Conosci il tartufo del Baldo?
Angelo Peretti
Il tartufo del Monte Baldo
Quadernetti Ghiotti - I - 1998

Alla scoperta del tartufo del Baldo
Dalle vette alla riviera gardesana, dai pascoli al fondovalle atesino, dai ripidi versanti alle dolci colline dell'anfiteatro morenico: il territorio del Monte Baldo è ricco di molte affascinanti sfaccettature. E tanta ricchezza di scenari si riflette anche nelle produzioni locali, talvolta certamente da considerare "marginali" sotto il profilo quantitativo, ma comunque sempre eccellenti dal punto di vista della qualità.
Notissimi anche ben oltre i confini nazionali sono ad esempio i vini, oppure l'olio extravergine che ha riconoscimento europeo. Ma potremmo poi ricordare i marroni degli antichi castagneti, il miele, le produzioni casearie che sopravvivono nei baiti, gli asparagi delle morene di Rivoli, o ancora le molte erbe officinali di questo monte noto da secoli come "giardino botanico d'Europa". Oppure i tartufi.
I tartufi? Replicano molti con faccia stupita quando gli dici che fra il Garda e il Baldo ci sono i tuberi preziosi. Già - si risponde allora - anche i tartufi sono fra il ben di Dio di quest'isola felice.
In una recente relazione di alcuni dei tecnici del Servizio forestale regionale si scrive, a proposito dei tartufi del Veneto, che "la specie più diffusa è il Tuber aestivum che si rinviene dal Monte Baldo alle frastagliate propaggini dei Monti Lessini". Aggiungendo che le colline gardesane e le basse pendici del Baldo sono interessate anche dalla presenza del Tuber melanosporum che, "sebbene non molto abbondante e piuttosto localizzato, riveste una certa importanza in quanto rappresenta la specie più pregiata" (Mantovani et al. 1995: 33-34).
Molti magari resteranno stupiti a sapere che il tartufo nero sul Baldo e sul Garda c'è ed è di gran pregio. Ma questa sua presenza è cosa nota da secoli a cuochi, gastronomi e naturalisti. E da molto tempo - come scrive Virgilio Vezzola per il Garda bresciano, ma con un'affermazione che può essere tranquillamente estesa anche alla riviera veneta e al Baldo - "famiglie con tradizione tartufigena sono vissute nei vari comuni che costeggiano il lago".
Nelle pagine seguenti di questa "storia" del tartufo del Baldo-Garda diamo qualche ragguaglio.
Sommario
Clicca sul titolo del capitolo o del volumetto

Il tartufo del Monte Baldo
Alla scoperta del tartufo del Baldo
Tartufi come companatico
Buona borsa e valorosi destrieri
Delizie per l'imperatore
Gli odorosi ed eccitanti tartufi

Bibliografia

Piccola antologia del tartufo
Tartufi in cucina cinque secoli fa
L'onesto piacere e la buona salute
A fine cena col vino e col pepe
Per i vecchi che hanno belle mogli
Quell'apprezzato imperfetto tartuofano
Nell'armadio dei vestiti
Bibliografia

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Tartufi come companatico


La più antica testimonianza letteraria della presenza del tartufo sulle montagne attorno al lago di Garda è probabilmente quella cinquecentesca del salodiano Bongiani Grattarolo.
Nella sua "Historia della Riviera di Salò", data alle stampe a Brescia nel 1599 "con licenza dei Superiori", il Grattarolo tesse le lodi della regione gardesana.
Per rafforzare le proprie considerazioni giunge al punto di dire che da queste parti le carestie non si fanno sentire. Tanto che gli stessi montanari conducono una vita in qualche modo agiata. Prova ne sia che, anche se i monti non sono molto produttivi, la gente del posto mangia comunque pane migliore di quello di cui ci si nutre nelle fertili campagne romane.
Per di più sulle montagne gardesane non man-ca mai il companatico: ricotte, formaggi e carne salata sono alla portata anche dei più poveri, che possono arricchire il proprio vitto raccogliendo inoltre tartufi e funghi "delicatissimi". Quasi un mangiare da re, insomma, per i poveri montanari locali.
Ma leggiamo direttamente le parole del Grattarolo: "E per lo più i contadini delle sue Montagne così sterili, mangiano miglior pane, che non fanno quelli delle Campagne di Roma così fertili. Oltra che non mancano quasi mai di companatichi honesti. Ricotte, Casi, e carne almeno salata per poveri che siano. E trovano tartuffi, e funghi di molte sorti delicatissimi" (Grattarolo 1599: 38).

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Buona borsa e valorosi destrieri

La testimonianza dell'uso nelle cucine signorili rinascimentali dei tartufi provenienti dai monti e dai colli che circondano il lago di Garda ci viene dal ricettario di uno dei più grandi cuochi della storia della gastronomia italiana.
Bartolomeo Stefani, "cuoco bolognese", come s'autodefiniva, prestava il proprio servizio alla corte mantovana dei Gonzaga quando, nel 1662, diede alle stampe il suo celebre volume su "L'arte di ben cucinare".
Stefani aveva una convinzione: quella che stupire a tavola non fosse poi così difficile per chi poteva disporre di un bel po' di quattrini. Scrivendo infatti certi "avvertimenti alli signori lettori", ebbe infatti a osservare che magari qualcuno avrebbe avuto di che stupirsi del fatto che nelle sue ricette lui consigliasse ad esempio asparagi e piselli in gennaio e in febbraio, prodotti "che à prima vista paiono contro stagione". Ma questi critici dovevano mettersi in testa, a sentire l'illustre cuoco, che "chi hà valorosi destrieri, e buona borsa, in ogni stagione trovarà tutte quelle cose, che io loro propongo, e ne' medesimi tempi, che ne parlo". Insomma, bastava avere delle borse ben fornite di soldi e dei validi corrieri e da qualche parte si trovavano sempre rare delizie e invitanti primizie.
Se dunque un cuoco del genere non si poneva il problema d'andare a reperire i prodotti migliori anche ben lontano dalla corte mantovana, doveva ritenere davvero squisiti i tartufi dell'area attorno al Garda, visto che li consigliava decisamente.
Scrive infatti nel suo ricettario: "Ne' tempi freddi si gode la Tartuffola delle pianure, che si può conservare in oglio per i tempi caldi, ne' quali ancora se ne può havere di fresca, estratta da monti, e colli, & specie se ne ritrova vicino alla Volta, e Capriana, Terre del Serenissimo di Mantova" (Stefani 1662: 142-143).
Eccellenti i tartufi dei monti e dei colli benacensi, insomma, secondo il grande Stefani. Con qualche predilezione per quelli delle colline moreniche di Volta Mantovana e di Cavriana, nei possedimenti gonzagheschi.

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Delizie per l'imperatore

Del tartufo del Baldo, e più precisamente di quello di Caprino, si parla in uno scritto della fine del Settecento.
Si deve a Giuseppe Franco Viviani la recente pubblicazione di alcune relazioni, conservate presso l'Accademia d'Agricoltura Scienze e Lettere di Verona, riguardanti la situazione del territorio veronese negli ultimi anni della Repubblica di Venezia.
In particolare ci è preziosa la relazione indirizzata all'Accademia il 3 agosto 1791 dal nobile Agostino Pignolati a proposito di Caprino, dato che contiene interessanti notizie riguardanti il tartufo del Monte Baldo.
Vi si legge infatti che dagli "ubertosi" rilievi collinari della zona si spedivano tartufi alla corte imperiale tedesca addirittura per cinque o sei mesi l'anno. Segno d'una produzione indubbiamente d'un qualche rilievo sia quantitativo che qualitativo.
Ecco qui di seguito il passo che c'interessa.
"Le colline egualmente ubertose di grani sono anch'esse spezialmente ove la terra, è bell'armenica come lo è tutta la campagna, oppura ove è argillosa, non tanto però ove è cretacea, ma tutte essendo di viti, di pochi gelsi, ed ulivi impiantate sono dall'industria, e notabile dispendio a tal segno rese ubertose, che puossi mettere in questione, se più renda la campagna, o le colline in proporzione di terreno, ed oltrecciò sono anco arricchite de' preziosi tartuffi, li quali a preferenza d'ogni altro luogo e vicino e lontano sono ad onta di esorbitante prezzo ricercati, e spediti in lontane regione, e la imperial mensa di Germania per cinque, o sei mesi dell'anno viene ogni giorno imbandita di questo prelibatissimo frutto di Caprino" (Viviani 1994: 107).

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Gli odorosi ed eccitanti tartufi

Giuseppe Solitro compose sul finire dell'Ottocento uno dei testi fondamentali per la conoscenza dell'area gardesana: è il "Benaco", un volume edito a Salò nel 1897.
Pressoché tutti gli aspetti della regione gardesana sono presi in considerazione: dalle acque ai monti, dalla flora alla fauna, dalla storia all'industria.
Il Monte Baldo viene descritto come zona di "pingui praterie, nelle quali sgambettano i vitelli e pascolano gravi le mucche dalle pingui mammelle" (Solitro 1897: 12).
Un capitolo intero è dedicato all'alloro, agli alberi da frutto, ai funghi, ai boschi ed agli orti. Ed è proprio in questo capitolo che appare anche il tartufo. Quello stesso tartufo che i cercatori del luogo in quegli anni, come ricorda un esperto come Virgilio Vezzola, "spedivano con la barca a Verona ed a Riva dove generalmente proseguivano per Trento", mentre "piccoli quantitativi venivano consumati dalle famiglie benestanti del posto". E una qualche richiesta proveniva anche dai primi, prestigiosi alberghi rivieraschi, come il Grand Hotel di Gardone Riviera (Vezzola 1995: 4).
Prima dei tartufi, comunque, il Solitro tratta dei funghi, illustrando "i principali mangerecci". Cita ad esempio il "pratajuolo", l'ovolo, "il spinarolo", il cicciolo, la legorzela, il brigoldo ed altri ancora. Poi passa allo squisito tubero delle montagne attorno al Garda. Scrivendo che "nè mancano nella regione odorosi ed eccitanti tartufi bianchi e neri, delizia delle mense signorili" (Solitro 1897: 262).

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Bibliografia

B. GRATTAROLO, Historia della Riviera di Salò, Brescia 1599
R. MANTOVANI - M. BERTO - E. PIVA, Interventi ed esperienze della Regione Veneto nel settore del tartufo e della tartuficoltura, in Il tartufo nel Parco Alto Garda bresciano. Atti del Convegno, Roè Volciano 1995
G. SOLITRO, Benaco, Salò 1897
B. STEFANI, L'arte di ben cucinare, et instruire i men periti in questa lodevole professione, Mantova 1662
V. VEZZOLA, Ricerche sulle specie di tuber presenti nel territorio della Comunità montana Parco Alto Garda bresciano, in Il tartufo nel Parco Alto Garda bresciano. Atti del Convegno, Roè Volciano 1995
G. F. VIVIANI, Il territorio di Caprino alla fine del sec. XVIII (2° parte) in Il Baldo n. 5, Centro Turistico Giovanile, Caprino Veronese 1994

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Angelo Peretti
Piccola antologia del tartufo
Tra Quattrocento e Cinquecento

Quadernetti Ghiotti - III - 1999

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Tartufi in cucina cinque secoli fa
Il tartufo è il grande incompreso non solo della cucina italiana medievale, ma anche di buona parte della gastronomia cinquecentesca, per poi invece trionfare definitivamente nel Seicento. Prima era tutt'al più servito a fine cena come stimolante. Ma lo si maltrattava cuocendolo sotto la cenere.
Del resto cosa fossero quegli strani "tuberi" neri non lo sapeva nessuno. Anche se i botanici erano convinti che ci fosse una qualche connessione fra le piogge autunnali, i fulmini e il tartufo. Ed è probabilmente proprio quest'associazione con la saetta e col tuono a far sì che col termine di tartufola l'italiano figurato dell'epoca indicasse la bastonata, la percossa. Ce ne dà prova Teofilo Folengo nella Zanitonella, quando nel corso d'un alterco con Tonello fa dire a Bigolino, in latino maccheronico: Si possum supra ganassam hanc dare tartufolam... guarda: tuus hic, tuus iste. E cioè, grosso modo: Ti do una tartufola sulla ganascia... guarda: prendi questa, e quest'altra.
Quando poi nel Cinquecento si son cercate formule gastronomiche da applicare al tartufo, ecco che il povero fungo ipogeo s'è trovato a esser sbucciato, cotto nel vino o nel brodo (grasso oltretutto) e poi condito con sale, pepe, olio e succo d'aranci. Anche se i grandi cuochi cominciavano già a utilizzarlo per insaporire e guarnire minestre e pasticci.
Ovviamente si continuava a prepararlo anche sotto la cenere del focolare, ma in questo caso, a sentire il parere del medico-botanico Castor Durante da Gualdo, si poteva benissimo ricorrere alle castagne come succedaneo del tartufo. Il che non rende merito né al tartufo né alla castagna.
Al giorno d'oggi, per fortuna, sua maestà il tartufo è tenuto in ben altra considerazione. E così pure la castagna, che anzi col tartufo ci può andare a nozze. È infatti da condividere il suggerimento dato da Giorgio Gioco, maestro della cucina veronese, nel corso d'una recente intervista radiofonica: perché non provare una tacchinella al forno farcita di marroni del Baldo e poi guarnita di tartufo nero, anche quello proveniente dai boschi baldensi?

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L'onesto piacere e la buona salute

Il tartufo si cuoce nella cenere e si serve caldo, ben cosparso di pepe, dopo un piatto di carne. È questa la prescrizione gastronomica di Bartolomeo Sacchi, detto Platina, nel suo celebre trattato sul Piacere onesto e la buona salute, dato alle stampe nella seconda metà del Quattrocento. Il titolo dice chiaramente che l'opera, oltre alle ricette di corte del tempo, contiene annotazioni morali e suggerimenti sulla qualità del vivere. E nel capitolo sul tartufo ne abbiamo la riprova. È un eccitante della lussuria e i ricchi se ne servono durante i banchetti per prepararsi ai piaceri del talamo, avverte il Platina, il che è da considerar lodevole solo se fatto a scopo di procreare.
Quanto alle capacità nutrizionali del tartufo, il Platina chiama in causa il parere autorevole di Galeno, il medico più famoso dell'antichità.
Il testo originale è in latino. L'estratto che ne presentiamo qui di seguito è nella bella traduzione di Emilio Faccioli, pubblicata da Einaudi: "I tartufi, che opportunamente chiameremo callosità del terreno, non sono sostenuti da fibre o filamenti di sorta, essendo circondati di terra da ogni parte. (...) Nascono al cadere delle piogge, quando i tuoni sono più frequenti, e non durano più di un anno. Sono considerati più teneri quelli primaverili. (...) Si cuociono nella cenere calda dopo averli lavati con il vino; quando poi siano cotti, si puliscono e si cospargono di pepe, servendoli ancora caldi ai commensali dopo un piatto di carne. È questo un cibo molto nutriente, come crede Galeno, ed è un eccitante della lussuria. Perciò viene servito spesso nei pruriginosi banchetti di uomini ricchi e raffinatissimi che desiderano essere meglio preparati ai piaceri di Venere. Il che, se è fatto al fine di procreare, è cosa lodevole, mentre se si fa a scopo di libidine - come sono soliti fare per lo più gli oziosi e gl'intemperanti - è quanto mai detestabile".

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A fine cena col vino e col pepe

Nato a Mantova nella seconda metà del Quattrocento, Giovanni Battista Fiera, teologo, medico e poeta è l'autore di uno dei primi libri a stampa in tema di dietetica: la Coena, stampata a Roma nel 1490. Il medico mantovano si mostra in particolare entusiasta dei tartufi. E i migliori sarebbero quelli tondi nati durante le tempeste e gli acquazzoni, come suggeriva Plinio nell'antichità, dicendo che i tartufi crescono soprattutto in autunno dopo piogge abbondanti e tuoni.
Ecco il testo del Fiera nella recente pregevole versione di Maria Grazia Fiorini Galassi: "Cuochi, portate i tartufi bianchi terrei grondanti succo acqueo, se avete fame siano vostri quelli neri. Siano presentati come ultimi piatti nella nostra cena, affinché Venere stessa si unisca nei nostri divertimenti. Se sono belli e tondi è bene, le tempeste di vento e le piogge li generano, io berrò vino di Chio e pepe. Così allo stomaco sarà facile digerire, né la vescica si gonfia né l'intestino fa male. Chi ha la testa pesante e chiusa, e gli arti deboli, s'allontani da questo cibo, soltanto a questi la cena sconsiglia i tartufi".

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Per i vecchi che hanno belle mogli

Del tartufo tratta il medico padovano Michele Savonarola nel Libreto de tutte le cose che se manzano, edito in quattro edizioni fra il 1508 e il 1553 e poi rielaborato nel 1575 dal medico bresciano Bartolomeo Boldo.
Ai tartufi, o meglio, alle tartufole, come le chiama, il Savonarola dedica un lungo capitolo, soffermandosi tuttavia soprattutto sulla per noi oggi astrusa classificazione ippocratica di questa radice. Tema che adesso non interessa più a nessuno, come annota Massimo Alberini commentando una recente ristampa anastatica del volume.
Osserva ancora appropriatamente Alberini che il medico dà ricette in base alle quali si desume che quei misteriosi funghi ipogei non erano considerati nulla di eccezionale, e venivano maltrattati cuocendoli con spezie, addirittura a lesso, nell'acqua o nel brodo, e condendoli poi con olio, sale e pipere. Meno distruttiva - rimarrà nei secoli - la cottura sotto la cenere.
Il Boldo nella sua riedizione tardo cinquecentesca farà poi un passo avanti verso le nostre abitudini, proponendo i tartufi come condimento per certi cibi insipidi e acquosi al gusto. Sottolinea peraltro il Savonarola che il tartufo è cibo da vecchi che hanno belle mogli, sottintendendo straordinarie virtù rigeneratrici del vigore sessuale.
Del testo del Savonarola diamo un breve estratto, che abbiamo - del tutto arbitrariamente - provveduto a "tradurre" in lingua corrente dal difficile italiano dell'epoca. Conservando la dizione femminile di tartufola in luogo del nostro maschile tartufo: "Le tartufole. (...) Si devono mangiare dopo i pasti, ma pesano sullo stomaco, rendono difficile la digestione e danno nutrimento grossolano. Questo perché sembrano aver molto del terreo. Le più leggere sono ad ogni modo le migliori. Ma descriverò adesso alcuni dei loro nocumenti e la maniera di correggerli. In primo luogo siano ben scorzate. Quindi vanno tagliate a pezzi e lessate e successivamente condite con pepe e sale. Si possono anche condire con olio, pepe e sale, come si fa con i funghi. Un'altra possibilità è quella di cuocerle nel vino condite come si è detto e in questa maniera daranno un nutrimento sì grossolano, ma non cattivo. Taluni le mangiano cotte sotto la cenere e poi condite con olio, sale e pepe. Altri le cuociono nel brodo di carne grassa e poi le condiscono con pepe e sale, ma così sono cattive. E poi aggiungerò che sono un pasto da vecchi che hanno belle mogli. Ma sappi che a parte i nocumenti di cui ho detto, fanno anche urinare con gran fatica"..

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Quell'apprezzato imperfetto tartuofano
Costanzo Felici si laureò a Padova in arte e medicina nel 1525. È autore della lunga "lettera" Del'insalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo del'huomo, un vero e proprio trattato sulle verdure che si conclude citando il tartuofano. Apprezzatissimo sulle tavole nobiliari, viene sempre cotto nelle braci, ma è anche ingrediente di minestre, guazzetti e pasticci.
Ecco che cosa dice il Felici: Il tartuofano, tuber de' Latini, per simigliare et essere posto nel numero delle radice e per essere piante imperfetta come il fongo e per essere solito a mangiarsi, ancora lui merita il suo luoco qui fra gl'altri, perché è tenuto cibo, così crudo come cotto, molto apprezzato nelle tavole de' grandi e nei conviti, il quale il più delle volte vien cotto sotto le brage et è molto in uso per golosi e libidinosi dai quali e da altri ancora vien desiderato con il suo condimento, cioè sale e pepe, benché ancora varie menestrine e guazzetti e pasticci di essi se ne sogliono fare da' cuochi et appresentarli nelle tavole. Se ne trovano de negri e de bianchicci e berretini e poi seconda la natura de' paesi variano che uno gli produce meglio del'altro.

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Nell'armadio dei vestiti

Figlio d'un celebre giureconsulto, Castor Durante da Gualdo divenne botanico e medico apprezzato e conosciuto. Nel 1565 pubblicò il volume De bonitate et vitio alimentorum, uscito poi in italiano nel 1586 come Il tesoro della sanità, vero e proprio dettagliatissimo trattato di dietetica cinquecentesca.
Ovviamente nel Tesoro trova menzione anche il tartufo. Il botanico del Cinquecento trova migliori i neri dei bianchi. Con qualche dettaglio davvero bizzarro. Ad esempio i tartufi neri sarebbero maschi e quelli bianchi femmine. Sanno di carne, e per questo possono stimolare gli appetiti venerei. E chi vuole può anche metterli nelle cassapanche per dare ai vestiti il loro non ingrato odore.
E in cucina? Il maltrattamento è sistematico: vien suggerito ci cuocerli in teglia con sale, pepe, olio e succo d'arancio. Oppure, dopo averli lavati col vino, si cuociono sotto la cenere e poi si puliscono e si ricuociono in teglia come s'è detto. E c'è una terza possibilità: farli bollire nel brodo grasso insieme con la cannella. Un disastro.
Ecco comunque di seguito il testo di Castor Durante da Gualdo.
Tartufi.
Scelta. I maschi, cioè i negri, sono meglior dei bianchi, che sono femine, e i grossi parimente e grandi, con la scorza granellosa e dura, molto freschi, non putridi e di buono odore.
Giovamenti. Si mangiano cotti e crudi, sono soavi al gusto, perché hanno odore di carne, eccitano gli appetiti venerei e moltiplicano lo sperma, generano grosso nutrimento, ma non cattivo; sono buon succedaneo dei tartufi le castagne cotte sotto la cenere, poi monde, e cotte in un tegame con pepe, olio e succo di aranci, con un poco di sale. Messi i tartufi nelle casse danno alle vesti non ingrato odore. (...)
Rimedi. Si lavino con vino, si cuocano sotto la cenere, poi mondi si ricuocano con molto olio, pepe e sale e succo di limoni o d'aranci, ovvero si faccino bollire in brodi grassi con cannella, e appresso si beva buon vino e puro. Ma bisogna mangiarli in fin del pasto.

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Bibliografia

M. ALBERINI, Breve storia di Michele Savonarola seguita da un compendio del suo Libreto de tutte le cosse che se manzano, Padova 1991
E. FACCIOLI, L'arte della cucina in Italia, Torino 1987
C. FELICI, Del'insalata e piante che in qualunque modo vengono per cibo del'huomo, a cura di G. ARBIZZONI, Urbino 1986
G. B. FIERA, Coena. Delle virtù delle erbe e quella parte dell'Arte medica che consiste nella regola del vitto, a cura di M. G. FIORINI GALASSI, Mantova 1992
T. FOLENGO, Macaronee minori. Zanitonella-Moscheide-Epigrammi, a cura di M. ZAGGIA, Torino 1987
C. DURANTE DA GUALDO, Il tesoro della sanità, a cura di E. CAMILLO, Milano 1982
B. PLATINA, Il piacere onesto e la buona salute, a cura di E. FACCIOLI, Torino 1985
M. SAVONAROLA, Libreto de tutte le cose che se manzano comunamente, ristampa anastatica, Padova 1991

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I 'Quadernetti ghiotti' dedicati al tartufo sono stati realizzati dall'associazione I Ghiottoni nell'ambito della prima e della seconda rassegna gastronomica 'Conosci il tartufo del Baldo?', con il contributo della Comunità montana del Baldo e in collaborazione con la condotta del Garda Veronese di Slow Food

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