltura del Monte Baldo. Il marrone baldense è prodotto di grande valore: chi l'ha provato sa bene quanto sia affidabile. E il marchio d'origine rende immediatamente percepibile questa qualità intrinseca al consumatore.
I marchi dop e igp - denominazione di origine protetta e indicazione geografica protetta - sono stati introdotti nella normativa europea per tutelare i prodotti tipici.
I prodotti targati dop e igp rispondono a minuziosi disciplinari di produzione, che impongono il rispetto di caratteristiche legate all'ambiente di provenienza, al tipo di ingredienti, alle modalità produttive.
La qualità, la garanzia di provenienza e la sicurezza del prodotto sono diventate del resto un vero e proprio criterio di scelta per molti consumatori. L'interesse per le denominazioni di origine è tale che un rapporto Nomisma del 2000 evidenziava come tre quinti degli intervistati sarebbe disposto a pagare di più per assicurarsi le garanzie di tutela e qualità che caratterizzano i prodotti dop e igp. Qualcuno spenderebbe anche il cinquanta per cento in più per aver garanzie di qualità. La gran parte dei consumatori sarebbe disposta a sborsare un venti per cento in più, che non è comunque poco.
Nei giorni del mercato globale, l'agricoltura di qualità, la produzione di nicchia si salvano puntando sulla tipicità e sui marchi d'origine. Sono questi gli elementi di differenziazione dei sistemi produttivi e dei processi di trasformazione. I valori che consentono al consumatore di riconoscere e apprezzare le piccole risorse che ancora fanno leva sull'artigianalità, sulla tipicità, sul territorio, sulla tradizione, sulla biodiversità.

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I criteri di valutazione
È attraverso la rigorosa "matrice di qualità" ideata dall'associazione castanicoltori del Monte Baldo che si giudica il marrone di San Zeno.

I marroni di San Zeno debbono rispondere a precisi parametri. Ogni riccio non deve contenere più di tre frutti. La pezzatura può essere variabile, ma a formare un chilo di marroni non ce ne vogliono meno di cinquanta o più di centoventi. La forma è elissoidale, con l'apice poco rilevato. La facce laterali sono in prevalenza convesse. La buccia (il termine tecnico è pericarpo) deve presentarsi lucido, sottile, di colore marron chiaro con striature più scure.
Li si valuta attraverso una "matrice di qualità". A fissarne i contenuti è stata l'associazione castanicoltori del Monte Baldo Veronese, centro propulsore della resurrezione della castanicoltura baldense.
Si controlla il colore del pericarpo. Si esamina la sbucciabilità sia della scorza che della pellicola interna, quella che copre il frutto. Un quarto parametro preso in considerazione è il grado di penetrazione nel frutto da parte della pellicola interna: l'ideale è che sia assente. Si passa poi a verificare l'"untuosità della massa cotiledonare", e detto così sembra una faccenda da premio Nobel. Ma tutto diventa più semplice se per "massa cotiledonare" si intende il frutto. A proposito: il marrone è eccellente se l'untuosità è elevata, segno d'un prodotto fresco e di grande affidabilità.
Sesto elemento di giudizio: la rugosità del frutto, che è preferibile sia del tutto assente. Poi ecco la "consistenza della massa cotiledonare": il marrone dev'essere perfettamente integro, sodo, compatto. E il frutto deve aver colore paglierino, e con questo siamo all'ottavo livello di giudizio.
Nono elemento: il sapore. "Gradevole pastoso" è lo standard ideale. E i ghiottoni che cuoceranno i marroni a casa non possono che essere d'accordo. Decimo, ultimo, ma importantissimo parametro: la pezzatura, ossia il numero di marroni che servono a fare un chilo.
Che ne dite? È un vero e proprio terzo grado quello cui vengono sottoposti i marroni tipici di San Zeno. Una garanzia in più per il consumatore.

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La compagnia de la castagna

Un sodalizio per la promozione delle tradizioni e della cucina del Monte Baldo. All'insegna della castagna e dell'antico palazzo di Cà Montagna.

Nell'agosto del 1999 a San Zeno di Montagna, per iniziativa dell'avvocato Marco Bisagno, è nata la Compagnia de la castagna dei paladini di Cà Montagna, una sorta di confraternita che ha come obiettivo - lo dice lo statuto - "la promozione di attività turistiche e culturali, favorendo lo sviluppo tra i soci e tra i cittadini di iniziative". In particolare, l'associazione mira a favorire "lo studio, la ricerca, il dibattito, la formazione e l'aggiornamento culturale nei settori del turismo, dell'arte, dell'economia, dell'agricoltura, della gastronomia e della cucina del Monte Baldo e, soprattutto, di San Zeno di Montagna". Trovando subito notevole interesse. "L'apprezzamento degli intenditori per questo frutto autunnale e per i suoi molteplici usi gastronomici - scriveva Manuela Lazzara introduce un ampio servizio dedicato alla castagna sul numero di ottobre 2000 de "La Cucina Italiana" - è testimoniato da iniziative come la recente costituzione, a San Zeno di Montagna, in provincia di Verona, di una confraternita per la valorizzazione della locale castagna di Monte Baldo".
Simbolo della Compagnia è - e non poteva essere diversamente - la castagna baldense. Ed essendo stata stabilita la sede sociale in Cà Montagna, lo storico palazzo di San Zeno, ecco che nell'intitolazione sono entrati anche i paladini di Cà Montagna. Paladini sono i soci, che vestono ampi mantelli verdi e un cappello del medesimo colore. A guidarli è il Gran Paladino, coadiuvato da un cancelliere, da un cantore e dal cerimoniere.

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Il marrone di San Zeno in cucina
Il marrone è squisito come caldarrosta, ma si presta anche ad essere utilizzato in numerosi piatti che fondono tradizione e creatività.

Il marrone tipico di San Zeno è certamente eccellente cotto sul fuoco, come caldarrosta, oppure nel forno, o ancora lessato in acqua aromatizzata con foglie di salvia: troverete sostenitori convinti dell'una o dell'altra formula. È ottimo da impiegare nei dolci: nelle case del Baldo si usa confezionare il tronchetto di castagne. Ci si fanno confetture. Ma è splendido anche quando viene utilizzato come ingrediente per l'elaborazione di piatti saporitissimi, dal classico minestrone di castagne alle più innovative creazioni degli chef della ristorazione.
Il problema è che il marrone resta legato a un periodo specifico: l'autunno, le feste natalizie al massimo. E le tecniche di cottura sono le solite: la caldarrosta, i peladèi lessati nell'acqua. Tutt'al più si adoperano per farci il minestrone. "Invece la cucina, in particolare quella dei ristoranti, sempre più alla ricerca di piatti tradizionali e di prodotti naturali - scrive, con condivisibilissimo parere, Mina Novello -, non dovrebbe trascurare le svariate possibilità che questo frutto offre nella preparazione di pietanze classiche o dal sapore innovativo". E se prendete in mano qualche rivista di gastronomia ci troverete decine e decine di ricette a base di castagne. Perché il marrone è un ingrediente ricco, capace di conferire personalità a una marea di piatti.
I ristoranti che hanno partecipato alle varie edizioni di "San Zeno castagne&vino", la rassegna allestita a San Zeno di Montagna dall'associazione I Ghiottoni e della condotta del Garda Veronese di Slow Food, hanno proposto idee quali il brodetto di ceci con canederli ai marroni, le mezzelune ripiene di castagne alla cannella, i ravioli di castagne e salsa alla lattuga oppure i ravioli di castagne alla crema di zucca ed erba salvia.
"La cucina italiana", il celebre magazine di gastronomia tricolore, nel numero dell'ottobre 2000 suggeriva di utilizzare la castagna come ingrediente della galantina di faraona, del risotto all'astice, dei garganelli saporiti, dei ravioli di castagne al frico, dei tournedos di struzzo, del rombo nella verza con mostarda, dello zabaione al miele di castagno e della mousse di marroni: un menù ricchissimo, davvero da acquolina in bocca.
La ristorazione francese arriva a proporre pithiviers de saumon aux châtaignes (piccoli paté di salmone e castagne) o terrine de lotte aux châtaignes (terrina di pescatrice alle castagne). "Il tentativo - dice Ariane Bruneton-Governatori - è chiaramente quello di fare della castagna in cucina un esaltatore di sapore, relegando quindi in secondo piano il suo ruolo di alimento completo qual è sempre stato".

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La marronata del cavalier Vivaldi

La marmellata di marroni è nata a Bardolino, sul lago di Garda. I Vivaldi la producevano utilizzando le castagne provenienti dai vicini boschi del Monte Baldo.

Pochi lo sanno, ma la marronata, la confettura di marroni che un tempo i negozianti vendevano in scatolette di cartone, oppure ad etti tagliandola da grossi pani, è nata sulla riviera veneta del lago di Garda. Utilizzando i marroni del Baldo.
Ad inventare la marronata furono Felice Vivaldi e il figlio Vincenzo. Era il 1933.
"La marronata - raccontava il cavalier Vincenzo Vivaldi- ha avuto un'origine un po' fortuita. Io e mio padre Felice leggemmo su un vecchio libro una ricetta popolare che ci incuriosì e subito ci mettemmo ad elaborarla, lavorandoci sopra, sbucciando castagne e facendo prove su prove. Poi il prodotto finalmente ci soddisfece: era riuscito bene. Ne preparammo qualche chilo e partimmo alla volta di Brescia, dove ci toccò quasi pregare una burbera signora, titolare di un negozio importante, perché facesse assaggiare la nostra invenzione ai clienti. Noi ci saremmo accontentati di ripassare dopo qualche giorno per sentire i risultati".
L'esperimento andò benissimo. "E infatti - raccontava ancora Vivaldi - ritornammo e, con nostra grande sorpresa, la signora ci ordinò immediatamente un quintale di marronata. Così fecero anche gli altri negozianti ai quali avevamo lasciato un campione. Tornammo dunque da Brescia contenti per l'esito della prova, ma anche preoccupati. Sulla nostra 509 decapottabile parlavo con mio padre, che era fasciato abbondantemente con qualche sciarpa, e, cercando nel frattempo d'indovinare la strada fra la nebbia, gli chiedevo come avremmo fatto a soddisfare le richieste".
La domanda andava soddisfatta. I Vivaldi salirono sul Monte Baldo, acquistarono altre castagne e si rimisero all'opera. Il lavoro era allora del tutto artigianale, fatto in famiglia. I marroni venivano sbucciati, puliti della pellicina interna, lessati a mo' di peladèi, macinati, mescolati con lo zucchero, bolliti come fossero polenta sino a ottenere la densità voluta. Poi l'impasto veniva rovesciato in contenitori rettangolari di varie misure. In breve fu necessario assumere personale: quasi tutte ragazze di Bardolino. "In fondo - scherzava Vincenzo Vivaldi -, credo che la nostra azienda abbia contribuito allo sviluppo demografico di Bardolino, perché le ragazze da marito venivano da noi, lavoravano giusto il tempo per farsi il corredo coi guadagni e poi si sposavano".
I Vivaldi arrivarono ad avere sessanta dipendenti e a produrre mille quintali di marronata. Se si tiene conto che la resa dei frutti è del cinquanta per cento e che metà del peso della marronata è costituita da zucchero, significa che a Bardolino si lavoravano circa mille quintali di castagne. Le confezioni erano alla portata di un po' tutte le tasche: c'erano scatolette da quaranta grammi, da ottanta, da mezzo chilo e da un chilo, più i pani da cinque chili per i negozianti. Sulle confezioni c'erano due ricci aperti a mostrare il marrone maturo e la scritta "Marmellata di marrone". "La piazza di gran lunga migliore - spiegava l'inventore della marronata - era Torino, che avevamo letteralmente invasa col nostro prodotto. Poi venivano Brescia, Cremona, Padova e via via le altre. Abbiamo continuato la produzione fin verso il 1970, ma poi, purtroppo, abbiamo dovuto smettere, perché la concorrenza ci ha distrutti".
Dicono a Bardolino che le ditte concorrenti facessero spionaggio industriale: promettevano buone somme ai dipendenti dei Vivaldi in cambio della magica ricetta, che però riuscì sempre a rimaner segreta. "Il prodotto della concorrenza - osservava Vincenzo Vivaldi - non è mai stato ottimale, perché lavoravano con qualunque castagna, senza scegliere le migliori come invece facevamo noi. Qualcuno si è servito persino della patata americana per cercare di ottenere i nostri risultati, ma c'era un problema: la marronata riusciva verdognola".
Ma possibile che i Vivaldi non abbiano pensato a tutelarsi brevettando la loro dolce invenzione? "Certo che ci abbiamo provato - diceva il cavalier Vincenzo -, ma ci hanno sempre risposto che si trattava d'un prodotto per cui non poteva esistere un brevetto". E così, stop alla produzione. Ma solo a quella industriale, ché Vincenzo Vivaldi ha continuato a lungo a confezionare piccole quantità di marronata da regalare agli amici. Sinché è volato in cielo a donare la sua ghiottoneria agli angeli.

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Le ricette della tradizione


I biscòti

Ingredienti per 4 persone
1 kg di marroni di San Zeno

Preparazione
Sul Baldo, quando si parla di biscòti ci si riferisce non già alla pasticceria, bensì a quelle che altrove son dette caldarroste: le classiche castagne cotte sulla padella forata, che in area baldense è detta barbéra. Castrate con un coltellino i marroni. Metteteli nell'apposita padella forata che porrete sulle braci, rigirando spesso le castagne durante la cottura.

I peladèi

Ingredienti per 4 persone
1 kg di marroni di San Zeno, una presa di sale grosso, un rametto di salvia, acqua

Preparazione
Con un coltellino togliete la scorza ai marroni.
Versateli in una pentola con l'acqua fredda, la salvia e il sale e metteteli a cuocere per 40 minuti circa.
Scolateli dall'acqua e serviteli caldi.

Il minestrone di marroni

Ingredienti per 4 persone
100 g di patate, 80 g di sedano, 80 g di carote, 100 g di cipolla, 100 g di verza, 50 g di fagioli, 200 g di peladèi (marroni lessati), uno spicchio d'aglio, qualche rametto di rosmarino, 2-3 croste di formaggio grana, olio extravergine di oliva del Garda, sale, pepe

Preparazione
Mondate tutte le verdure e tagliatele a pezzi non troppo grossi e più o meno uguali. Tagliate a pezzi le croste di formaggio grana. Mettete in una pentola l'olio extravergine, scaldatelo e friggetevi il rosmarino e l'aglio schiacciato senza far prendere colore. Togliete gli aromi e aggiungete le verdure. Coprire d'acqua, salate e fate cuocere a pentola scoperta schiumando quando necessario. Verso fine cottura aggiungete i peladèi (marroni pelati e cotti in acqua salata con foglie di salvia) e le croste di formaggio e regolate di sapore.
Servite in ciotole individuali e condite a piacere con dell'ottimo olio extravergine del Garda e, per chi lo desidera, pepe di mulinello.

Il castagnaccio

Ingredienti per una teglia di 22 cm
500 g di farina di castagne, 50 g di uvetta, 50 g di pinoli, 30 g di zucchero, 3 cucchiai di olio extravergine d'oliva del Garda, acqua, sale

Preparazione
Mettete a mollo l'uvetta in acqua tiepida.
A parte, versate la farina di castagne in una bacinella, aggiungetevi un pizzico di sale, lo zucchero e quindi l'acqua fino ad ottenere un impasto consistente come una pastella. Unitevi l'olio, i pinoli e l'uvetta.
Preparate una tortiera bassa, unta e infarinata e versatevi l'impasto. Livellate la superficie e cuocete in forno preriscaldato a 180° per circa 30 minuti.

Il tronchetto di castagne

Ingredienti
500 g di marroni di San Zeno, 150 g di burro, un cucchiaio di zucchero, 100 g di cioccolato fondente, un cucchiaio di cacao amaro, un bicchierino di rhum o brandy, 100 g di mandorle e nocciole pulite, zucchero a velo

Preparazione
Non c'è famiglia che non abbia la sua formula per il tronchetto di castagne. Gli ingredienti elencati e le dosi sono perciò puramente indicativi, così come l'illustrazione della ricetta.
Lessate i marroni a mo' di peladèi e quindi riduceteli a una sorta di purea.
Sciogliete a bagnomaria il cioccolato con un cucchiaio d'acqua. Incorporate il burro. Unite lo zucchero, le mandorle e le nocciole tritate (ma c'è anche chi non usa frutta secca, oppure preferisce le noci, da sole o con mandorle e nocciole), il cacao in polvere e la purea di castagne. Amalgamate per bene l'impasto bagnandolo con il rhum o con il brandy.
Versate il composto su un foglio di carta d'alluminio. Modellatelo facendogli assumere la forma di un grosso salame o di un tronchetto. Richiudete la carta d'alluminio e tenete il tronchetto in frigorifero fino al momento di servire, quando lo metterete sul piatto di portata, spolverizzandolo di zucchero a velo. Lo servirete tagliato a tranci. C'è chi lo accompagna con panna montata.

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Bibliografia

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