Sport

 

Minà sul doping

 
 

di Gianni Minà

 

I giorni tribolati che il Comitato olimpico nazionale italiano (Coni) sta vivendo male, confermano amaramente che quella che fu un’isola in qualche modo autonoma rispetto al potere in Italia, è ormai definitivamente omologata sui comportamenti di tutti gli enti italiani che, ottenuti certi risultati, spesso senza andare troppo per il sottile per quanto riguarda la correttezza e la morale, pensano di non essere più parte di una comunità o di una società di tutti,

ma credono di essere loro stessi una nazione nella nazione, che non deve rendere conto a nessuno.
Così è successo in varie stagioni all’Eni, all’Iri, alla Cassa del mezzogiorno, e adesso perfino alla Banca d’Italia.

Affermo questo perché per rivendicare la difesa di un'autonomia presuntamente attaccata dai rilievi di un ministro - in questo caso la Melandri - bisogna avere una trasparenza accertata e non una storia recente dove da anni si è fatto un patto col diavolo, assumendo per chiamata diretta centinaia di persone tutte provenienti dallo stesso paese, quello del capo del personale, o permettendo per anni vergogne come il lungo califfato alla presidenza della Federtennis dell'avvocato Galgani o, ancora peggio, accettando la cultura del doping mentre ipocritamente si diceva di combatterla. Questo andazzo solo due anni fa costrinse un presidente, Pescante a dimettersi (pagando da solo, ora bisogna riconoscerlo, colpe di molti) per l'accertata truffa del laboratorio di analisi dell'Acqua Acetosa, diretto allora dall'illustre professor Rosario Nicoletti, che più che un indiscutibile curriculum accademico e sportivo vantava un passato in quella loggia massonica P2 (fascicolo 950), che tanto ha drammaticamente segnato la vita del nostro paese.

Il Coni attuale, presieduto dal dinamico Petrucci, ha scelto invece dopo aver fatto finta di lavorare per una riforma, di mostrare i muscoli perché tutto rimanga come prima, cominciando dall'improcrastinabile lotta al doping. Pochi giorni fa, infatti, forte delle medaglie conquistate ai Giochi di Sidney, che confermavano il settimo posto nel medagliere ottenuto ad Atlanta, il Coni ha creduto di potersi permettere l'atto ambiguo e insensato di sciogliere, per una ancora non chiarita fuga di notizie, una commissione scientifica che finalmente stava facendo luce sul prosperare di questa pratica malgrado una campagna voluta dallo stesso governo sportivo italiano e intitolata "Io non rischio la salute". Una campagna, ora sappiamo, di facciata non solo perché osteggiata con ragioni grottesche dall'arrogante mondo del calcio, ma snobbata anche da molte federazioni olimpiche che dicevano di sostenerla.

D'altronde, come poteva essere altrimenti in un universo sportivo dove malgrado i segnali di pericolo, molte discipline continuavano fino all'inizio di quest'anno ad avvalersi dei consigli e della consulenza del professor Francesco Conconi, da anni indicato come uno scienziato che mentre sosteneva di studiare per il Coni e il Comitato internazionale olimpico, gli antidoti al dilagare delle pratiche illecite nello sport, secondo la procura della Repubblica di Ferrara, era un paladino invece di ogni nuova frontiera farmacologica o chimica che potesse aumentare, anche oltre natura, le prestazioni degli atleti.

Il Pubblico ministero Pierguido Soprani nella sua recente richiesta di rinvio a giudizio di 63 protagonisti dello sport italiano dell'ultimo decennio coinvolti in pratiche doping, sottolinea che il professore, studioso e sostenitore di queste scelte malgrado il suo ruolo di rettore dell'Università estense, sperimentava addirittura su sé stesso l'Epo, l'eritropoietina, quando in un delirio da scienziato di film dell'orrore di serie B, sfidava il 3 settembre del '94 l'allievo prediletto Francesco Moser nella cronoscalata dello Stelvio.

Moser non era uno scalatore ed aveva in quel momento 43 anni, 16 di meno dell'esimio docente di biochimica applicata, ma Conconi, indefesso ricercatore da vent'anni dell' "elisir" che avrebbe dovuto frantumare i limiti della natura e far andare più forti tutti gli atleti da lui "trattati", era curioso di sperimentare come avrebbe resistito al campione al quale, proprio lui con la pratica dell'autoemotrasfusione (non ancora dichiarata fuori legge) , aveva regalato qualche stagione prima la possibilità di battere il record dell'ora, in un'età in cui la maggior parte dei ciclisti va in pensione.

In quell'occasione il 59enne Conconi arrivò a due minuti da Moser e il suo ematocrito toccò la punta del 57 per cento (mentre il limite di sicurezza viene indicato entro il 50). Niente, comunque, in confronto al 59,5 del 7 settembre '93 e al 58,4 del 21 giugno '94, quando l'ineffabile presidente della Commissione medica della Federazione ciclistica internazionale, secondo i file sequestrati nel suo archivio dai carabinieri del Nas di Firenze, aveva un sangue più denso della Nutella. Quali sfide sportive dovesse affrontare il sessantenne professor Conconi in quei giorni non è dato sapere, ma certo il suo "sacrificio personale" nel nome dell'eritropoietina doveva servire a dare un servizio più sperimentato ed efficiente agli atleti che alcune federazioni sportive, con la benedizione del Coni, gli avevano affidato da tempo. Fra di loro, un vero e proprio simbolo del riscatto dell'agonismo al femminile come la sciatrice di fondo Emanuela Di Centa o il ciclista più amato dagli italiani, Marco Pantani.

D'altronde, Conconi non si era comportato diversamente dieci anni prima quando la Federatletica di Primo Nebiolo gli aveva affidato Cova, olimpionico dei 10.000 e tutti i mezzofondisti azzurri, salvo Stefano Mei che si era negato ad ogni "aiuto", o Bugno vincitore di un Giro d'Italia e di un Mondiale, o Giovanni Franceschi, grande speranza del nuoto, "affondata" però alle Olimpiadi di Los Angeles dell'84, dopo la pratica dell'autoemotrasfusione consigliata dal docente di Ferrara. Non meno rapido fu il tramonto di Cova e di Bugno che probabilmente, per il loro valore, non avrebbero avuto bisogno delle "spinte" del professore per vincere e che invece finirono troppo presto per non pensare che certe terapie ne abbiano accorciato la parabola agonistica.

Perché Conconi, rispettato membro anche della Commissione medica del Cio, abbia votato la sua vita di scienziato di valore prima, negli anni '80 all'autoemotrasfusione, poi all'ormone della crescita e infine, negli anni '90, all'eritropoietina, insomma a tutte le pratiche che hanno illuso (talvolta a rischio della propria vita) molti "cavalli da tiro" dello sport italiano di essere diventati dei purosangue da Grand Prix, non lo sapremo mai. Sappiamo però adesso che, fin dalle Olimpiadi del 1984 a Los Angeles (i primi Giochi definitivamente ostaggio del doping) il Coni aveva accettato la logica di scegliere delle scorciatoie per andare più forte e vincere a qualunque costo, come la Germania dell'Est, o come quei campioni americani direttamente riforniti dallo sponsor Nike delle risorse necessarie a "non perdere per una banale questione chimica la sfida con i comunisti dell'Est europeo".

Nella Germania riunificata, dopo la caduta del Muro di Berlino, nessuno ha osato più nascondere queste infamie. La Cina, che le aveva ereditate dagli allenatori dell'ex DDR, è stata fermata da un sussulto di dignità, o più probabilmente di opportunismo politico del Cio, e negli Stati Uniti - dove pure chi combatte il doping, come il grande ex campione degli ostacoli Edwin Moses viene visto con sospetto - una ex dirigente della Nike, con un libro scandalo, ha fatto perlomeno giustizia di tanta gloria immeritata ottenuta da atleti magari "trattati" dal mitico professor Kerr, di Venice (California). Questo guru, ora pentito, è quello che voleva regalare la "seconda giovinezza" al 34enne Pietro Mennea (ancora capace ai Giochi dell'84 di arrivare settimo nella finale dei 200 metri, senza aiutarsi con nulla che non fosse il duro allenamento). Kerr per convincere Pietro, aveva mandato avanti un tal dottor Laich che, a sorpresa, nell'estate del '98 abbiamo ritrovato come "consigliori" al ritiro della Juventus con l'olandese Krajenof, altro famoso sostenitore dell'aiuto chimico nello sport.

Mennea, il più grande e longevo atleta che l'Italia abbia avuto, rifiutò quella logica e denunciò allora l'ipocrisia di uno sport che stava perdendo ogni etica, ma fu bollato dai fiancheggiatori delle scelte ambigue del Coni di quell'epoca (il presidente era Franco Carraro) come uno che sputava nel piatto dove aveva mangiato. La storia, con le settantamila pagine che il pm Soprani e i carabinieri dei Nas di Firenze hanno raccolto, ci ha sottolineato amaramente che Pietro, ora parlamentare europeo, aveva visto bene.

La reazione a questo pugno nello stomaco dell'arrogante mondo dello sport italiano è stata però, come abbiamo visto, fra le più imbarazzanti e patetiche che si potesse immaginare. La giunta esecutiva del Coni, con una chiusura ai limiti dell'ottusità, ha respinto recentemente le accuse provate del pm di Ferrara, entrando addirittura in polemiche giuridiche assolutamente improbabili o trincerandosi goffamente, dietro un presunto attacco politico all'autonomia dello sport. Poco ci è mancato che gli illustri componenti di questo consesso copiassero le tesi proprio di Krajenof quando fu scoperto al ritiro della Juventus: "E' una congiura dei comunisti!"

L'atteggiamento del Coni è ancor più comico se si considera che di questa giunta fa parte, come vicepresidente Francesco Conforti, alla testa di una federazione, quella del canottaggio e della canoa, che si è arrogata addirittura il diritto, senza averlo, di radiare Daniele Scarpa, l'ex compagno di voga del bel Rossi all'Olimpiade di Atlanta, che solo perché aveva denunciato di essere stato sottoposto a sua insaputa dal medico federale, prima dei mondiali del '94, ad una serie di iniezioni di Liposom Norm, un farmaco vietato dalle norme antidoping. Conforti, d'altronde, è in buona compagnia. Con lui in Giunta c'è anche Matteo Pellicone, immarcescibile presidente (dal 1981) della Federazione italiana lotta pesi judo e karate, federazione più volte "scossa" da casi di doping anche mortali di suoi iscritti, fra i quali alcuni d'interesse nazionale. Alla riunione dalla quale è sortita la stizzita protesta del Coni verso il pm Soprani ha partecipato anche in rappresentanza degli atleti, Emanuela Di Centa, che non solo, come dicono le cronache, era presente come fan ai famosi exploit del professor Conconi nella mitica scalata dello Stelvio con Moser, ma qualche anno dopo, nel '97, fu colta da un'emorragia interna, prima di una gara al circolo polare artico e fu, con molto rischio, trasportata con un volo di quasi cinque ore a Ferrara perché, evidentemente, a Oslo o Stoccolma non esistevano ospedali attrezzati come quello dove lavorava il professor Conconi, ospedali dove bloccare un classico "inconveniente" di chi ha, per qualunque motivo, i valori dell'ematocrito più alti della norma. Ovviamente della cartella clinica di Emanuela Di Centa, ingiustamente usata da chi voleva da lei solo risultati, fregandosene delle sue qualità di donna e di atleta, i Nas di Firenze non hanno trovato traccia, malgrado il nome della Di Centa ricorresse nei file degli atleti trattati dal professor Conconi. Un classico "conflitto d'interessi" che non ha suscitato nessun disagio nei disinvolti componenti del governo dello sport italiano. Anzi, mentre in Francia, dove una legge antidoping esiste e funziona, un tribunale di Lilla costringeva campioni del ciclismo ambigui e reticenti come Blanchard e Virenque a confessare le loro pratiche illecite per resistere ed andare più forte e metteva con le spalle al muro il presidente della federazione mondiale l'olandese Hein Verbruggen obbligandolo ad ammettere che la maggior parte dei corridori ricorre da anni al doping, in Italia, invece, ancora una volta si sceglieva di perseguitare chi combatte l'illegalità e non chi la pratica.

Così, per la seconda volta in tredici anni, Sandro Donati, allenatore vincente dei velocisti azzurri negli anni '80 e poi il più tenace avversario che la cultura del doping abbia mai avuto nell'universo agonistico del nostro paese, ha rischiato di essere licenziato dal Coni, questa volta insieme al professor Pasquale Bellotti, direttore della Scuola dello sport nonché membro come Donati della Commissione scientifica. L'accusa? Una fuga di notizie della quale né Donati né Bellotti sono responsabili, sull'identità di 61 atleti d'interesse nazionale su 538 analizzati a luglio, prima delle Olimpiadi di Sidney, i cui tassi del GH (l'ormone della crescita) risultavano "anomali" rispetto ai limiti consentiti dai regolamenti per la tutela della salute (5 nanogrammi litro per i maschi e 10 per le femmine). Fra questi c'erano anche cinque vincitori di medaglie d'oro ai Giochi australiani. Ora l'ineffabile governo del Coni, invece di allarmarsi per una realtà purtroppo inarrestabile e incontestabile, sintomo della decadenza morale di un movimento sportivo già scosso due anni fa dallo scandalo del laboratorio di analisi dell'Acqua Acetosa, decideva invece di sciogliere proprio la Commissione scientifica che molto bene e per la prima volta nella storia dello sport italiano, sotto la direzione del professor Bernasconi aveva lavorato per far uscir fuori dalla ambiguità un mondo che, malgrado le allarmanti indagini giudiziarie, continuava ad avvalersi fino a pochi mesi fa delle consulenze del professor Conconi e di alcuni dei suoi allievi come il dottor Ferrari.

Accadeva quindi che il 26 ottobre, lo stesso giorno della richiesta dei rinvii a giudizio proposti dal pm Soprani, l'agenzia CNN Italia, batteva alle 12,51 la notizia del prossimo licenziamento di Donati e Bellotti "essendo venuto meno il rapporto di fiducia" che li legava al massimo ente sportivo italiano. Appena dieci minuti dopo, però, la notizia rientrava. Qualcuno al Coni aveva letto un flash dell'Ansa proveniente da Ferrara sulle conclusioni dell'inchiesta del pm Soprani che decideva l'archiviazione per prescrizione della posizione dei tre presidenti del Coni (Carraro, Gattai e Pescante), succedutisi negli ultimi vent'anni, ma non lesinava critiche sulla loro responsabilità per la disfatta dello sport italiano nei confronti della pratica del doping.

Per pochi minuti che gli sono sembrati lunghi un secolo, Sandro Donati, tredici anni dopo, aveva rivissuto lo stesso incubo di quando il Coni voleva licenziarlo perché, dopo aver scritto lettere inascoltate alla Fidal di Primo Nebiolo e allo stesso comitato olimpico, era andato a depositare una denuncia al Commissariato di Ponte Milvio, a Roma, per denunciare alcuni abusi e pratiche illecite. Donati, già allora, si negava al proliferare della piaga del doping e all'affermarsi di comportamenti scorretti culminati nello sciagurato mondiale dell'87 con la congiura di alcuni giudici pilotati dalla Federazione che decisero di attribuire una misura fasulla ad un salto del triplista Evangelisti per regalare all'atletica azzurra una immeritata medaglia in più.

Ricordo ancora adesso l'imbarazzante telefonata all'allora segretario generale del Coni Mario Pescante per segnalargli che molti di noi giornalisti non avrebbero sopportato un'infamia simile.

Tredici anni dopo sembra che il tempo si sia fermato. L'ipocrisia trionfa ancora sovrana in alcuni settori del Coni, anche se gente perbene come l'avvocato Giacomo Aiello, capo della Procura anti-doping, si schiera con l'indagine del pm Soprani. L'esigenza di etica dello sport italiano si scontra purtroppo con il fatto che siamo una nazione ricca che organizza grandi eventi sportivi (dal Giro d'Italia alle Olimpiadi della neve del 2006) dove ci sono gli interessi di ricchissimi sponsor e anche le esigenze dello spettacolo televisivo e quindi, "perder tempo" con il doping, o andare fino in fondo senza guardare in faccia nessuno, da Pantani a una medaglia d'oro di Sidney, può essere poco conveniente per il business dello sport. Ma fino a quando lo sport italiano pensa di poter andare avanti con questa doppia morale?