Un albero con le radici:

Grotowski e il paradosso della comunicazione

di Chiara Guglielmi

 

La comprensione è l'essenza di ciò che si ottiene partendo da informazioni intenzionalmente acquisite e da esperienze personalmente vissute. [...] Mentre il sapere non è che la memoria automatizzata di una somma di parole imparate in un certo ordine.

Non solo è impossibile, nonostante tutto il desiderio che se ne ha, trasmettere a un altro la propria comprensione interiore costituitasi nel corso della vita, ma esiste perfino [...] una legge secondo la quale la qualità di ciò che viene percepito nel momento della trasmissione dipende, sia per il sapere sia per la comprensione, dalla qualità dei dati costituitisi in colui che parla.1

 

Le stesse parole possono essere volgari o straordinarie, secondo il modo in cui sono pronunciate. E questo modo dipende dalla profondità della regione dell'essere dalla quale esse procedono, senza che la volontà vi abbia alcun ruolo. E, per un accordo meraviglioso, esse vanno a toccare, in colui che ascolta, la stessa regione. Così chi ascolta può discernere, se ha discernimento, e solo a questa condizione, quel che valgono tali parole.2

 

Queste citazioni possono sintetizzare alcuni dei presupposti fondamentali di tutta la ricerca di Grotowski e del modo in cui ha organizzato la trasmissione del suo sapere:

 

 

esperienza ® comprensione (conoscenza) ® trasmissione

 

Solo a partire dalla propria esperienza personale e dalla forza della propria motivazione alla ricerca si può raggiungere la comprensione di qualcosa e formare in sé un sapere, una conoscenza.

Questa comprensione individuale non può essere trasmessa ad altri, neanche volendo: la vera trasmissione può avvenire solo se colui che ‘riceve’ il sapere ne fa esperienza in prima persona, in modo da ripetere a sua volta il percorso che dall'esperienza porta alla comprensione e dalla conoscenza, eventualmente, alla trasmissione.

Colui che trasmette, dunque, diciamo il maestro, non può che far da guida al discepolo sulla via dell'esperienza, e non inculcargli un sapere teorico.

La qualità della trasmissione, e quindi la qualità di ciò che il discepolo percepisce, dipende dalla qualità del sapere, e quindi dell'esperienza del maestro.

L'efficacia della trasmissione non dipende cioè dalle parole che vengono utilizzate, ma dal ‘luogo’ dell'essere da cui partono: quanto più è profondo questo luogo in chi parla, tanto più è profondo il punto che viene toccato in chi ascolta, sempre che chi ascolti sia disposto a mettersi in discussione in prima persona.

 

Rileggendo la storia di Grotowski alla luce di queste riflessioni, ci si rende effettivamente conto di come egli non abbia mai costruito un sistema, una teoria. Il suo lavoro ha sempre privilegiato l'aspetto pratico, il fare, piuttosto che quello teorico, e il suo insegnamento è sempre partito da concreti elementi di lavoro. Spiegare a parole, in veste teorica, gli obiettivi della propria ricerca non è mai stata un'esigenza primaria di Grotowski: è stato più forse un ‘dovere’, che egli sentiva, di giustificare al mondo esterno le proprie sperimentazioni per non essere intralciato nel proprio lavoro. Non a caso nei primi anni del Teatro Povero era quasi sempre Ludwik Flaszen, il co-direttore del Teatr-Laboratorium, a ‘parlare’ dell'attività di Grotowski; in seguito, è vero, fu Grotowski stesso a tenere conferenze in tutto il mondo, ma in quelle sedi si percepiva comunque che il suo intento non era mai quello della speculazione teorica né della qualità verbale dell'esposizione.

 

È come nel proverbio di un popolo che abita nel Ghana. Il proverbio dice:

“Lo straniero che arriva e guarda, vede solo quello che conosce”. È tutta la chiave. Si vede solo ciò che si conosce, questo è il primo livello.

E il secondo livello è che si applica la probabilità per interpretare quello che si vede.

[...] E questo è molto tipico; la selezione che facciamo degli stimoli sensuali che ci arrivano, è straordinaria. È una piccola frazione di tutto ciò che ci arriva, in tutti i campi sensuali, che noi registriamo. E registriamo secondo due categorie: prima di tutto quello che noi conosciamo (esattamente secondo il proverbio africano), e secondariamente in relazione con la probabilità.3

 

In tutta la ricerca di Grotowski ha avuto un ruolo centrale la riflessione sulla percezione e sul suo condizionamento da parte dell'educazione. Tutti i dati e le informazioni che giungono a noi attraverso il processo della percezione sono già condizionati e selezionati in base a "quello che noi conosciamo" (l'esperienza) e "in relazione con la probabilità" (e il concetto di probabilità cambia a seconda della cultura e dell'educazione).

Il linguaggio, nella concezione di Grotowski, è strettamente connesso al processo della percezione, ed è soggetto quindi alle stesse limitazioni: non può avere un valore e un senso oggettivi, costituisce anzi, nel momento stesso in cui viene formulato, già un'interpretazione della realtà e condiziona la trasmissione e la ricezione dei contenuti.

 

Se prenderete il testo scritto di quello che ho detto ieri, si difenderà perché ci sono delle cose importanti che sono state formulate, e se prenderete i testi scritti delle altre giornate, quando ero portato da uno slancio e quando voi eravate in certa maniera contenti di ascoltarmi, troverete che in questi testi non c'è quasi niente. È molto tipico. L'ho notato quando si trattava di elaborare i testi delle conferenze. Tutte le conferenze che hanno riscosso un grande successo sono risultate inutilizzabili, dopo. Bene, ero in certa misura interessante parlando e forse attraverso il modo di parlare ho detto qualcosa, ma questo scompare dal testo scritto, scompare la presenza, la voce, il momento, tutto ciò scompare, resta qualcosa di molto rudimentale, le parole, le frasi. E questo durante le conferenze interessanti è quasi sempre il “buco”, niente.4

 

Quando "scompare la presenza, la voce, il momento", rimane solo "qualcosa di molto rudimentale, le parole, le frasi". Le parole non hanno un senso oggettivo e separate dalla presenza viva di chi parla non sono altro che vuoti contenitori5.

Ma ci sono casi in cui le parole possono diventare viventi.

"Ci sono parole che cadono in un certo luogo [...] e si ha l'impressione che siano le parole che noi stessi avremmo dovuto trovare ma che non abbiamo saputo formulare"6. In questo caso Grotowski si riferiva ai fenomeni rituali, ma questa citazione è simile alla conclusione di una conferenza tenuta a New York nel 1969: "Se in ciò che ho detto c'è stato qualcosa che un ascoltatore è stato capace di intendere come messaggio pura-mente personale, diretto soltanto a lui e non agli altri, questo è quanto volevo esprimere"7.

Le parole diventano viventi quando acquistano una risonanza personale8 per chi le ascolta. È cioè possibile comprendere pienamente solo ciò che ha già in qualche modo un valore di esperienza personale.

Ci troviamo allora di fronte a un paradosso: visti i limiti della parola (e anche della parola scritta), del linguaggio e della comunicazione umana, perché cercare di trasmettere a un pubblico di ascoltatori i risultati delle proprie ricerche e delle proprie esperienze? Se Grotowski ha sempre evitato il livello della scrittura, infatti, non si può dire altrettanto del livello del confronto ‘orale’ e delle sue concrete apparizioni in pubblico in qualità di ‘conferenziere’ o addirittura professore.

La questione può essere vista allora in questo modo: ha senso tentare la comunicazione, se non ci si illude circa le possibilità di verbalizzare la propria esperienza, ma se si cerca piuttosto di guidare l'ascoltatore a un percorso "fra le parole"9, al di sotto della loro superficie. Ha senso indicare un sentiero, stimolare l'ascoltatore a non ricevere passivamente le parole ma ad interpretare i segni che tra di esse sono nascosti. L'ascoltatore può comprendere se riesce a captare il messaggio. E il messaggio giusto, lo dice Grotowski stesso, è quello che sembra diretto solo a lui e non agli altri: "Rimane ciò che esiste esclusivamente come appello per il singolo individuo, un appello concreto nel contesto della sua vita e della sua esperienza"10. Le conferenze di Grotowski sembrano un continuo tentativo di raggiungere e ‘toccare’ l'ascoltatore in un punto più profondo: di stabilire cioè un filo di comunicazione diretto con ogni singolo individuo.

 

La struttura stessa delle conferenze di Grotowski riflette la sua sfiducia nelle possibilità comunicative del linguaggio e la convinzione della relatività di teorizzazioni, sistemi, formulazioni concettuali:

 

Ciò che più o meno è trasmissibile fra le persone, ciò che passa attraverso differenze di mind structure è semplicemente l'esperienza e non la teoria a proposito dell'esperienza. Evidentemente, parlandone si sta creando anche la teoria, ma bisogna vedere la relatività di questa teoria. Se si vede la relatività della propria teoria, la si spezza, anche coscientemente. Ciò vuol dire che ogni volta si cercano di nuovo le parole per articolare l'esperienza e anche si cercano modi diversi di articolare l'esperienza di fronte a persone diverse.11

 

Nelle sue lezioni non c'è mai fissazione in un linguaggio di tipo intellettuale o teorico, e Grotowski stesso sembra preferire a volte l'apparente imprecisione sintattica e grammaticale (che probabilmente non dipende solo dall'uso di una lingua straniera) all'astrazione linguistica: si tratta in realtà di una sorta di reinvenzione della lingua a livello grammaticale e lessicale. Terminologia e linguaggio sono validi per la loro efficacia pratica e non per la loro valenza teorica, e devono essere utilizzati in modo strumentale: cioè come punti di riferimento "in movimento" che non hanno un valore assoluto e univoco: "Tutta la terminologia che utilizzo è una terminologia 'in volo' che viene ricreata ogni volta e non c'è alcun bisogno di fissarla come terminologia tecnica"12.

 

"Je peux parler en manière plus au moins utile, féconde, seulement des choses que je fais et après même quand je l'ai fait, comme un passage vers un pas prochain. Comme si une théorie est juste un outil pour pouvoir procéder avec la pratique; et si ça n'aide plus la pratique, on laisse tomber la théorie".13 

 

La teoria è solo un mezzo, un punto di passaggio che serve a chiarire una fase del processo vivo dell'esperienza; il linguaggio "una sorta di strumento per poter procedere con la pratica".

 

Il linguaggio, per Grotowski, deve avere allora due qualità fondamentali: da una parte deve essere sufficientemente tecnico da non dar luogo a malintesi, dall'altra sufficientemente vivo da permettere il "fluire di contenuti essenziali"14 e non facilmente comunicabili.

Per quanto riguarda il primo di questi due aspetti, Grotowski mette continuamente in guardia il suo pubblico di ascoltatori da una serie di pericoli: il "pericolo dei sentimentalismi", cioè di un eccessivo coinvolgimento emotivo che può falsare la ricezione del messaggio, il pericolo delle generalizzazioni e degli esempi, il pericolo delle formule. Dal punto di vista terminologico egli cerca di utilizzare termini molto specifici (spesso neologismi) e collegati con la concretezza della pratica, scegliendo i termini meno soggetti ad associazioni, fraintendimenti, ambiguità.

Nel tentativo invece di plasmare il linguaggio tanto da renderlo aperto al fluire di contenuti essenziali, Grotowski fa un largo uso di analogie e associazioni funzionali all'evidenziazione della relatività dei fenomeni analizzati.

Catturando l'attenzione dello spettatore grazie alla sua capacità affabulatoria e allo ‘spessore’ della sua presenza (quasi un'eco del suo lavoro sulla presenza scenica dell'attore), Grotowski tesse una rete fatta di riferimenti che possono sembrare asistematici, ma che sono in realtà collegati a un centro dal quale si dipartono. Grotowski lascia ‘tracce’ lungo il percorso, stimolando il suo ascoltatore a ‘risalire’ la pista per scoprire in prima persona il significato profondo delle parole. Nel disseminare queste tracce lungo il percorso, Grotowski sembra agire intenzionalmente: consapevole che in certi ambiti la scoperta individuale è fondamentale, fa riferimenti senza indicarne esaustivamente le fonti, o racconta aneddoti che sembrano far parte della sua esperienza personale ma provengono in realtà da fonti ben precise. L'ascoltatore attento e sinceramente motivato potrà risalire la pista e fare a sua volta la propria scoperta:

 

"Si on donne à quelqu'un une sorte de prescription, de solution, ça ne marchera pas: c'est comme si on donne un arbre coupé des racines. Mais si on crée les conditions pour quelqu'un qui est à côté de toi, qui est plus jeune, qui ne connaît pas mais qui cherche, si tu lui laisse l'espace libre de capter, de comprendre les allusions, d'une certaine manière de veiller pour voler ton secret, alors, s'il vole bien, ça marche "15.

 

L'albero è la conoscenza, le radici l'esperienza.

Il processo della conoscenza non può essere passivo, ma deve coinvolgere l'"apprendista" in modo attivo: il maestro può "creare le condizioni" per essere "derubato", lasciando modo a chi lo ascolta di "captare” e "comprendere le allusioni", ma è l'allievo che deve rubare il segreto.

 

 

 

1 Georges I. Gurdjieff, Incontri con uomini straordinari, Milano, Adelphi, 1970, pp. 309-310.

2 Simone Weil, Quaderni II, Milano, Adelphi, 1985, p. 141.

3 Jerzy Grotowski, Tecniche originarie dell'attore, a cura di Luisa Tinti, Università ‘La Sapienza’, Istituto del Teatro e dello Spettacolo, Roma, 1982, p. B, 16.

4 Ivi, II parte, C, p. 17.

5 Di qui anche la nota avversione di Grotowski per la pratica degli "appunti", con i quali si pretende di fissare in formule e definizioni un processo, quello del linguaggio, che è fluido e muta a seconda del contesto.

6 Jerzy Grotowski, Tecniche originarie dell'attore, cit., C., p. 16.

7 Jennifer Kumiega, Jerzy Grotowski. La ricerca nel teatro e dopo il teatro 1959-1984, Firenze, la casa USHER, 1989, p. 182.

8 Cfr. Ferdinando Taviani, Commento a "Il Performer", in "Teatro e  Storia", anno III, n. 2, ottobre 1988, pp. 262-72.

9 Ibidem.

10 Jennifer Kumiega, Jerzy Grotowski... cit., p. 182.

11 Jerzy Grotowski, Tecniche originarie dell'attore, cit., p. 52.

12 Ivi, p. 448.

13 Jerzy Grotowski, La "Lignée organique" au théâtre et dans le rituel, registrazione audio della lezione inaugurale di antropologia teatrale al Collège de France tenuta da Grotowski il 24 marzo 1997, Collection Collège de France, Aux sources du savoir, cassette 1/1, face A.

14 Cfr. Ferdinando Taviani, Grotowski: strategia del commiato, in "La Rivista dei libri", Luglio-Agosto 1999, p. 39.

15 Jerzy Grotowski, La "Lignée organique"... cit., 23-6-97, cassette 2/2, face B.