El chisöl per i pòri morti
Indagando su un'antica usanza rituale fra
la pianura mantovana, la provincia bresciana
e l'Alto Garda veronese
di Angelo Peretti
Domandate ai vecchi di Brenzone che cosa
sia il chisöl. Vi risponderanno che era una
questua. La facevano da ragazzini, in novembre,
andando a elemosinar castagne di casa in
casa.
Provate a far la stessa domanda a qualche
anziano di Cassone, in terra malcesinese,
poco più a nord. Vi dirà che il chisöl era
un pane piccolo d'una volta e che ora non
s'usa più.
Andate a chieder notizie nel Mantovano. Là
il chisöl - o la chisöla, al femminile -
è una schiacciata, resa ricca coi ciccioli
di maiale, oppure con la cipolla o con l'uva
passa.
Spostatevi nel Bresciano. Vi faranno assaggiare
il loro chisöl, che è una focaccia dolce,
zuccherata. Qualcuno vi racconterà anche
un proverbio: "Per sant'Antóne chisöler,
chi no fa la turta ghè burla zó 'l solér".
Si riferisce a una ritualità legata alla
festa di sant'Antonio abate, il 17 di gennaio.
Dice Attilio Mazza: "Era tradizione
nella Bassa bresciana che, per il giorno
di sant'Antonio, le massaie preparassero
èl chisöl, una focaccia. L'antica consuetudine
assunse significato propiziatorio affinché
non crollasse il solaio carico di neve".
Ma forse non è proprio così. Almeno non del
tutto. E tra il chisöl brensonàl, quello
casonér, quello mantovano e quello bresciano
potrebbe esserci un legame molto stretto,
anche se a prima vista non parrebbe.
Forse la vera spiegazione del rito del chisöl
la si può trovare, quasi incredibilmente,
proprio a Brenzone. Qui - s'è visto - il
chisöl non era qualcosa da mangiare, bensì
una curiosa usanza novembrina. Ne ha parlato
"El Gremal" nel '95. Lo spunto
veniva da una breve composizione di una (allora)
allieva di seconda elementare, Marta Sartori,
che, dovendo indagare sulle tradizioni dei
nonni, ha scritto così: "Nei giorni
dei morti, quando i nonni erano bambini,
nei nostri paesi c'era questa usanza: i bambini
più poveri andavano, con un sacchetto, dalle
famiglie che possedevano tanti castagni a
chiedere 'el chissöl per i pori morti', cioè
un po' di castagne". La notizia raccolta
dall'alunna venne sottoposta al vaglio dei
compagni, che a loro volta intervistarono
i familiari. Se ne ricavò che "quasi
tutti i nonni conoscono questa usanza".
Pochi invece i genitori che avessero fatto
la questua: la tradizione si stava perdendo.
Cosa c'entra la questua brenzonese con le
focacce di Cassone e dei lombardi? C'entra.
Ma ci arriviamo un po' per volta, aggiungendo
un nuovo indizio.
L'ulteriore tassello m'è stato fornito dall'ex
sindaco di Brenzone, Dennis Palminio, che
ha sentito a proposito del chisöl qualche
anziano del luogo. Ricevendo notizia che
la questua non era riferita sempre e solo
alle castagne, ma anche ad altri frutti e
altre vivande. Sempre e comunque la si domandava
"per i poveri morti". C'era dunque
un qualche nesso fra il chisöl di Brenzone
e il ricordo dei defunti.
Durante la questua si chiedevano in dono
in particolare le castagne. E anche questo
non è un caso. Le castagne erano cibo rituale
e simbolico: il loro frutto esce dalla scorza
così come il corpo resuscita dal sepolcro.
A Bardolino il giorno dei morti nelle famiglie
di campagna ci si dividevano i compiti: i
più andavano alle funzioni sul cimitero,
ma qualcuno restava a casa a cuocere le castagne,
che fossero pronte al ritorno. Guai a farle
mancare. Erano il pane dei morti. A San Zeno
di Montagna il prezzo dei marroni restava
alto sino a fine ottobre, per poi calare
di colpo. Come può una data fare da limite
alla fissazione del prezzo d'un prodotto
alimentare, se quella scadenza non carica
di significato l'alimento? Pensate al pandoro:
dopo Natale è ottimo comunque, ma in bottega
non se ne vende più neanche una scatola,
se non riducendo brutalmente il prezzo. Così
era per i marroni il giorno dei morti: passata
la ricorrenza, crollava il prezzo.
Il chisöl era dunque il rito con cui i ragazzini
di Brenzone andavano di casa in casa a domandare
il pane dei morti. Così come altrove il chisöl
era pane davvero. Pane rituale, da portare
in tavola per le ricorrenze dei defunti.
Era pane vero e proprio quello di Cassone.
È pane arricchito di carne o verdure quello
mantovano. È pane addolcito quello bresciano.
Si dirà: ma il proverbio di Brescia smentisce
questa tesi. Il chisöl lo si preparava per
la festa di sant'Antonio Abate. Che c'entra
lui coi riti dei defunti? C'entra.
Molte festività cristiane hanno sostituito,
sovrapponendovisi, antichi riti pagani. Il
Natale in primis. Pensateci: nei Vangeli
non si trova traccia della data di nascita
di Cristo. Ed è comunque improbabile - dicono
gli storici - che si trattasse della fine
di dicembre. Ma a Roma l'imperatore Aureliano
aveva fissato al 25 dicembre la festa del
Sole invitto, celebrato con le corse dei
carri, raffigurazione del carro solare. I
primi cristiani hanno dunque sovrapposto
al sole dei pagani quello della luce di Cristo:
"Tu sole vivo per me sei Signore, vita
e calore diffondi nel cuor" si canta
ancora oggi nelle chiese.
Anche la festività di sant'Antonio abate
è una sovrapposizione d'un culto pagano:
quello di Lug, dio celtico della morte e
della resurrezione. Il simbolo di Lug era
il cinghiale, e sant'Antonio è sempre raffigurato
con un maialino al fianco. La stessa campanella
di sant'Antonio è simbolo della morte e della
resurrezione. "Come è avvenuto spesso
nel cristianesimo primitivo, i Celti convertiti
hanno trasferito probabilmente gli attribuiti
di Lug su sant'Antonio" osserva Alfredo
Cattabiani. Le stesse reliquie di sant'Antonio
sono giunte dalla terra dei Celti, la Francia.
Ancora il chisöl come pane dei morti, dunque.
Anche nella tradizione bresciana. In forma
diversa rispetto a Brenzone. Ma con lo stesso
nome. Il che spinge a pensare che il chisöl
sia il rito in sé, e non tanto ciò in cui
si materializza. Rito comunque alimentare.
Rito del pane dei morti: castagne o pani
schiacciati che fossero. Ed a Brenzone se
ne trovano gli indizi più autentici.
Perché proprio a Brenzone? Perché il suo
lungo isolamento ha permesso di conservare
traccia di usanze arcaiche, altrove dissoltesi.
Giudicato "domicilio aspro e orribile",
Brenzone è rimasto praticamente privo di
strade sino alla fine degli anni Venti. Simili
condizioni potrebbero aver consentito che
lì e solo lì sopravvivessero tradizioni alimentari
vetuste, non contaminate da altri usi alimentari
o dalla cucina borghese ottocentesca. Non
a caso proprio a Brenzone si trova la ricetta
originaria del sisàm. E solo qui resiste
un piatto come la polenta carbonéra, probabile
indicatrice delle migrazioni che portarono
alla colonizzazione di quest'impervia porzione
del Baldo attraverso le valli lombarde ed
il lago. Brenzone si mostra un prezioso laboratorio
di ricerca sulle tradizioni gastronomiche
del territorio veneto e lombardo.
Resta da soddisfare, credo, una curiosità:
come si fa il chisöl in uso fra i Bresciani
e i Mantovani. Gino Brunetti dice che il
chisöl mantovano "era fatto con farina
bianca, acqua, sale ed un poco di bicarbonato":
il tutto veniva impastato e poi cotto col
testo, ossia una teglia particolare per le
torte o anche, più anticamente, un semplice
disco di pietra o di terracotta per cuocerci,
schiacciato, il pane "sulla madre del
fuoco". "È fatto di farina bianca,
acqua, sale e un poco di bicarbonato"
concorda Franco Marenghi: l'impasto viene
messo a cuocere sotto la cenere del camino
in una teglia con coperchio. Lo si mangiava
in sostituzione del pane. Doveva essere grosso
modo così anche il chisöl che si usava a
Cassone. Quello che, secondo Giuseppe Trimeloni,
era "una particolare forma di pane piccoletta,
tondeggiante e schiacciata". Lo stesso
etimo riporta alla forma schiacciata, schisà.
"Che la chisöla incorpori l'uva fresca
o secca, la cipolla o i ciccioli di maiale,
poco importa: il carattere dell'impasto è
sempre lo stesso", attesta Stefano Scansani
parlando della tradizione mantovana. Lievito,
farina bianca, acqua, sale e sugna, ossia
greppole di maiale, sono anche gl'ingredienti
del chisöl bresciano citato da Camillo Pellizzari.
Secondo Marino Marini fra i componenti figurano
anche zucchero, uova, uvetta e scorzetta
di limone. E Marcello Zane dice che sul Garda
lombardo il tegame di cottura veniva unto
con l'olio e "spolverato di pan trito,
veniva riempito da un composto formato da
uova sbattute con zucchero, cui era stata
aggiunta farina bianca, ancora dell'olio
di oliva, sale e poco latte".
Questo è il chisöl. Sperando non se ne perdano
la tradizione e la memoria.
Angelo Peretti
Bibliografia
Brunetti G. (a cura), "Cucina mantovana
di principi e di popolo", Guidizzolo
1991
Cattabiani A., "Calendario", Milano
1994
Consolini I. - Peretti A. - Tagliaferro F.,
"La cucina tradizionale del lago di
Garda. Parte II", Torri del Benaco 1997
Consolini I. - Peretti A. - Tagliaferro F.,
"La cucina tradizionale del lago di
Garda. Parte III", Torri del Benaco
1998
Devoti S., "Brenzone definita nel 1419
'domicilio aspro e orribile'", in "El
Gremal", Brenzone 1997
Renoglio E., "Tu sole vivo" in
Diocesi di Verona, "Preghiamo cantando",
Bergamo 1993
Marenghi F., "La cucina mantovana ieri
e oggi", Roma 1996
Marini F., "La cucina bresciana",
Padova 1993
Pellizzari C. (a cura), "La cucina bresciana",
Bornato 1976
Peretti A., "Il sisàm: le probabili
origini di un piatto della tradizione gardesana",
in "Il Baldo" n. 7, Caprino Veronese
1996
Peretti A., "Una minestra e tre polente",
in "Il Baldo" n. 5, Caprino Veronese
1994
Sartori M., "Intervista alla... tradizione",
in "El Gremal", Brenzone 1995
Scansani S., "Il mangiare cattivo",
Mantova 1997
Trimeloni G., "Dizionario etimologico
del dialetto di Malcesine", Malcesine
1995
Zane M., "L'olio" in Zuanelli M.
- Pellegrini E., "La cucina del Lago
di Garda", Salò 1994
Questo articolo è stato pubblicato sul numero
di dicembre 2000 della rivista El Gremal,
edita a Brenzone dal Centro turistico giovanile
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El chisöl per i pòri morti
Il gambero nell'Ultima Cena di Santa Cristina
a Ceredello
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Il gambero nell'Ultima Cena di Santa Cristina
a Ceredello
di Angelo Peretti
Percorrendo la strada che da Caprino conduce
ad Affi, ecco che si incontra ad un tratto
la contrada di Ceredello. L'attenzione di
chi scelga di farvi breve sosta viene attratta
dalla chiesetta che s'affaccia sulla piana
di Pesina. È dedicata a Santa Cristina, forse
per chiederne la protezione dal morso delle
serpi. Oppure per esorcizzare, col nome della
martire distruttrice degli idoli, preesistenti
segni di culti pagani, come ipotizza, pur
con prudenza, Giuliano Sala in un suo libro
dedicato alla piccola chiesa (1).
Scrivendo di questo tempietto campestre,
Sala s'è soffermato a trattare anche di un'Ultima
cena che vi si trova dipinta sulla parete
che guarda a meridione. E di quell'affresco,
attribuito al XIV secolo, vien definita "singolare"
una particolarità: sulla tavola imbandita
figura il gambero. "Al momento ci sovviene
solo in un'Ultima cena presso la chiesa di
S. Zeno Maggiore a Verona" aggiunge
Sala, cercando analogie con una tal raffigurazione.
E tentando di interpretare quella presenza,
ne propone una lettura simbolica, dicendo
che i gamberi potrebbero alludere alla resurrezione
"così come il pesce è simbolo del banchetto
eucaristico". Ed è proprio sulla raffigurazione
del gambero sulla mensa dipinta in Santa
Cristina e sulla simbologia prospettata che
vorremmo soffermarci.
Vorremmo tentare infatti di proporre per
quest'affresco un'altra possibile chiave
di lettura, magari complementare a quella
offerta da Giuliano Sala. E questo perché
condividiamo il parere di Massimo Montanari
quando scrive che "le numerosissime
raffigurazioni medievali dell'episodio evangelico
dell'Ultima Cena, legate alla cultura e all'esperienza
dei singoli autori pur nel rispetto di certi
canoni formali simbolicamente connotati,
sono una preziosa miniera d'informazioni
sugli usi conviviali e sulle loro modificazioni
nel tempo" (2). E dunque anche una lettura
per così dire materiale, e quindi non solo
simbolica, parrebbe possibile suggerire per
l'affresco di Ceredello.
Se infatti l'interpretazione simbolica di
taluni elementi alimentari é perfettamente
sostenibile, vi è peraltro anche da sottolineare
come la presenza del gambero su di un affresco
tardo medievale, raffigurante una tavola
imbandita, non sembri affatto anomala. Il
gambero d'acqua dolce doveva essere infatti
un genere di consumo abbastanza familiare
per la cultura gastronomica dell'epoca. Non
a caso una delle immagini del celebre "Theatrum
Sanitatis" trecentesco (3) mostra un
signore e la sua dama intenti a pranzare
all'aperto, poco fuori della porta d'un palazzo,
seduti ad una mensa su cui troneggia un gran
piatto di questi crostacei. E nelle cronache
lasciateci da Bonvesin da la Riva, sono indicati
come il cibo allora prediletto in Quaresima
dai milanesi (4). Così pure sono abbondanti
le citazioni negli a dire il vero non moltissimi
ricettari tre-quattrocenteschi conosciuti
(5), in cui si scrive di gamberi lessati
e conditi con aceto o agresto, oppure utilizzati
come base per altre elaborazioni.
C'è da aggiungere che la presenza del gambero
nelle Ultime Cene medievali parrebbe essere,
se non frequentissima, almeno non insolita.
Potremmo citare al proposito l'affresco attribuito
a Dario di Pordenone presso la chiesa di
San Giorgio a Treviso. E Giuseppe Maffioli,
eclettico personaggio che s'é occupato di
teatro e di gastronomia, ha avuto modo di
sottolineare che gli ottimi gamberi di San
Polo, dalle parti di Conegliano, "sono
solidamente ancorati alla storia dell'arte
locale, grazie ad una loro evidentissima
apparizione in un umile affresco del secolo
XV" in una cappelletta non lontano da
Lia (6).
Entrambi gli affreschi appena citati, si
noti, sono in zona di cattura di gamberi
(anche se oggi assai meno diffusi che in
passato). Così può sorgere il dubbio se anche
dalle parti di Ceredello, visto che dall'affresco
di Santa Cristina han preso spunto queste
considerazioni, vi fosse l'uso di mangiar
gamberi. E qui la faccenda si complica, non
essendoci conosciute fonti locali in merito.
Ma é peraltro nota ancora oggi la diffusione
del gambero d'acqua dolce in area gardesana
e nell'entroterra (7).
È dunque una lettura una lettura semplicemente
materiale quella che è da dare all'affresco
di Ceredello? Pur con le considerazioni esposte,
non pare possibile sostenere con certezza
che il pittore che qualche secolo fa dipinse
l'Ultima cena su di una parete della chiesetta
di Santa Cristina abbia voluto ritrarre i
gamberi familiari alla sua cultura gastronomica,
o per lo meno a quella allora corrente. Né
d'altro canto si può affermare unicamente
che abbia loro attribuito valore simbolico.
Potremmo azzardare che valgano entrambe le
ipotesi. Ossia che l'uso simbolico del cibo
potesse sì essere consuetudine dei pittori
medievali, ma che questi utilizzassero come
supporto alla simbologia elementi della cultura
alimentare del loro tempo. E dunque gli affreschi
che, più o meno in buone condizioni, adornano
i luoghi di culto, potrebbero esser considerati,
anche per l'area baldense e benacense, preziose
fonti per la ricerca nel campo della cultura
materiale. Colmando così in parte, per quanto
attiene gli usi alimentari, i vuoti lasciati
dai documenti scritti.
Note
1. Giuliano Sala, "La chiesa di S. Cristina
a Ceredello di Caprino", Centro studi
per il territorio benacense, Torri del Benaco
1993. Per ulteriori notizie sulla chiesa
si veda anche "Antichi oratori nel Caprinese"
in "Il Baldo" n. 1, Centro turistico
giovanile, Caprino 1989.
2. Massimo Montanari, "Convivio",
Laterza, Bari 1989.
3. Il manoscritto del "Theatrum sanitatis"
è conservato presso la Biblioteca Casanatese
di Roma.
4. A citare, riguardo al gambero, Bonvesin
da la Riva (vissuto fra XIII e XIV secolo)
è Massimo Alberini in "Storia della
cucina italiana", Piemme, Casale Monferrato
1992. Aggiungiamo che c'è anche una curiosità
letteraria, forse anch'essa a metà strada
fra simbologia e gastronomia, a proposito
del gambero in tavola in età medievale. Ci
riferiamo alla "Leggenda antica di San
Francesco". Vi si narra di come il poverello
d'Assisi, gravemente malato, venisse insistentemente
pregato di nutrirsi. E quando il Santo si
disse tutt'al più disposto a mangiare del
"pesce squalo", ecco avvicinarsi
un tale con un canestro contenente proprio
tre di quei pesci oltre a dei bei gamberi,
"che il Santo mangiava volentieri".
Il testo della leggenda è riportato nel già
citato "Convivio" di Montanari.
5. Si veda al proposito Emilio Faccioli,
"L'arte della cucina in Italia",
Einaudi, Torino 1987. A fornire la formula
per la cottura del gambero (in verità riferita,
parrebbe, a quello di mare) è per esempio
il trattato d'un anonimo autore trecentesco
della corte angioina: "Metti i gamberi
in acqua bollente con sale, e mangia con
agresto o aceto". Peraltro nel celebre
quattrocentesco "Libro de arte coquinaria
" di Maestro Martino da Como si fa riferimento
proprio al gambero d'acqua dolce, dicendo
che va fatto lessare, "et il suo sapore
vole essere l'aceto". E comunque lesso
lo si utilizzava per piatti più complessi,
come il "savore de gambari" (ottenuto
pestando nel mortaio code di gambero lessate,
"un poco de herbe bone", rossi
d'uovo e mandorle e stemperando il tutto
con agresto, aggiungendo poi acqua, "sì
che non sia acetoso", più spezie ed
olio) di un anonimo trattatista veneziano
del Trecento, oppure il "pastello de
gamari" (i gamberi sono lessati, puliti
e poi fritti insieme con della cipolla; si
aggiungono pepe, zafferano ed un trito di
noci, mandorle e zucchero e si pone il tutto
in una sfoglia, creando una sorta di "torta
salata" dei nostri giorni) d'un altrettanto
sconosciuto compilatore meridionale del primo
Quattrocento.
6. Giuseppe Maffioli, "Il ghiottone
veneto", Morganti, Treviso 1992. Maffioli
aggiunge che quella chiesetta "presenta
un'Ultima cena, sulla cui mensa, oltre all'agnello
pasquale, al vino, ai pani ed alle erbe amare
della tradizione, spiccano dei bei gamberoni
scarlatti".
7. Si vedano al proposito le recenti indagini
condotte da Daniele Zanini, confluite nel
suo articolo "Il gambero di fiume (Austropotamobius
pallipes fulcisianus) nella regione benacense"
in "Il Garda. L'ambiente, l'uomo"
n. 8, Centro studi per il territorio benacense,
Torri del Benaco 1992.
Questo articolo è stato pubblicato sulla
rivista Il Baldo, edita a Caprino Veronese
dal Centro turistico giovanile
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