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Tragica fine di Tiberio Mitri
campione dell'Italia della ricostruzione

 
 

di Gianni Minà

 

Era ironico, smagato, simpatico, ma anche un po' viziato. Nella sua vita ne aveva viste e combinate di tutti i colori, ma c'era stato sempre qualcuno che lo aveva perdonato o che aveva accettato i suoi eccessi solo scuotendo la testa, o che aveva fatto in modo che il suo istinto all'autolesionismo non diventasse estremo.

Ma ieri mattina, Tiberio Mitri, il più bel pugile dell'Italia del dopoguerra, era rimasto solo, drammaticamente solo, come ormai purtroppo era consuetudine da qualche tempo. E un treno di pendolari che va da Roma a Civitavecchia, in un'alba livida, ha fatto scempio di quel suo bel corpo asciutto, da atleta e da attore, che fino a poco tempo fa mostrava ancora con vanto, malgrado avesse passato i settant'anni.

Tiberio si era perso da pochi anni, da quando Marinella Caiazzo, la terza compagna della sua vita, lo aveva lasciato, dopo vent'anni, forse non riuscendo più a tener testa alla sua indisciplina di vita. Eppure Marinella, a 33 anni, aveva lasciato, alla fine degli anni Settanta, marito e figli per andare a vivere con lui in un roulotte, a Firenze, affascinata da quella sua "faccia da pirata" che aveva molto vissuto. Il suo stipendio di stimata insegnante delle scuole superiori era servito anche perché l'ex campione avesse il tempo di mettere insieme almeno quello che è garantito ad ogni italiano che diventa vecchio e che un antico "bohemien" come lui non si era mai sognato nemmeno di richiedere. Sono stati questi vent'anni, per ironia della storia, gli unici anni tranquilli della sua esistenza. Dimenticato forse, ma al sicuro, in una casa di via Manara a Trastevere, comprata con un coraggioso mutuo.

Ma tutto, ultimamente, era precipitato e l'essere rimasto solo è stata forse la malattia più grande che potesse capitargli, più dell'inizio del morbo di Alzheimer, "un'infermità da pugile", come ha scritto qualcuno, ma che io definirei, invece, in questo caso il segno dell'amarezza di chi non ha più una mano vicina da stringere.

Tiberio Mitri, ex marinaio che aveva vissuto gli anni travagliati della sua Trieste, divisa fra Italia e Jugoslavia e per la quale il nostro paese era sceso in piazza per chiederne la restituzione, era stato grazie alle sue qualità di pugile, uno dei simboli di questo riscatto, di questo diritto di Trieste a tornare italiana. Ma era stato anche, con le imprese calcistiche del grande Torino e con le vittorie travolgenti di Coppi e Bartali al Giro e al Tour, uno degli eroi dell'Italia della ricostruzione.

Era diventato campione d'Europa dei medi, dopo il grande Marcel Cerdan, l'algerino che aveva amato Edith Piaf, la cantante de "Hymne a l'amour", de "La vie en rose" di "Milord" e di "Je ne regrette rien" e che era tragicamente morto in un incidente aereo mentre andava a combattere per il mondiale contro Jake La Motta.

Il bel ragazzo triestino non era stato meno romantico. Dopo aver sconfitto Cyril Delanoitt a Bruxelles e Jean Stock a Parigi, aveva sposato Fulvia Franco, miss Italia anch'essa di Trieste, ed era andato in America, a sfidare anche lui quel "toro scatenato" di Jake La Motta, che Martin Scorsese e Robert De Niro hanno immortalato in un film che è stato giudicato il più bello prodotto negli Stati Uniti degli anni Ottanta.

Ma in quella afosa sera di luglio del 1950, al Madison Square di Garden di New York, Tiberio aveva perso ai punti con il furente avversario e aveva cominciato a perdere anche la sua donna, come in una vera storia letteraria. La Motta aveva accettato poco tempo prima di perdere con un certo Billy Fox per guadagnarsi il diritto a diventare il re dei pesi medi, dopo aver fatto vincere, con questa sconfitta, una montagna di dollari a Frankie Carbo, mister Grease, il padrone della boxe di allora. Ma con Mitri non c'era stata alcuna condiscendenza. A Frankie Carbo non era apparso abbastanza "tosto".

Tiberio, tornato a casa e perso l'amore di Fulvia, dalla quale aveva avuto un figlio, Alessandro detto Alex, aveva dovuto spendere un po' di tempo per ricostruirsi, ma il 2 maggio del '54 a Londra, aveva trovato l'antico fuoco del campione, mettendo kappaò al primo round il mulatto Randy Turpin, uno che era stato capace di battere il terribile francese Charles Humez. Ma solo sei mesi dopo proprio lo sgarbato Charlot, ringhioso ex minatore, aveva posto fine al suo sogno di riscatto in tre round, a Roma, davanti al suo pubblico che già forse lo considerava più un divo di Cinecittà che ancora un campione del ring.

Il cinema lo aveva accolto con entusiasmo, offrendogli ben presto delle occasioni in film come "Un uomo facile" (dedicato al mondo della boxe), "La grande guerra", "Jovanka e le altre", "I due nemici" che Mitri aveva saputo cogliere, guadagnando un certo prestigio di attore.

Ma quel mondo di celluloide, a volte fin troppo finto, gli aveva anche instillato qualche debolezza e il vizio della cocaina. L'incontro con un'americana, Helen de Lys Meyer, gli avrebbe lasciato una figlia, Tiberia (morta recentemente in modo tragico di Aids) e dopo un tempestoso rapporto, diversi strascichi giudiziari. Avrebbe conosciuto anche il carcere e l'oblio.

Alex, il figlio del primo matrimonio, lacerato tra gli insanabili rancori fra Tiberio e Fulvia Franco, aveva allora cercato di prendere a tutela quel padre tenero e scapestrato. Ma la vita, pur avendogli regalato un amore e una figlia in giovane età, non è stata generosa nemmeno con Alex. Nel 1979, a soli 28 anni, fu trovato nella sua macchina, con una siringa infilata nel braccio, morto per overdose. Fino a poche settimane prima era stato immune da questa dannazione che non aveva risparmiato il padre. Ricordo con tenerezza le sue telefonate perché io, che all'epoca frequentavo Tiberio per un progetto cinematografico di Lino Capolicchio sulla vita di questo campione inimitabile, gli regalassi una motivazione di lavoro per allontanare la sua decadenza. Al funerale, Tiberio aveva pianto come un bambino e Fulvia Franco era rimasta impietrita dal dolore, senza una lacrima. L'avevo scritto e Fulvia mi aveva telefonato, addolorata da questo rilievo "E' colpa di suo padre se Alex è finito così". Non era vero. Era colpa del destino e di una società spesso spietata. Il bel campione di Trieste, che aveva osato oltre ogni misura, l'ha scampata fino a 75 anni e il figlio no.

Quando tutti credevamo che la vecchiaia di Mitri sarebbe stata serena, vicino alla sua terza compagna, Marinella, che aveva messo in gioco tutto per occuparsi di lui, tutti i conti con il passato sono drammaticamente tornati nella sua quotidianità per chiedere di essere saldati. Così Tiberio è rimasto solo e se n'è andato, pensate un po', quasi come aveva previsto nell'epilogo del suo libro "La botta in testa". Nel 1967, infatti, aveva scritto: "In un locale di Trastevere annunciai alla stampa il mio ritiro dal ring. Da quel momento vedevo allontanarsi un mondo che mi aveva fatto in fretta, senza incertezze(…) Si allontanava come quando si segue un oggetto al margine della ferrovia e in breve non si può più nemmeno immaginarlo, tanto breve è stata l'apparizione."
Che la terra ti sia lieve, Tiberio.