Action:

l’altra estremità della catena

 

Presentazione dell’incontro con Mario Biagini del ‘Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards’
Roma, Università “La Sapienza”, 28-30 novembre 2000

 

di Anna Rita Ciamarra

 

 

 

Nel 1986, dopo aver lavorato per circa tre anni alla University of California, Irvine, Jerzy Grotowski accettò l'invito di Roberto Bacci e del Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale e si trasferì a Pontedera dove fondò il Workcenter of Jerzy Grotowski. Dagli Stati Uniti portò con sé tre giovani assistenti. Uno di loro era Thomas Richards, divenuto in seguito il suo principale collaboratore1 . A Richards, infatti, il maestro polacco affidò la responsabilità di guidare l'aspetto centrale del lavoro: l'agire performativo basato su antichi canti provenienti, in particolare, dalla tradizione afrocaraibica.

La scelta di questi canti non rappresentava per Grotowski una limitazione dei confini geografici. Riconosceva, infatti, il loro lungo retaggio e sosteneva che, rielaborati in gran parte dagli schiavi nei Caraibi a partire da fonti africane, questi canti potrebbero, in realtà, riallacciarsi anche a tradizioni diverse ed avere persino qualcosa in comune con i riti dell'antico Egitto. Grotowski parlava, inoltre, di una culla di tradizione, ovvero la culla dell'Occidente, che per lui comprendeva, "senza pretese di scientificità", le antiche civiltà dell'Egitto, di Israele, della Grecia e della Siria2 .

Grotowski e Richards hanno lavorato, negli anni seguenti, per sviluppare strutture performative a partire da questi canti, dalle loro qualità vibratorie e dagli impulsi legati ad essi e per portare alla luce il processo che può attuarsi all'interno delle persone che vi agiscono. Il che, detto in altri termini, significa usare i canti come strumenti per compiere su se stessi un lavoro che, nella fattispecie, è in stretta relazione con la possibilità di gestire l’energia.

Il termine ‘energia’, in questo caso, non sta ad indicare la quantità ma la qualità, ovvero la trasformazione da un'energia di tipo "grossolano" ad un'altra di tipo "sottile". È quello che Thomas Richards chiama "azione interiore"3 .

In relazione a questo processo può verificarsi il fenomeno che Grotowski definiva "induzione". Spiega Richards: "Se si ha un filo elettrico in cui scorre corrente, e si prende un altro filo elettrico in cui non c'è corrente e li si accosta, poiché c'è corrente nel primo filo, anche nel secondo filo possono apparire tracce di corrente elettrica"4 . È evidente, dunque, che l'induzione può coinvolgere, oltre agli attuanti, anche i testimoni della struttura performativa nel momento in cui i primi si avviano alla trasformazione dell'energia, alla "azione interiore" appunto. Ma produrre induzione negli eventuali testimoni non è l'obbiettivo dell'azione.

Le strutture performative sviluppate negli anni al Workcenter sono state diverse. Quella attuale, nota come Action, "è un’opera creata e diretta di sana pianta da Thomas Richards"5. È  difficile, anzi impossibile stabilire la sua precisa data di nascita. In linea generale, infatti, il suo sviluppo è iniziato nel gennaio 1995, ma le radici di alcuni frammenti e l'"azione interiore"che ne è il nucleo appartengono a momenti diversi.

 

Quando, nel novembre scorso, ho assistito ad Action, mi è stato subito chiaro che, in questo caso, non avrebbe funzionato quella tendenza, tipicamente occidentale, a nominare ed etichettare qualunque avvenimento. Qualcosa di assolutamente fuori dagli usuali schemi con cui generalmente siamo abituati a parlare delle arti performative accadeva in quella sala con le mura bianche e il pavimento di legno in cui sei uomini e una donna si muovevano intonando canti antichi. Nessuno di loro sembrava prestare attenzione a noi che li osservavamo.

In alcuni elementi, l’azione sembra modellarsi come una storia e gli attuanti come personaggi: forse una Sfinge con i suoi enigmi, forse un Cristo violentemente inchiodato alla croce, forse il parto di una donna che mette al mondo un vecchio con il bastone che, solo all'ultimo, come in una pellicola che gira al contrario, diventa neonato. Ma sono ipotesi, tanto meno utili in quanto potrebbe trattarsi semplicemente di proiezioni.

In questo caso, infatti, cercare una storia e i suoi personaggi è possibile, ma non si tratta di una premessa necessaria o sottintesa. Action non ha un impianto narrativo. In un certo senso, secondo un'indicazione offerta da Mario Biagini, è più simile ad un'opera di poesia che di prosa6.

E, allora, cos'è Action?

Nel cercare una definizione, in questo caso più che in altri, ci si perde nel vuoto. Non ci sono categorie in cui incasellare questo lavoro. È un rito? Non in quanto si relaziona ad una sfera mistico-religiosa così come la si intende nel senso dell'antropologia o delle religioni organizzate. È una improvvisazione? Non nel senso che manca di una struttura e della possibilità di ripeterla. È teatro? Dal punto di vista degli elementi tecnici siamo sicuramente vicini alle arti performative: si lavora sui canti, sugli impulsi, sulle forme del movimento, sui motivi testuali, creando una struttura altrettanto precisa e finita di uno spettacolo. Ma per altri aspetti non lo è, almeno non nel senso in cui siamo abituati a pensare e definire il teatro.

Innanzitutto, infatti, per le persone che vi agiscono, quello che possiamo chiamare il ‘valore’ della struttura non poggia sul fatto che venga vista né tanto meno sulla volontà di comunicare a qualcuno un messaggio. Action ammette lo sguardo di un osservatore/spettatore ma non ne dipende. Il suo valore per le persone che agiscono sta nel fatto stesso di "fare"7. Il valore, per chi guarda, sta forse nello stesso partecipare ed assistere.

Questa struttura, in realtà, non ha neppure un titolo. Il termine Action, con cui è conosciuta, apparve semplicemente durante il lavoro. La prima struttura, creata nel 1985, a cui Thomas Richards aveva lavorato, d'altronde, si chiamava Main Action soltanto perché, in quel momento, era il lavoro "principale" che impegnava il gruppo di Grotowski, allora in California. Downstairs Action, invece, era stata così chiamata per il fatto che il lavoro si svolgeva al piano inferiore dell'edificio in cui ha sede il Workcenter. Tuttavia, la parola "action", che ricorre in queste diverse strutture, non è del tutto casuale e lega per certi versi il lavoro del Workcenter all'arte teatrale in senso stretto, in particolare al lavoro di Stanislavskij per il quale erano fondamentali espressioni come "azione fisica".

Per altri versi, mentre il teatro usa il montaggio per determinare la percezione dello spettatore che, in tal modo, è coinvolto in una situazione e in una storia ben precise, in Action il montaggio non è in funzione della "creazione di senso" per chi guarda, ma, ancora una volta, riguarda gli attuanti, non in quanto questi ultimi si accordano per condividere una definizione di ciò che faranno ma nel senso che, come diceva Grotowski, è attraverso le azioni che si scopre, a poco a poco, come avvicinarsi ad un contenuto che è comune8.

La difficoltà di scegliere una precisa terminologia per parlare di Action nasce, in realtà, dal fatto che ci troviamo di fronte a qualcosa che non ci è familiare e che necessita di nuovi strumenti di analisi, di un nuovo punto di vista da cui osservare, di una nuova definizione del territorio delle arti performative.

Lo abbiamo detto: in senso stretto, non si tratta di rito né di teatro e non si tratta neppure di danza o di un concerto di canti antichi. È una forma d'arte che non è possibile immettere, se non si vogliono rischiare forzature o valutazioni parziali, in nessuna di queste categorie e che si fonda su un incontro tra differenti generazioni e culture: cosa possono svelare queste antiche tradizioni?

Negli anni, percorrendo le tappe di questa ricerca, il Workcenter ha sicuramente attraversato i confini del teatro ma il loro lavoro non è spettacolo.

Alcuni anni fa, Grotowski - che aveva fatto propria l'espressione di "arte come veicolo" utilizzata da Peter Brook per definire quest'ultima fase della sua ricerca - scriveva:

 

Il lavoro attuale, che considero per me come finale, come il punto di arrivo, è L'arte come veicolo. Nel mio percorso ho compiuto una lunga traiettoria - decollando da L'arte come presentazione per atterrare ne L'arte come veicolo (che, d'altra parte, è legata ai miei più vecchi interessi). Il parateatro e il Teatro delle Fonti si sono trovati sulla linea di passaggio. Il parateatro ha permesso di mettere alla prova l'essenza della determinazione: non nascondersi in niente. Comunque il lavoro attuale non è un teatro partecipativo, non c'è nessuna partecipazione attiva di gente dall'esterno. Il Teatro delle Fonti mi ha solo fatto vedere qualcosa che potrebbe risultare possibile. Ma è stato chiaro che non possiamo realizzare ciò che è possibile se non passiamo dal livello 'impromptu', legato a una forma di dilettantismo, al livello del lavoro sui dettagli. Pur senza rompere con un tipo di sete che motivò il Teatro delle Fonti, L'arte come veicolo si orienta verso un lavoro completamente diverso: concentrato sul rigore, sui dettagli, sulla precisione - paragonabile a quella degli spettacoli al Teatr Laboratorium. Ma attenzione! Non è una svolta verso L'arte come presentazione; è l'altra estremità della stessa catena.9

 

Nei giorni 28, 29 e 30 novembre 2000, l'Università degli Studi di Roma "La Sapienza" ha ospitato un seminario di Mario Biagini, membro del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards e, attualmente, il principale collaboratore di Richards.

In apertura del seminario è stato mostrato agli studenti il lavoro di un gruppo di quattro giovani attori di Singapore, One breath left, sorto nell'ambito di un progetto del Workcenter chiamato The Bridge: Developing Theatre Arts.

Si tratta di una strada che il Workcenter ha intrapreso circa due anni fa e che si avvia verso un percorso nuovo all'interno della sua ricerca. One breath left, infatti, è uno spettacolo vero e proprio che nasce, però, dall'incontro con un lavoro, quello del Workcenter appunto, non finalizzato allo spettacolo. Come una performance teatrale, infatti, ha un titolo e una storia e si rivolge ad uno spettatore.

La vicenda è tratta da un episodio raccontato da uno dei massimi esponenti della scuola taoista, Chuang-tzu (IV-III secolo a.C.), nell'opera che va sotto il suo nome: un tempo Chuang-tzu si vide in sogno come una farfalla. Non sapeva di essere Chuang-tzu. All'improvviso, si sentì di nuovo Chuang-tzu. Tuttavia non sapeva se era Chuang-tzu che si era visto in sogno come una farfalla o se era la farfalla che si era vista in sogno come Chuang-tzu. Alla narrazione di questo episodio, si affianca il tentativo di descrivere lo stato e i pensieri di una donna nel momento del suo ultimo respiro, circondata dai suoi famigliari.

Sebbene la struttura non sia ancora del tutto ultimata, in One breath left è chiaramente riconoscibile l’impronta del lavoro del Workcenter ma anche un significato strutturale ben diverso che fa di questa performance un vero e proprio ‘ponte’ tra L'arte come veicolo e L'arte come presentazione, ma anche un "braccio", come ha suggerito Thomas Richards, che dal Workcenter si allunga verso il teatro.10

 

L'intervento di Mario Biagini, che qui di seguito si ripropone, anche attraverso il dibattito con gli studenti, ha sollevato questioni importanti in merito al lavoro di Grotowski e del Workcenter.

 

 

1 Nel 1996, Grotowski decise anche di cambiare il nome del suo Workcenter in Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards. Il Workcenter ha sede a Pontedera, Via Manzoni 22, 56025. Fax: 0587/213631. E-mail: workcenter@pontederateatro.it.

2 Jerzy Grotowski, Dalla compagnia teatrale a L'arte come veicolo, in Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Milano, Ubulibri, 1993, p. 137.

3 Thomas Richards, Il punto-limite della performance, Documentation Series of the Workcenter of Jerzy Grotowski, pubblicato da: Fondazione Pontedera Teatro, Pontedera, giugno 2000, p. 19. Questo testo, pubblicato sia in versione italiana che inglese, non è in vendita. Lo si può avere facendone richiesta direttamente al Workcenter.

4 Ivi, p. 33.

5 Jerzy Grotowski, Testo senza titolo, in “Teatro e storia”, n. 20-21, 1998-99, p. 443.

6 Tale indicazione è stata fornita da Biagini durante un colloquio al Workcenter.

7 Thomas Richards, Il punto-limite della performance, cit., p. 62.

8 Jerzy Grotowski, Dalla compagnia teatrale a L'arte come veicolo, cit., p. 131.

9 Ivi, pp. 128-129.

10 Tale indicazione è stata fornita da Thomas Richards durante un colloquio al Workcenter.

 La foto di Alain Volut. (Biagini e Richards in  Action) è tratta da Richard Schechner, Lisa Wolford (a cura di), The Grotowski sourcebook, Londra, Routledge 1998, 41.5.