Incontro all’Università ‘La Sapienza’

di Mario Biagini

 

 

Questo testo è stato elaborato dall’autore, Mario Biagini del "Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards", a partire dalla trascrizione delle ultime due giornate di un seminario tenuto presso l'Università degli Studi di Roma "La Sapienza" - 28, 29 e 30 novembre 20001 . Oltre alla prima giornata del seminario, non sono qui registrate le discussioni individuali e parte del dialogo con gli studenti, come anche altri elementi dell'incontro. Il lettore entra in una stanza dove la conversazione è già iniziata.

 

a cura di Anna Rita Ciamarra

  

 

 

29 novembre, seconda giornata

 

All'inizio del secondo giorno del seminario, gli studenti hanno posto le seguenti domande:

 

Come vivete la responsabilità di essere gli eredi di Grotowski?

Che senso può avere per un attore lavorare senza un pubblico?

La "qualità" del silenzio di Grotowski di cui parla Thomas Richards2 è in qualche modo collegabile all'"azione interiore"?

Quale può essere la definizione di "azione fisica"? In che cosa un'azione fisica si differenzia da un movimento?

Nell'esposizione di alcuni concetti de Il punto-limite della performance3 , Thomas Richards usa dei giri di parole... Perché?

Qual è l'obiettivo della ricerca condotta al Workcenter, tanto più che il lavoro è visto da pochi e non è uno spettacolo?

 

Mario Biagini: Molte persone ci hanno domandato - anche prima della morte di Grotowski... - e molte altre tutt'oggi ci domandano, come voi: "Come vivete la responsabilità dell'eredità di Grotowski?" Personalmente non penso mai al lavoro fatto negli ultimi anni, e alla ricerca che continua e si sviluppa, come se costituisse un'eredità. Quale eredità? Non mi sento un erede. Ci riferiamo all'eredità in termini giuridici? Non sto facendo una polemica, voglio farvi capire quello che sento. Forse per "eredità" intendete ciò a cui si riferiva Grotowski quando parlava del processo di "trasmissione" tra lui e Thomas Richards, trasmissione nel senso tradizionale.4 Molte volte Grotowski ha sottolineato che i suoi sforzi degli ultimi anni erano diretti al compimento di questo processo tra lui e Thomas, suo "collaboratore essenziale". Trasformare a posteriori questa relazione feconda di lavoro, questo sforzo contro-corrente di continuità nella ricerca, in una sorta di designazione, sentimentale e burocratica, di Thomas quale "erede ufficiale", è travisarne il senso e ridurne la portata. Molti hanno osservato che Grotowski sembrava avere sempre l'esigenza di sviluppare, durante ogni fase della sua ricerca, una relazione di lavoro privilegiata con una persona alla volta, relazione che diventava in qualche modo il fulcro del suo lavoro di un dato periodo. Mi ricordo di una conversazione avuta con Grotowski, avvenuta pochi mesi prima della sua morte: parlavamo di un paio di testi pubblicati di recente, che fanno appunto notare che è possibile individuare, in ogni periodo della ricerca di Grotowski, una persona con cui Grotowski aveva una sorta di relazione professionale privilegiata, se così si può dire. Grotowski mi disse che sebbene ci fosse qualcosa di molto vero in quest'osservazione, nondimeno il rischio stava nella tendenza a considerare tutte queste relazioni alla stessa stregua, come se avessero tutte la medesima natura. Mi parlò a lungo in quell'occasione di alcune importanti relazioni professionali della sua vita. Disse che la natura di ciascuna era profondamente diversa, che in ognuna era presente uno sforzo di tipo diverso, di cui lui e l'altra persona in qualche modo si nutrivano. Disse che la particolarità dei 14 anni della sua collaborazione con Thomas Richards stava nell'essere l'unica in cui si fosse impegnato in uno sforzo cosciente di trasmissione, e che quest'aspetto, dal suo punto di vista, non si era mai presentato in precedenza. Grotowski era estremamente consapevole, allorché si trasferì in Italia e fondò il Workcenter5 , di quanto poteva essergli rimasto da vivere. Sapeva che la ricerca condotta al Workcenter rappresentava la fase finale del suo lavoro.6 E questa ricerca era essenzialmente centrata sullo sviluppo del potenziale, in senso non esclusivamente artistico, insito nella relazione insegnante/apprendista tra lui e Thomas Richards. Una relazione tra anziano e giovane, che non aveva niente di sociale. Vederli insieme non era come vedere un padre con un figlio: non c'era niente della competitività o delle proiezioni inevitabilmente implicate nel gioco di relazioni tra figlio e genitore. Erano piuttosto come un nonno col suo nipote. Questo rapporto necessitava anche di un ambiente propizio, di una specie di micro-comunità che lo sostenesse e ne fosse nutrita. Mi ricordo dei primi passi importanti per me nel lavoro al Workcenter, quando ho cominciato a lavorare da vicino con Thomas e Grotowski insieme: era come se Thomas mi prendesse per mano e m'introducesse in un mondo in cui ti era domandato tutto, ma in cui percepivi sicurezza e fiducia. Stare vicino a Thomas e Grotowski era come stare all'ombra di un grande albero antico, come entrare insieme ad un amico più grande nella casa di suo nonno, un vecchio signore che faceva paura quando lo vedevi di lontano, ma da vicino talmente... Tutte le parole sembrano banali, e dire di più ora non è giusto. Ma era come essere al sicuro, talmente al sicuro che potevi rischiare tutto, fino in fondo.

Molte persone ci dicono: "Dopo la morte di Grotowski...", "Ah, che responsabilità essere suoi eredi!". Temo che non parlino di ciò che davvero è successo tra Jerzy Grotowski e Thomas Richards, in seno a un piccolissimo gruppo di persone, degli sforzi che Thomas e Grotowski hanno fatto affinché qualcosa passasse, fosse trasmesso, una base fosse posta per compiere un altro passo. Ho la sensazione che queste domande si riferiscano piuttosto all'aspetto sociale di tutto ciò, al significato sociale e culturale, storico, dell'essere "eredi" di Grotowski. Responsabilità di fronte alla società, alla storia, all'arte? Tutto ciò non m'interessa minimamente. Oppure responsabilità di fronte a se stessi, alla propria vita, o al proprio destino? In questo senso ognuno potrebbe scoprire di essere responsabile verso qualcosa, e porsi delle domande.

C'è un testo antico, appartenente alla tradizione occidentale, in cui qualcuno domanda ad una persona che è una specie d'insegnante: "Ma i tuoi apprendisti, sono come?" Gli viene allora risposto: "Sono come bambini piccoli, che dimorano in una casa che non è loro. Quando arrivano i padroni della casa e dicono: 'Ridateci la casa!', loro, nudi, la rendono".

Quando si parla di "eredità" ci si può riferire a qualcosa che si possiede, intendere una specie di possesso. Per me quello che è importante da questo punto di vista non è tanto ciò che ti appartiene quanto ciò cui appartieni. È come un'aspirazione, una tentazione di libertà... Se guardi un bambino che gioca, vedi che è completamente in ciò che fa: gioca e basta, con tutto se stesso. Ma, in un attimo, se inventa un altro gioco, il gioco di prima sparisce dal suo orizzonte, non lascia traccia: il bambino non lo possiede, il gioco non è un suo possesso e lui non ne è posseduto. Nel nostro lavoro non abbiamo, in un certo senso, alcun possedimento. Nessuno. Non desideriamo difendere una proprietà intellettuale o artistica, un'eredità, di fronte alla società o alla storia. È campo di altri, non il nostro. La sensazione più forte è la gratitudine verso chi ti ha fatto vedere che la casa in cui vivi, e che pensi sia tua, che addirittura senti così vicina a te da confonderla con ciò che ti è più intimo, è solo un luogo di passaggio. Non ti appartiene, non è tua. Percepisci allora più una mancanza che un possesso. Nella vita di tutti i giorni, ogni essere umano ha difficoltà problemi e compiti come se fosse il padrone della casa in cui dimora. Riguardo a tutti gli aspetti del nostro lavoro c'impegniamo senza risparmio, con tutte le nostre forze. Ma, in fondo, come se stessimo giocando, oppure tentando di ricordarci che la casa in cui dimoriamo non ci appartiene.

 

Uno di voi ha chiesto qual è il senso del fare teatro senza un pubblico. È una domanda naturale. Oggi parlavo con un ragazzo molto giovane che mi diceva di voler fare l'attore. Gli ho detto che anche io sono un attore, e lui mi ha domandato che cosa facessi. Quando ha capito che le persone che vengono a vedere il nostro lavoro sono relativamente poche, mi ha detto: "Ah, io non potrei mai farlo, io ho bisogno del pubblico". Allora devi cercare di spiegare. Quale può essere la maniera migliore per spiegare? Forse è non spiegare. Tu che hai fatto questa domanda, scrivici una lettera, dicendo che vorresti venire a vedere Action e, quando ci saranno dei posti liberi, t'inviteremo. Vieni a vedere che cosa facciamo. Da parte nostra, noi proviamo ad invitare, prima o poi, tutti coloro che ci chiedono di vedere il lavoro. Io posso parlare, tu leggere ed essere anche molto perspicace, riuscire a cogliere ciò che si cerca di dire tra le righe, ciò che si cerca di dire con le parole e che, a parole, non può essere completamente espresso, ciò che traspare nel non-detto. Tra oggi e domani, in tutto ciò che dirò, cercherò di rispondere alla tua domanda. Però, la cosa fondamentale è vedere. E poiché vedere è possibile, allora scrivimi, vieni a vedere e un aspetto di ciò che facciamo ti sarà più chiaro. Puoi anche chiederci di tenerti al corrente dei progetti che creiamo, per esempio The Bridge: Developing Theatre Arts, ed essere informato di quando presentiamo One breath left, di cui ieri avete visto dei frammenti.

 

Senza una conoscenza di prima mano, oppure senza aver mai visto Action, è difficile comprendere quale possa essere il senso del nostro lavoro per chi lo fa, e anche farsi un'idea di che cosa si tratti. Ieri sera, nello studio del vostro professore, mi sono messo a sfogliare alcuni libri di storia del teatro e ho trovato molti passi sul nostro lavoro. C'erano molte cose interessanti, ma anche molti malintesi. E' istruttivo vedere quanti ne possano sorgere, anche quando provi ad essere chiaro. Per esempio, in uno dei saggi che ho letto si afferma che Action del Workcenter è una struttura su cui si lavora dal 1986, una struttura la cui elaborazione è iniziata, addirittura, durante l'Objective Drama Program, in California, e che poi si è sviluppata cambiando nome: prima, a Irvine in California, si chiamava Main Action, poi in Italia ha preso il nome di Downstairs Action e, adesso, si chiama semplicemente Action. In quel saggio è detto che si tratta della stessa Azione che si è sviluppata e, sviluppandosi, ha cambiato nome. Non è così, e basta leggere con attenzione e senza preconcetti i testi di Thomas Richards per rendersene conto. Main Action, Downstairs Action, Action: strutture completamente diverse l'una dall'altra, ognuna creata con canti diversi, testi diversi, e soprattutto con un materiale - cioè quello che succede, ciò che viene fatto - un materiale dicevo, diverso e indipendente, e con persone diverse. Si tratta di strutture distinte (inoltre tra l'una e l'altra, per esempio, tra Downstairs Action e l'opera attuale, Action, sono state create altre Azioni che nessuno ha mai visto). Questo è soltanto un malinteso tra i tanti. Leggendo quel saggio ci si domanda, come ha fatto uno di voi poco fa: "Ma al Workcenter fanno sempre la stessa cosa?" No, non è proprio così. La struttura su cui lavoriamo ora, che chiamiamo Action, è cominciata a nascere nel 1994: siamo arrivati alla struttura di base nel 1995, con un gruppo di cinque persone. Tra i membri attuali del gruppo, gli unici che erano presenti quando è stata creata siamo Thomas Richards ed io. Le altre persone presenti oggi sono tutte arrivate dopo, quando la linea di azione di Thomas e la mia erano già create. Le altre persone che erano al Workcenter quando è iniziato il processo di creazione di Action, sono dovute andare via: avevano altri impegni, oppure il periodo del loro soggiorno al Workcenter era arrivato ad una conclusione naturale, oppure non avevano più soldi per pagarsi da vivere - sapete che non possiamo pagare i membri del gruppo, se non in alcuni casi eccezionali, quando abbiamo un po' di soldi. Così il lavoro sulla struttura avanza in due direzioni: per ogni nuovo membro del gruppo si tratta, in maniera specifica e personale, di cercare il modo di penetrare - senza disturbare - in ciò che viene fatto in Action, con le sue doti e potenzialità individuali; per chi invece è presente e attivo all'interno della struttura da più tempo, la possibilità è avvicinarsi a risorse inesplorate, risorse che si rendono disponibili - a volte all'improvviso, a volte gradualmente - soltanto attraverso la ripetizione creativa negli anni. Le persone che ci contattano chiedendoci di lavorare con noi, perché vengono? Perché ci scrivono? Ci mandano una lettera di motivazioni, ma ti accorgi che la motivazione non sta in ciò che è scritto. Che cosa cercano? Con il tempo, lavorando, ti accorgi che la motivazione sta nell'atto stesso, e nella risonanza che l'atto ha in te: la scopri facendo.

Io stesso, perché ho cominciato a lavorare al Workcenter? Avevo visto nell'86 una conferenza di Grotowski, non sapendo niente di Grotowski né del suo lavoro. Be', non proprio niente. Per alcuni anni, fin da ragazzo, avevo lavorato con un gruppo teatrale in Francia, al di fuori dell'ambiente professionale: in ciò che facevamo c'era una specie d'intensità estrema ma, temo, il livello del nostro lavoro non era molto alto. Non avevo una lira e praticamente facevo la fame; però mi sembrava di partecipare ad un'avventura importante e di fare davvero qualcosa. Poi, una volta, di ritorno a Firenze, per caso lessi in un quotidiano che quel giorno Jerzy Grotowski avrebbe tenuto una conferenza. A Parigi, due anni prima, camminando con una persona più dotta di me, avevo visto un manifesto in cui c'era scritto: "Corsi di teatro: metodo Grotowski". Avevo chiesto chi fosse questo Grotowski e il mio collega, meglio informato, mi aveva detto: "Ah, è un polacco che organizza degli incontri nei boschi". Probabilmente si riferiva al Parateatro o al Teatro delle Sorgenti, di cui allora non sapevo niente, ma rimasi colpito dall'idea di persone che s'incontrano nelle foreste polacche, che m'immaginavo alquanto selvagge. Allora, a Firenze, in- curiosito, sono andato a quella conferenza.

Mi avete chiesto della "qualità" del silenzio di Grotowski di cui parla Thomas Richards. Cosa fosse quel silenzio, non lo so. Se gli chiedevi qualcosa, Grotowski cercava di darti una risposta, non con delle formule già fatte, provava in maniera attiva a vedere se poteva darti una risposta, o se poteva aiutarti a cercarla. Vedevi qualcuno che s'impegnava e pensava. Quando parlavi con lui, ti ascoltava davvero, come se nient'altro esistesse al mondo. Non so se, come mi chiedete, questo sia legato a ciò che Thomas chiama "azione interiore". Forse c'è un legame, ma più nel senso di una canalizzazione, una messa in direzione. Normalmente, le mie forze mentali e fisiche vanno dove vogliono, a caso, qua e là. Quando qualcuno fa uno sforzo per dirigerle in una data direzione, questo sforzo può essere percepito come una certa qualità di presenza. E' come trovarsi di fronte ad una sostanza umana più densa del solito. C'è anche qualcos'altro: Grotowski era molto malato, soffriva di una grave malattia cardiaca. Ogni sforzo, anche minimo, gli costava caro. Se doveva fare qualcosa d'importante, restava per settimane senza vedere nessuno, eccetto Thomas e me, economizzando al massimo le sue forze. Nel momento in cui doveva lavorare e impegnarsi in un compito importante, percepivi in lui, benché non avesse forze, come un ascendere, come una trasparenza. Una qualità. Dopo, per settimane, pagava per quell'impegno. Questa sua capacità, o conoscenza, era come una lezione essenziale.

Alla conferenza di cui ho parlato, ad introdurre Grotowski c'era uno studioso di teatro che non conoscevo. Non andavo mai ad assistere a conferenze o discorsi, e non ero per niente abituato a quel genere di situazione. In realtà avevo grandi difficoltà ad ascoltare - ero intollerante, impaziente: non sapendo chi fosse questo Grotowski, trovavo che il professore fosse un po' nervoso e non ne capivo il motivo. Durante l'introduzione si presentò una mia reazione abituale, d'intolleranza appunto, di ribellione, per poi trasformarsi in una sorta di sopore: mi sembrava che la vita scorresse altrove, volevo andarmene. Ma rimasi. E non appena lo studioso ebbe finito di parlare e Grotowski prese la parola, ci fu come una frustata nella sala, e tutti improvvisamente si svegliarono. Senza volerlo, ero all'erta, come di fronte ad un pericolo. Fu una cosa strana perché, fin dall'inizio, avevi visto in Grotowski una persona evidentemente malata, senza forze e, di botto, nel momento in cui si è mobilizzato per rispondere al professore e poi per fare la sua conferenza, ti rendevi conto di una forza, di una presenza, di fronte alla quale non potevi rimanere indifferente, era qualcosa che ti faceva paura e insieme ti affascinava. E, poi, ti accorgevi di una competenza. A quel tempo ero estremamente diffidente rispetto a qualsiasi tipo di competenza e professionalità, ero ribelle, violento, aggressivo. E' stata la prima volta in vita mia che, dopo qualche minuto che ascoltavo, mi sono detto: "Madonna, costui sa di che cosa sta parlando". Ho avuto la percezione d'ascoltare per la prima volta qualcuno che sapeva che cosa stava dicendo. E' stata una scossa: ero convinto che nessuno mai avrebbe potuto dirmi o insegnarmi qualcosa. E, evidentemente, quel signore potente e fragile assieme poteva, e forse voleva. Feci di tutto, allora, per riuscire ad avvicinarmi, per far sì che m'insegnasse qualcosa. Ero confusamente cosciente che se avessi continuato sulla strada su cui mi trovavo allora, sarei diventato matto, un outsider, e il mondo contro il quale mi rivoltavo mi avrebbe mangiato. Avevo già creato un vuoto, una specie di deserto intorno a me: non trovando nessun posto in cui mi sentivo a casa, scaricavo la mia frustrazione all'esterno, come se l'esterno fosse responsabile, come se il mondo fosse responsabile. Forse un po' lo era, ma non solo. In quell'uomo percepivo una competenza, una conoscenza reale.

Grotowski in quell'occasione non parlò solo di teatro. Se non mi sbaglio, lo studioso nella sua introduzione disse di aver sentito Grotowski affermare l'esistenza di una complementarietà tra teatro e società. Grotowski aveva co-minciato la sua conferenza rispondendogli: "Non so se ho mai detto qualcosa al riguardo in passato, non me ne ricordo, però so che il teatro non è qualcosa che si possa mettere in una scatola". Non è entrato in polemica ma ha cominciato a parlare di creare un proprio spazio di libertà. Chiedeva: "Questa vita vi basta? Siete felici?", e diceva che, se uno sente una mancanza deve fare qualcosa, agire in risposta a questa mancanza. Non una mancanza nella società, ma nel mio modo di vivere. Era una cosa forte per me, alla quale aspiravo, ed era evidente che tutto ciò che avevo provato era stato un fallimento. E lui continuava, senza darmi il tempo di respirare o di compiacermi: "Come creare questa libertà? Come fare la rivolta, e non parlarne? Per prima cosa, credibilità professionale. Per prima cosa, sappi che cosa che stai facendo". Non mi ero mai posto il problema in quei termini e, se me lo avesse detto chiunque altro, avrei detto: "Che banalità! Che discorso da borghese!" Ma dietro alle parole di Grotowski c'era un tale carico di senso, di competenza, d'esperienza che... mi dicevo: "Da sempre avresti voluto sentire qualcuno dire queste cose".

 

Adesso voglio passare ad un altro tema, alla domanda sulle azioni fisiche: per me, un'azione fisica è qualcosa che non si può definire in maniera esauriente. Perché la chiamiamo "azione fisica"? Perché Stanislavskij ha detto "azione fisica"? A quanto ci raccontava Grotowski il motivo è semplice, d'ordine pratico: gli attori di Stanislavskij erano abituati a lavorare con la cosiddetta "memoria emotiva" - quando recitavano, in certi casi la loro attenzione si volgeva alle emozioni, al mondo psichico, all'auto-osservazione, verso l'interno, a cosa sentivano. In quel periodo provavano disperatamente a richiamare precise emozioni, in un certo senso a manipolare la loro vita psichica. In contesto "drammatico" - nel senso etimologico della parola, nell'agire - l'attore deve essere attivo fuori, nel mondo esterno, in relazione: deve essere attivamente presente in relazione al suo partner, immaginario o reale che sia, la sua vita deve scorrere verso l'esterno, la sua attenzione andare verso l'esterno - ascoltare, vedere, percepire. Ad un certo punto, Stanislavskij si è accorto che qualcosa non funzionava: era evidente che, provando a manipolare le proprie emozioni, gli attori in realtà "pompavano" degli stati emotivi, forzavano, violentavano i loro processi psicologici e non arrivavano ad essere veridici in scena. Grotowski aveva un esempio perfetto per questo, diceva: "Le emozioni non sono controllabili dalla volontà. Se tu non ami una persona, per quanti sforzi tu faccia, non riesci ad amarla; se ami una persona, non puoi non amarla. Non puoi cambiare ciò che senti". Stanislavskij si rese conto che ciò su cui un attore può lavorare è ciò che fa. "Ciò che fa" non è soltanto qualcosa di fisico. È qualcosa che coinvolge tutto te stesso: la tua carne ma anche il tuo pensiero, la tua vita, i tuoi desideri e le tue paure, e inoltre la tua volontà, le tue intenzioni. Le intenzioni sono legate anche ad un orientamento della mobilitazione corporea ("in-tensione", "in-tendere" verso qualcosa o qualcuno)7 ; sono come un punto di contatto tra un mondo impalpabile e uno palpabile. Un ponte tra quello che desidero e quello che faccio. Per esempio: sto parlando con te, qui, ma me ne voglio andare via - fuori da quest'aula dalla luce scialba c'è il sole, preferirei camminare tra la gente, o mangiare un'arancia. Sto parlando con te ma il desiderio, attraverso il mio corpo, "in-tende" verso la porta, e teso da questo desiderio (di cui posso essere del tutto inconsapevole) il mio corpo già se ne sta andando, è girato verso la porta e tende ad evadere da qui. Se riesco, come attore, a dirigere la mia presenza fisica verso di te, a riorientare la mia "in-tensione", e a dirigere anche qualcosa nella percezione e nel pensiero verso di te, allora forse anche qualcosa del mio mondo interiore può essere coinvolto in ciò che sto facendo, qui, nel mio dialogo con te. Stanislavskij aveva a che fare con attori che avevano lavorato a lungo e con grande impegno cercando di intervenire direttamente sulle emozioni usando la "memoria emotiva". E gli attori spesso, poiché il loro mestiere ha molto d'incerto e precario, si affezionano ai modi di fare, non amano abbandonare la via nota, cercano qualcosa che sia sicuro, stabile, solido... Dunque Stanislavskij ha dovuto fare uno sforzo per far sì che i suoi attori abbandonassero la strada che conoscevano e si avventurassero in un campo ignoto. Non ha parlato di "azioni psicofisiche", ma direttamente di "azioni fisiche", nel senso di ciò che fai con il tuo corpo, come cercando, immagino, di marcare la differenza con tutto ciò che i suoi colleghi e lui stesso avevano cercato in un periodo precedente. Certo attualmente questo termine - azioni "fisiche" - in certi ambienti teatrali si presta ad incomprensione: che le azioni fisiche siano movimenti, movimenti strutturati, eventualmente sostenuti da associazioni e immagini mentali, ma formalizzati, distinguibili dal contenuto associativo. Grotowski quasi in ogni occasione pubblica in cui parlava di teatro sottolineava la differenza tra azioni fisiche e attività, o tra azioni fisiche e movimenti. È un punto fondamentale: non percepire o non comprendere questa differenza significa restare distanti dalla comprensione dei processi creativi propri ad un certo tipo di teatro, per esempio al lavoro di Grotowski.

È apparso di recente un articolo di Franco Ruffini, intitolato La stanza vuota8 . È un lavoro molto istruttivo: Franco vi riporta le conclusioni che ha tratto dai risultati delle sue ricerche, sulle modifiche che Grotowski ha effettuato su testi le cui versioni finali sono poi diventate parte di Per un teatro povero. Dall'articolo è chiaro che Franco ha affrontato una grande mole di lavoro, ed il suo approccio è fertile: fino alla fine della propria vita Grotowski ha continuato incessantemente a rivedere, correggere e aggiornare i suoi scritti e la sua terminologia. Studiare le diverse versioni dei suoi testi, e vederli in una certa misura come lavori in corso, sempre aggiustati, modificati, chiariti, corretti, può aiutare a comprendere come il percorso di Grotowski, anche nel tentativo della documentazione scritta, non sia mai stato monolitico, ma processuale; e a vedere come non fosse attaccato a formulazioni che forse non gli sembravano più corrispondere a ciò che stava realmente facendo o cercando. Ci sono molti punti del lavoro di Franco Ruffini di cui vorrei discutere con un po' più d'agio - non sono d'accordo con alcune sue conclusioni, e si tratta di temi importanti - ma farlo adesso ci prenderebbe molto tempo, e ci allontanerebbe dall'argomento di cui stiamo parlando. Ma vi è un passaggio del suo articolo che mi fa pensare proprio alla questione della differenza tra azioni fisiche e attività: vi è riportato un brano tratto da un testo di Grotowski, brano che poi Grotowski ha eliminato dalla versione definitiva del testo, che è diventata parte di Per un teatro povero.9 Il brano in questione è una specie di esercizio di scomposizione ritmica di un tema dato. Il tema è "accendere una sigaretta" - allungo il braccio, prendo il pacchetto, apro il pacchetto, scelgo la sigaretta, estraggo la sigaretta, rimetto il pacchetto a posto, e così via fino all'accensione della benedetta sigaretta. Non so che cosa Grotowski dicesse di quest'esercizio nella versione del testo anteriore al taglio. È certo significativo che abbia tagliato il brano ed eliminato l'esercizio. Non conosco il motivo del taglio, forse Grotowski semplicemente non ha voluto inserire tra gli esercizi per gli attori un esercizio di scomposizione ritmica che era costituito da una serie di attività fisiche, simili a lavare i piatti o bere un bicchiere d'acqua. Ma significativo, da un altro punto di vista, è anche il fatto che Franco Ruffini nel suo articolo definisca questa lista di attività fisiche una "tipica linea di azioni fisiche secondo Stanislavskij" e dica che le piccole sequenze in cui si può scomporre l'accensione della sigaretta siano ciò che nel libro di Thomas Richards Grotowski chiama "morfemi del recitare". Ma le sequenze dell'esercizio nel brano tagliato non sono azioni fisiche, "morfemi del recitare" - "impulsi prolungati in azioni"10 - ma movimenti articolati, attività. D'altronde è buffo; questo della sigaretta è proprio uno degli esempi (insieme ad accendere la pipa e bere un bicchiere d'acqua) cui Grotowski ricorreva più spesso nelle sue conferenze, quando cercava di spiegare la differenza tra un'azione fisica e un'attività. Diceva che le attività possono diventare azioni - accendersi una sigaretta per esempio: immaginiamo che, siccome la vostra domanda precedente mi ha messo in imbarazzo, per prendere tempo e poter così pensare a come rispondervi, io mi accenda una sigaretta. Le attività (cercare il pacchetto, aprirlo, prenderne una sigaretta...) acquistano allora un altro valore, sono unite tra loro da un'intenzione, legata per esempio ad un desiderio o ad una paura: hanno in un certo senso un bersaglio e possono allora diventare azioni.11 In ogni caso, al di là della comprensione o meno della differenza tra attività e azioni fisiche (sebbene purtroppo non si tratti solo un problema terminologico), di sicuro si può lavorare, e creativamente, anche costruendo partiture di movimenti, o imparandole da qualcun altro, e poi nutrendole con le proprie associazioni e intenzioni. Certo, per fortuna non esiste una sola strada alla creatività. Ma quando una struttura è vissuta pienamente, con tutti i suoi contenuti, allora diventa molto difficile distinguere tra "partitura fisica" e intenzioni. Nel nostro lavoro (mi riferisco qui al modo in cui Action è stata creata, e anche al suo approfondimento e sviluppo, che continuano ancora oggi), quando strutturiamo un frammento di azione per poterlo ripetere e approfondire, in genere nemmeno nella fase iniziale separiamo un aspetto formale da uno interiore: strutturiamo quasi esclusivamente intenzioni e associazioni, o forse dovrei dire "impulsi"? Nel modo in cui strutturiamo di solito un frammento, non c'è un contenitore distinguibile da un contenuto, o una "struttura esterna" riempita di una "sostanza interna"; certo, il lavoro non è informe, casuale, amorfo - anzi, vi è paradossalmente un aspetto compositivo molto forte e chiaramente visibile - ma il livello per così dire formale appare solo in conseguenza di un processo. D'altronde non è detto che, in certi casi, non si possa lavorare in modo del tutto diverso. Per esempio, il frammento che durante Action ha in un certo senso la funzione di un prologo: è una composizione di azioni e testo, che è stata creata, con il nostro aiuto, da un attore che attualmente non lavora più con noi. Quando, per impegni che aveva preso in precedenza, quest'attore è dovuto partire, sono io che ho ripreso quel frammento. Poco prima della sua partenza, un giorno che lui aveva l'influenza e non poteva lavorare, abbiamo fatto Action senza di lui, e sono stato io a fare il frammento iniziale, che di solito faceva lui. Ho mantenuto quel che mi ricordavo della sua struttura, e l'ho fatta come si fa quando si gioca, senza paura di sbagliare o di non essere all'altezza. Poi, sempre prima della sua partenza, ho imparato minuziosamente la sua "partitura": lui faceva un frammento, io guardavo e lo rifacevo. Thomas stava all'esterno e mi aiutava. Ho imparato quella composizione esattamente, e ho cominciato a farla - non in maniera tecnica, non freddamente - tutte le volte che facevamo Action. Sinceramente non so dire se questo frammento, dal punto di vista della composizione e del tempo-ritmo, sia ancora simile a come lo faceva lui, dopo ormai alcuni anni che lo faccio. Sicuramente le motivazioni personali, lo slancio e le associazioni sono diverse dalle sue. Dunque, in questo caso specifico abbiamo applicato un modo di fare diverso, che sembra contraddire ciò che dicevo poco fa sulla maniera di strutturare un frammento senza distinguere tra partitura e intenzioni. È un esempio di come sia impossibile attenersi ad una sola strada: le circostanze, le persone, le giornate - ognuna è diversa dall'altra. Non solo: i diversi frammenti di un opera possono essere creati in modi totalmente diversi l'uno dall'altro.

Giustamente al giorno d'oggi l'azione fisica è tra i temi obbligati della storiografia teatrale. È chiaro però che un attore può fare un lavoro straordinario senza sapere assolutamente niente di che cosa sia un'azione fisica, oppure utilizzando tutt'altra tecnica: le azioni fisiche sono soltanto una delle tante vie possibili. "Al Workcenter si lavora con le azioni fisiche": non so se questa affermazione, così com'è, sia ancora corretta, forse è già qualcosa che rimanda al passato, ad una tappa che era necessaria; oggi, il lavoro sulle azioni fisiche è in certi casi un elemento ancora fondamentale, ma è un elemento tra gli altri, ed in ogni modo il nucleo, l'asse della ricerca condotta al Workcenter è il lavoro sui canti di tradizione. Ma se un giorno fai qualcosa di vivo in un frammento di azione, il giorno dopo uno dei modi per riavvicinarti a quell'esperienza e riviverla può passare attraverso il ritrovarne motivazioni e impulsi attraverso il corpo: la tecnica delle azioni fisiche - se la si può chiamare una "tecnica". A volte mi pare che può essere utile parlare ad un attore di "azioni fisiche" quando costui riesce solamente a creare delle partiture di movimenti e gesti, partiture di manipolazioni muscolari. Quando vedo un giovane attore strutturare del materiale proveniente da un'improvvisazione, spesso noto che cerca di ritrovarne la vita riproducendo i movimenti che si ricorda di aver fatto, in modo formale. Per aiutarlo forse puoi chiedergli perché fa una certa cosa, un certo movimento, perché per esempio cammina in un certo modo e suggerirgli di tornare verso le intenzioni che lo attraversavano durante l'improvvisazione. Quando invece in ciò che fa è già presente un processo organico, un agire complesso in vista di qualcosa o qualcuno, una linea di comportamento costituita da ciò che posso chiamare "azioni fisiche", allora definire e fargli sapere che ciò che sta facendo sono "azioni fisiche" diventa inutile: ciò che fa rifugge dalla semplificazione, dalla segmentazione - che implica un'auto-osservazione - in corpo-che-si-muove, testa-che-pensa, cuore-che-sente. Quello che vedo allora è una totalità in atto, un essere umano le cui forze, consce e inconsce, concorrono insieme alla realizzazione di un'esperienza, all'esplorazione di un attimo di vita, ad una pienezza.

 

Uno di voi mi ha domandato se nel nostro lavoro non ci sia il rischio che un processo potente possa sommergerti, sopraffarti. Certo, questo rischio esiste, e per questo c'è una struttura, che tra l'altro diventa con gli anni sempre più dettagliata. La struttura è lì perché tu possa ripetere quello che hai fatto, riavvicinarti ad una certa esperienza: non riprodurla, ma riviverla. E non sarà esattamente la stessa cosa. La struttura è lì perché questa ripetizione possa aver luogo, perché a questa esperienza ci si possa avvicinare ogni giorno, ogni giorno: attraverso la ripetizione, l'esperienza può approfondirsi, i limiti del conosciuto possono dissolversi e ricomporsi un passo più in là, un passo più là in un territorio che non conosci. E hai una struttura, non fai un passo nel vuoto. Ripeti tutti i giorni, e da questa ripetizione qualcosa di speciale può apparire. È come se un frammento di una linea di azione diventasse un tuo amico, una persona che ami; a questo frammento ti avvicini ogni giorno come cercando di risvegliare in te il fatto che non lo conosci. Da questa conoscenza della prima volta, prima volta ripetuta giorno dopo giorno, può nascere una relazione molto forte tra ciò che fai e ciò che sei.

Vorrei sottolineare che le strutture su cui lavoriamo sono incredibilmente minuziose. Se lavori per cinque anni, tra le altre cose, su un frammento di quattro minuti, questo frammento ogni giorno diventa sempre più dettagliato e rigoroso nella struttura... Le strutture su cui lavoriamo, lo ripeto, non sono di natura formale, sono strutture di linee di azione - intenzioni, reazioni, relazioni e contatti, diciamo, orizzontali - oppure sono strutture di "intenzione" verso quello che Thomas chiama "azione interiore". Altro elemento strutturale molto potente sono i canti. I canti sono assolutamente precisi, precisa è la melodia, precisi il ritmo, la risonanza, le parole, così precisi che richiedono un'attenzione continua. E, in più, le relazioni tra partner sono così strutturate che lui, il mio collega, sa che dopo aver avuto una connessione con lei, devo contattare lui. In ogni secondo so cosa devo fare. Eppure, questa struttura è solamente un tentativo. Il problema non è se esista o meno una tecnica. Il fatto è che nessuna tecnica, di per sé, può realmente aiutarti in tutto.

 

Ieri avete visto gli attori di Singapore che lavorano con noi nel Progetto The Bridge: Developing Theatre Arts mostrare alcuni frammenti di One breath left. Che posto hanno le azioni fisiche in ciò che fanno? "Azioni fisiche" è un termine che funziona bene nell'ambito di un certo teatro, per lo più occidentale. Per un attore orientale, o per un attore occidentale con un altro temperamento, la strada può essere molto diversa: può trattarsi di creare una composizione, ossia di articolare il suo slancio in una struttura ritmico-spaziale, qualcosa di completamente diverso dalla creazione di una linea di azioni fisiche. Se vedete degli attori di tradizione orientale, per esempio dell'Opera di Pechino, vi rendete conto che quello che fanno è "artificiale": si tratta di strutture formali che vengono apprese tali e quali sono state tramandate dalla tradizione. Allora, fanno delle azioni fisiche? No, non tecnicamente. Mi sembra che si tratti di qualcos'altro. Troviamo qui come una composizione di forme, perfettamente articolata in termini di ritmo e spazio, che ha un senso compiuto per uno spettatore (può definire un personaggio, una situazione, raccontare una storia). E in questa composizione l'attore entra con slancio, senza ostacoli. E la forma diventa un canale molto efficace per la sua forza vitale. All'interno di questo canale molto preciso, si hanno delle possibilità di modulazione, d'improvvisazione. Questi spazi d'improvvisazione sono minuscoli; un osservatore a volte non può neanche riconoscerli. Può trattarsi dell'ordine di alcuni elementi, di alcuni dettagli, oppure, in maniera più sottile, della modulazione del proprio slancio all'interno di questo canale. Ora, le persone che avete visto lavorare ieri - i membri attivi al Workcenter in seno al Progetto The Bridge: Developing Theatre Arts - non vengono da un ambiente tradizionale, non sono stati allenati anni e anni all'interno di una struttura artistica e sociale paragonabile all'Opera di Pechino. Sono come noi, esseri umani senza un bagaglio artistico tradizionale. Fatto sta però che lavorando con loro, su frammenti performativi e su canti tradizionali cinesi, e poi sulla creazione di una struttura diciamo spettacolare, abbiamo visto che una possibilità creativa consisteva nel creare delle composizioni, non tanto delle composizioni formali, cioè delle partiture di movimenti e forme, ma qualcosa che potesse servire loro come un canale, come il letto di un fiume. C'è in queste composizioni un aspetto ludico, di gioco, e un aspetto legato invece alla creazione di segni riconoscibili dall'esterno, ma non solo. Comunque, durante il lavoro, ci siamo accorti che non si trattava di azioni fisiche. Sì, c'erano dei momenti di relazione e intenzione, ma queste relazioni e intenzioni erano più legate all'elaborazione articolata di segni che non a ciò che succedeva tra i membri del gruppo all'interno del contesto della struttura. Allora, non ho ancora un nome per ciò che fanno, non lo so dire, ma so che non si tratta di azioni fisiche. Uno di voi suggeriva che potrebbe trattarsi di azioni in potenza, di ciò che Grotowski chiamava "impulsi"... Vediamo: Grotowski diceva che l'impulso è qualcosa di misterioso che, forse, non appartiene completamente al campo fisico, biologico; c'è qualcos'altro dietro un impulso. Ad un certo punto, nel suo primo libro, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche12 , Thomas Richards parla del passaggio dal lavoro sulle azioni fisiche in campo realistico al lavoro sugli impulsi in campo non più realistico, della creazione di una sorta di flusso d'impulsi che non si articolano totalmente in azioni compiute all'esterno: in quel caso, è come vedere un essere umano che, improvvisamente, diventa un fiume in piena, un flusso di vita, qualcosa di concettualmente inafferrabile ma che ti tocca profondamente, che parla a tutto te stesso.

Nel lavoro che facciamo con gli attori di Singapore non si tratta esattamente di questo: sì, c'è là una relazione interessante tra composizione e impulsi, ma non un flusso organico d'impulsi che sono poi strutturati rigorosamente; sono piuttosto composizioni create per lo più dall'esterno, "affidate" agli attori, che poi, in un modo o nell'altro, trovano il modo di entrare senza esitazione in quegli argini con tutta la loro presenza. Inoltre, queste composizioni sono messe in contatto con l'approccio ai canti tradizionali cinesi: questo è un nuovo aspetto del lavoro attuale, un aspetto legato alla ricerca sui canti vibratori sviluppata negli ultimi 14 anni al Workcenter. Tutto questo rappresenta un campo d'investigazione estremamente fertile per noi, qualcosa di nuovo e sconosciuto. È un po' come se stessimo creando una struttura spettacolare - una struttura cioè, che prenda in considerazione uno spettatore - che nello stesso tempo possa rinviare ad un altro tipo di lavoro, che crei addirittura come la "nostalgia" di un'altra cosa.

Immaginate un monastero (dico immaginate perché non so se qualcosa di simile esista davvero), in Asia, all'interno del quale i monaci fanno delle danze che in un certo senso sono la loro preghiera, il loro lavoro. Immaginate che queste danze non vengano viste dalla gente del villaggio, che pure dà ai monaci di che mangiare e di che vestirsi. E immaginate che, due o tre volte l'anno, sul sagrato all'esterno del tempio, sulla porta, i monaci eseguano altre danze, che la gente del villaggio viene a vedere e che contengono certi elementi di ciò che viene fatto dentro al monastero, dietro la porta. Per noi il Progetto The Bridge è qualcosa di simile a questo sogno, a quest'immaginazione. One breath left è chiaramente una struttura spettacolare. In uno spettacolo, il regista ha il potere di creare un montaggio che è rivolto a te che guardi, e attraverso questo montaggio cattura la tua attenzione e ti racconta qualcosa. È questa una delle distinzioni possibili tra Action, l'opera attuale fatta al Workcenter nel campo dell'arte come veicolo, e uno spettacolo: in uno spettacolo il montaggio tende a creare una certa storia o un certo tipo di esperienza percettiva nello spettatore, mentre in Action il montaggio mira a creare la possibilità di un certo tipo di esperienza nella persona che fa. La struttura di One breath left prende in considerazione chi guarda in modo simile a come fa uno spettacolo, e in questo è molto diversa dalla struttura di Action. Eppure ci sono dei momenti in One breath left in cui questa funzione del regista - di dirigere, in una certa misura, l'attenzione dello spettatore, il suo flusso associativo - viene come abbandonata: come se abdicassimo da questa posizione di forza. E, allora, cosa succede se abdico da questa posizione e lascio, per esempio, che un canto abbia il suo sviluppo naturale, pur in una situazione che fino ad allora aderiva ad una logica teatrale? Cosa voglio dire con "sviluppo naturale"? A volte, tu canti una canzone e, dopo un po' che la canti, la canzone ti fa qualcosa, come se smuovesse qualcosa dentro di te, ti cambiasse. Per fare questo, la canzone ha bisogno di una certa quantità di tempo, di una durata. Un regista normalmente, oltre alle necessità del processo dei suoi colleghi attori, deve anche tenere in conto quanto tempo lo spettatore possa resistere con la sua attenzione, quanto a lungo possa rimanere presente a ciò che succede di fronte a lui e non mettersi a vagabondare con la mente; il regista deve di solito mantenere la durata di quella canzone all'interno di limiti temporali compatibili con la struttura quale è percepita dallo spettatore (la storia, diciamo). In One breath left, in certi momenti, questa tecnica, questo tentativo di dirigere l'attenzione e il flusso associativo dello spettatore viene abbandonato. Per noi è un esperimento: lasciare andare, e vedere cosa succede.

 

Uno di voi, accennando ad alcuni passi de Il punto-limite della performance, quelli in cui Thomas Richards parla dell'"azione interiore", ha detto che gli sembra vi siano delle perifrasi, dei giri di parole. Una cosa da non dimenticare è che quel libro è nato da un dialogo tra due persone. Negli anni scorsi Grotowski e Thomas hanno provato vari modi di creare una sorta di documentazione scritta del lavoro. All'inizio non parlavamo quasi mai dei processi essenziali, diciamo "interni", del lavoro, perché avevamo la sensazione che in quel periodo, se ne avessimo parlato, qualcosa avrebbe potuto bloccarsi, o forse sentivamo semplicemente che non era ancora il momento di cercare di verbalizzare. Poi le cose sono cambiate. Ci siamo accorti, soprattutto parlando con persone che avevano appena visto il lavoro, che era possibile toccare certi temi. Leggendo Il punto-limite della performance, devi fare uno sforzo diverso da quando leggi un libro che è stato "scritto". Devi fare lo sforzo di ricordarti che stai leggendo un libro che è stato "parlato"... Quando si cercano delle definizioni, oppure anche semplicemente cercando di spiegare qualcosa verbalmente, si corre il rischio di costringere un processo in una forma linguistica più o meno rigida. È lo stesso problema di fronte al quale ci siamo trovati poco fa, quando cercavamo di parlare delle azioni fisiche: diventa impossibile ritrovare nelle formulazioni verbali la complessità e la vita di un processo vivente, tanto più che il senso di quel processo sta proprio nel suo essere complesso, articolato e vivo. Nel momento in cui crei una definizione, hai la definizione ma non hai il processo e non hai, sfortunatamente, una comprensione migliore dell'azione fisica. Allora, l'unico modo di comprendere è legato al fare? Non vi sono alternative? Penso che le alternative esistano, che sia possibile parlare senza dover necessariamente giungere a una definizione che snatura e fissa ciò che si tenta di additare. Thomas nel suo testo ha affrontato questa difficoltà, cercando appunto di non fornire facili definizioni. Il suo è un tentativo di confronto con la questione della documentazione della ricerca; un tentativo per natura non definitivo, perché si riferisce ad una fase specifica del lavoro. Inoltre là si tratta di un livello di complessità maggiore, allorché Thomas cerca di additare con il linguaggio scritto ad un processo ancora più resistente alle parole. Ma Il punto-limite della performance è in forma di dialogo, e questo non è un caso: Thomas stava parlando con una persona, una persona reale che gli aveva posto una domanda e che cercava una comprensione. Se lui avesse scritto e non parlato quel libro, avrebbe potuto dare ad ogni domanda "la" risposta. Invece, lì, ogni risposta è in reazione alla persona che la pone. Allora quello che uno di voi ha definito "perifrasi" è questa maniera di avvicinarsi con le parole a qualcosa che resiste alla formulazione, cercare di indicare un'esperienza. È qualcosa d'inevitabile. Sì, è possibile riassumere in alcune formule, a volte molto rivelatrici, che pure Grotowski ha utilizzato. Per esempio si può dire che "azione interiore" è ciò che Grotowski chiamava "verticalità". È vero, ma con questa equazione abbiamo fatto un passo in avanti nella nostra comprensione? Oppure possiamo dire che "verticalità" si riferisce a ciò che Grotowski chiamava "trasformazione di energia". Abbiamo fatto un passo in avanti? No. Ecco, la parola "energia"... Quando leggo ciò che si scrive del nostro lavoro, o ascolto qualcuno parlarne, mi rendo conto che ciò che la maggior parte degli esperti intendono per energia è la "quantità di forza muscolare e nervosa necessaria per effettuare un certo lavoro". Mi sembra allora che parlino piuttosto di ciò che Grotowski, da parte sua, chiamava "tono", tono muscolare, biologico, e non di ciò che, nel suo vocabolario degli ultimi dieci anni, Grotowski intendeva per "energia". È necessario contestualizzare la terminologia: per quel che riguarda il nostro lavoro, quando parliamo di diverse qualità dell'energia non ci riferiamo ai diversi modi in cui la forza muscolare e nervosa di un attore può essere modellata e modulata nel comportamento scenico. Sarebbe fuorviante confondere ciò che Grotowski e Thomas Richards intendono per qualità diverse di energia (energia "densa" o energia "sottile") con i diversi gradi d'intensità e impegno muscolare, duro o delicato, sapori "forti" o "morbidi", quali si possono osservare nel comportamento scenico di un essere umano - attore, danzatore o cantante - e che sono diventati parte della terminologia teatrale grazie alle ricerche effettuate principalmente nell'ambito dei lavori dell'ISTA.13 Quest'ultimo tipo di analisi delle modalità di rimodellamento della forza muscolare e nervosa di un attore in scena può essere estremamente efficace quando si osserva, per esempio, un attore orientale, e forse anche quando se ne ricerca il principio corrispondente nel lavoro di un attore occidentale. Ma è bene essere consapevoli che Grotowski e Thomas utilizzano la parola "energia" in tutt'altro senso. Dunque: quando in relazione al nostro lavoro parliamo di qualità di energia non intendiamo la forza muscolare e nervosa (spesso a teatro si dice che un certo attore ha energia, che un dato spettacolo è energico...) o la capacità di compiere lavoro. Grotowski e Thomas hanno utilizzato questa parola in mancanza di una migliore: ciò che cercano d'indicare è qualcosa che, sotto vari nomi, si può trovare in diverse tradizioni. I Bauls del Bengala per esempio parlano a volte del vento; due Bauls cantano assieme e poi si dicono: "Amico mio, hai sentito come soffiava oggi il vento?", e si riferiscono al processo interiore legato al loro lavoro sui canti. Riguardo alle qualità dell'energia, possiamo trovare nella terminologia dello Yoga indiano, mutuata dal Samkhya ma utilizzata anche in ambiente tantrico, la distinzione tra tamas, rajas e sattva, tre qualità della Shakti (non tre stati, ma tre qualità che fluiscono senza sosta l'una nell'altra, processualmente): Tamas, letteralmente oscurità, l'energia pesante, vicina alle forze dell'inerzia; rajas, letteralmente polvere, legato all'attività vitale; sattva, la qualità sottile, trasparente, luminosa dell'essere - e poi, ciò che è "al di là di sattva". Può essere interessante anche considerare la nozione di qi in certe correnti tradizionali cinesi, legate alla circolazione e alla, per così dire, distillazione della forza vitale.

La questione può essere affrontata da molti punti di vista: per esempio, si potrebbe dire che in ciò che Thomas Richards chiama "azione interiore" l'energia ascende e cambia di qualità; ma si può anche dire che è il soggetto - io - a cambiare di qualità, come se il mio essere, la mia percezione di me nel mondo e del mondo in me, cambiassero di qualità. Qui, non si tratta di trasformazione in senso teatrale: voglio dire che non si tratta della trasformazione del comportamento operata da un attore, quando passa da un modo di fare quotidiano ad uno "extra-quotidiano", per esempio al comportamento proprio ad un personaggio o alla logica di azione di un personaggio. Nondimeno è importante capire che non riteniamo affatto di avere il monopolio di questo tipo di ricerca; fatto sta che ci siamo trovati ad avvicinarci a questo processo non strettamente teatrale attraverso il teatro e un savoir faire teatrale. Ma ciò non vuol dire che non vi possa essere, altrove, qualcun altro che, in modi diversi, cerca la stessa cosa attraverso il teatro.

Nelle lezioni al Collège de France, Grotowski aveva iniziato a mettere in discussione la sua formulazione "trasformazione di energia" - non il lavoro in sé, ma quel particolare modo di indicare verbalmente il processo. Come se sentisse che già stava nascendo l'esigenza di altre formulazioni. Di-ceva allora che forse non si tratta di trasfor-mare un'energia in un'altra, forse è qual-cosa di più vicino a ciò che dice Thomas quando afferma che si tratta di toccare all'in-terno di sé come delle sorgenti sempre più sottili. Ma, siamo andati più lontano, nella comprensione?

Ci sono dei momenti in cui cammino per la strada ed è come se vivessi e percepissi il mondo da sotto l'ombelico: mi muovo, sento, vedo, penso come se fossi una specie di trattore diesel; la percezione, le impressioni che ho delle persone sono dense, spesse, pesanti, c'è qualcosa di inerte in me, che può trasformarsi facilmente e repentinamente in un moto aggressivo. È come se allora il mondo fosse un luogo in cui ci muoviamo attraverso pietre e sassi, le relazioni con gli altri sono secche e aride, oppure fangose e torbide. Poi, magari venti minuti dopo, succede qualcosa e, immediatamente, è come se i colori fossero diversi, più vividi, improvvisamente i miei pensieri stanno in un'altra relazione con me, non mi posseggono; è come se, in me, fossi in un altro posto, ad un altro livello, o piano, di me stesso: se prima ero nella sala macchine o nella cucina, adesso sono sul ponte della nave. Vedo, e quando vedo le altre persone, non vedo più solo pezzi di carne, percepisco che ognuna di loro è un mistero, percepisco che non esisto soltanto io, ma che ognuna di loro è "io", ognuna di loro dice "io", ogni cosa dice "io". È come se fossi in un altro posto. Si potrebbe dire: è come se mi trovassi ad un altro livello di percezione, di fronte ad un'altra soglia.

Mi ricordo di quando ero bambino, magari una mattina di primavera - abitavo in una fattoria: esci di casa e tutto è nuovo, ti accorgi che è arrivata la primavera, il mondo è leggero, il mondo è come un miracolo e senti di appartenere a questo miracolo, ne sei parte. E nello stesso tempo sei nessuno, e da questo essere nessuno, come una gabbia che si rompe, una gioia è percepita. Sì, certo, dipende da quali sono le proprie preferenze. La mia preferenza sarebbe provare ad uscire dall'inferno, e non rimanerci. Spesso nell'inferno ci si tiene stretti l'uno all'altro, tu provi ad uscire, io ti acchiappo pei piedi: "No, rimani anche tu qui. Ci sono io, ci stai anche tu".

Per me, è come se quel signore polacco ci avesse lanciato una sfida: "Cantate. Può succedere qualcosa?" Attraverso quel signore e questi canti, abbiamo scoperto una possibilità? Forse, piccola: qualcosa, attraverso il lavoro su questi canti, può succedere. È come se, improvvisamente, quella luce, quei colori di quella mattina li rivedessi - io, nessuno: una gabbia che si apre per un momento. In quel momento qualcosa funziona di nuovo e di nuovo posso dire: "Ecco, è un miracolo. Questo mondo è leggero ed io sono parte di tutto questo". E, poi, forse ancora un po' più su: "Questo mondo è un miracolo. E io non sono più parte di tutto questo. Io chi?" E, poi, questa percezione finisce, e a volte ne rimane in te e con te come una risonanza. E non sei migliore di prima, hai solo tentato, quasi disperatamente, di tornare a casa.

 

Mi chiedete quale sia il senso di tutto questo, l'obiettivo, tanto più che è visto da pochi e non è uno spettacolo. Potrei dirvi che "vogliamo creare una nuova forma d'arte ribelle ai modi di produzione artistica attuale, che possa sopravvivere e infiltrarsi in questa civiltà in cui le relazioni umane sono estremamente rapide e nello stesso tempo ne combatta la tendenza, creando negli artisti che agiscono la percezione del presente reale al di là di dogmi o credenze o ideologie". Be', non solo non sarebbe vero, soprattutto non avrei detto proprio niente. Inoltre sarebbe pericoloso formulare un tale programma, perché, piano piano, mi potrei convincere che è proprio così, che questo è davvero il nostro indirizzo, la nostra intenzione, ed è l'indirizzo giusto, l'unico indirizzo giusto, quello che tutti dovrebbero seguire; se tu allora mi dicessi, a torto o a ragione, che il nostro indirizzo non è giusto, potrebbe andare a finire che ti uccido, perché siamo fatti in questo modo, perché si cade così facilmente nella stupidità, nel fanatismo, soprattutto in campi come questo. Quando ti avvicini a ciò che fai con una "piattaforma programmatica" è possibile che tu dimentichi quello che stavi facendo o la motivazione reale per cui lo stavi facendo - motivazione intima che non puoi esprimere - e scambi il tuo progetto con la tua motivazione. Il progetto allora diventa prioritario: lo devi difendere ad ogni costo, contro le difficoltà, contro altre ideologie. Così, parlando di obiettivi, ci possiamo mettere a litigare quando, magari, quello che facciamo, tu ed io, o io e lui, nasce dallo stesso impulso. L'obiettivo non c'è, o è segreto. Un albero: non ha un obiettivo, è una manifestazione in cui la vita si articola a suo modo, in qualcosa di estremamente complesso.

Quando una persona viene a vedere il nostro lavoro e, dopo, senti che sta in piedi accanto a te, come se ti dicesse: "Sì, capisco", allora respiri un po' più liberamente. Ma da qui a dire che il nostro lavoro serve... Chi serve? Serve alla società? Quale società? Tutto ciò è pericoloso. Qui bisogna essere lucidi: qual è la società che voglio servire? Qual è il mondo che voglio servire? Forse il mondo che voglio servire è una persona.

 

 

 

30 novembre, terza giornata.

 

Domanda: Che cos'è un canto vibratorio?

 

Mario Biagini: Quando Grotowski e Thomas parlano di "canti vibratori" si riferiscono a canti specifici, di natura rituale, per quel che ci riguarda provenienti soprattutto dai Caraibi o dall'Africa. Io non sono certo uno specialista di cultura e tradizione africana o caraibica, ed è bene essere consapevoli che il modo in cui noi ci avviciniamo a questi canti nel lavoro non è una ricostruzione del modo in cui questi elementi vengono utilizzati nel loro contesto tradizionale di origine. Ma Grotowski diceva che quando un canto di questo genere è cantato in maniera piena, il che non vuol dire a voce alta, ma con le sue qualità vibratorie specifiche - nel senso della vibrazione sonora, del suono - e con gli impulsi del corpo a sostegno, è possibile pur non conoscendo il significato verbale delle parole del canto, percepire o comprendere il potenziale che vi è come codificato. Alcuni di questi canti - soprattutto nei Caraibi, o nei luoghi d'arrivo degli africani deportati - non sono nella lingua parlata quotidianamente dalla gente del posto: a volte chi li canta può anche non capirne del tutto le parole. Eppure, se la melodia è cantata in modo esatto, con le vibrazioni sonore e gli impulsi che le sostengono e danno loro vita, puoi come percepire di che cosa si tratta: c'è un aspetto per così dire oggettivo.

Può essere interessante comparare i "canti vibratori" con altri fenomeni, di natura diversa, come per esempio i mantra della tradizione indù o buddista. Il mantra è una specie di cristallo sonoro, una forma sonora molto precisa: se ripetuto per un tempo adeguato con la vibrazione sonora adeguata e con il giusto tempo-ritmo, può avere un effetto su di un individuo - sulla frequenza di alcune funzioni fisiologiche, per esempio la respirazione e il battito cardiaco, e poi, diciamo, sulla frequenza della mente. Anche un mantra ha una natura vibratoria. Una differenza tra i mantra e i canti presenti all'interno del nostro lavoro sta nel fatto che un mantra viene intonato quasi sempre - anche se vi sono eccezioni - mantenendo saldamente il corpo in una posizione statica e come cercando di frenarne le funzioni; invece i canti attraverso i quali passa la ricerca condotta al Workcenter hanno bisogno di essere portati da un flusso di impulsi, di affondarvi le loro radici. Si potrebbe dire che hanno bisogno di essere radicati nelle azioni e reazioni organiche dell'individuo. Allora, per esempio, il respiro non è manipolato come nel caso di un mantra indù o buddista, non ci sono posizioni ma flussi di impulsi attraverso il corpo e sostenuto da questi impulsi il canto si sviluppa. Però, ci sono molte cose istruttive nella tradizione indù o buddista, soprattutto in ambiente tantrico, rispetto al tema della vibrazione sonora. Per esempio, una formulazione classica è: "se mantra e mantrin, cioè colui che recita il mantra, rimangono distinti, il mantra non funziona. Se il mantra non è portato dalla 'forza dell'io', allora rimane un suono vuoto, cavo". Soprattutto in un ramo della tradizione tantrica, l'analisi è stata spinta molto lontano: si dice che ogni suono emesso da un bambino, da un animale, ogni esclamazione umana può funzionare come un mantra quando è riempita e pulsa della vita di quell'essere vivente. Per capire meglio: un uomo dice ad una donna: "ti amo". In queste parole può esserci - dico: "può" esserci... - come una vibrazione sonora, indissolubile dalle parole stesse, una vibrazione che porta in sé il senso, il desiderio, l'aspirazione di quella persona. Le parole "ti amo" allora non portano solo il loro significato, sono veicolo di qualcos'altro. È come se in "ti amo" il suono e il contenuto essenziale non fossero due entità diverse: mantra e mantrin non sono distinguibili. È solo un esempio, ma vedete, chiarisce che non si tratta di convincersi mentalmente che tra se stessi e mantra non ci sono differenze. Per questo nella tradizione indiana si dice che i mantra devono essere trasmessi da qualcuno che ne conosce praticamente il funzionamento, qualcuno che poi lavora con te perché questo cristallo sonoro entri dentro di te e diventi portatore di te stesso.

Mi ricordo una notte di agosto, ero rimasto in città, stavo leggendo un testo tradizionale indiano in cui si analizzava proprio il fatto che un mantra può essere vuoto e dunque inefficace, "come una nuvola che non porta la pioggia", oppure fare tutt'uno con la vita di chi lo pronuncia. La finestra della mia stanza era aperta, la via era deserta, la città era vuota: in quel silenzio ho sentito un suono che non riuscivo a riconoscere, un suono quasi terrificante, con un elemento ritmico, come un vitello che urlava felice, come se un vulcano cantasse. Ho impiegato diversi secondi a capire che cos'era: era una coppia che, qualche isolato più in là, faceva l'amore, era la voce di una donna, ma era come il suono della terra.

 

Domanda: Nel primo libro di Richards14 si fa riferimento a un "unico modo" di muoversi nascosto, codificato in un canto...

 

Mario Biagini: Non ero presente alla sessione di lavoro di cui parla Thomas in quel passaggio del libro (ho cominciato a lavorare con Grotowski nel 1986), dunque posso solo dirvi la mia opinione. Cerco d'immaginarmi la situazione: un gruppo di studenti più o meno motivati, in un seminario di due settimane, e Grotowski con i suoi assistenti. Grotowski lancia una proposta di lavoro, una proposta d'improvvisazione strutturata: deve indicare una possibilità, accennare ad una strada che potrebbe, per uno o due di quegli studenti, essere creativa, aprire una porta. Secondo me in quel caso, la proposta di cercare "l'unico modo di muoversi" codificato in un canto era come una sfida che Grotowski ha lanciato agli studenti che partecipavano al seminario. Un modo per provocare in loro una reazione, per spingerli a cercare in una direzione - ti dice: "Guarda, là c'è nascosto qualcosa, qualcosa di molto antico, scava, prova a cercarlo!" D'altra parte, Grotowski era davvero interessato ad una ricerca che portasse sugli elementi oggettivi presenti nei canti di tradizione: tra le altre cose, sugli elementi di comportamento, anche se non identificabili con ciò che s'intende nella tradizione teatrale occidentale con il "personaggio"; come se ogni canto potesse suggerire, anche indipendentemente dalle strutture culturali acquisite, un tipo di comportamento articolato e non un altro. Durante l'investigazione pratica sull'arte come veicolo, che continua ancora oggi, la ricerca e le scoperte connesse a ciò che Thomas chiama "azione interiore" hanno orientato il lavoro in una direzione che per noi, direi, forse era più essenziale, urgente. Se vedete il film girato da Mercedes Gregory nel 1989 su Downstairs Action, potete notare che ci sono molti passaggi estremamente dinamici, in cui il corpo è pienamente coinvolto, su un livello che parte dalla vitalità, legato alla piena disponibilità e freschezza delle risorse vitali proprie alla gioventù. Se poi siete testimoni di Action, il lavoro attuale, potete accorgervi che quest'aspetto si è come rarefatto, o modificato: il lavoro si è sviluppato, è come se i canti stessi, col tempo, ci avessero insegnato che il canto può entrare dentro di te, e in modo molto potente, attraverso dei micro-adattamenti. Cerchi la strada verso il canto e verso l'"azione interiore" in un flusso di minuscole azioni, come accogliendo, lasciando entrare, accettando il canto. Questo dipende, potremmo dire, da come il canto cerca di entrare e di agire su di te. Un elemento fondamentale della tua struttura è: il canto deve riuscire a trovarti, a contattarti, ad aiutarti a lasciar ascendere qualcosa in te. Come? Ogni giorno troverai una strada che sarà come nuova, ogni giorno intonerai il canto in modo leggermente diverso, perché ogni giorno sarai diverso. Per un osservatore esterno però, questi micro-adattamenti all'interno della struttura possono essere del tutto invisibili.

 

Domanda: Come si imparano questi canti?

 

Mario Biagini: Nel nostro lavoro, chi conosce il canto, ed ha più esperienza di te, te lo insegna. Come? Lui canta e tu canti con lui, esattamente la stessa melodia, seguendolo e cantando ad un volume molto più basso e cercando di essere esattamente in sincronia nella pronuncia delle parole e del ritmo. Il ritmo, nel nostro lavoro, non segue una scansione temporale stabile, fissa, quale potrebbe essere quella dettata da un tamburo o da un metronomo. Il ritmo è dato dalla fluttuazione del processo che il leader del canto cerca di attuare in sé, e dalle sue esigenze in relazione a questo tentativo. Come è necessario un adattamento continuo del corpo, così devi anche come imparare ad adattare (si tratta di fluttuazioni lievi) il tempo-ritmo di quello che stai facendo - dunque anche il tempo-ritmo del canto - in modo che il canto abbia una possibilità di agire su di te, trovandoti disponibile. Il tempo-ritmo allora è più simile ad una cascata, un'onda: cambia leggermente, e tu, se stai seguendo il leader di un canto, devi stare molto attento. Mi ricordo di una sessione di lavoro, molti anni fa, quasi agli inizi - stavo cantando con Thomas, lo seguivo in un canto, e come in una sfida mi dissi: "Questa volta non mi scappa, in ogni secondo sarò in sincronia e intonato con lui". Non so come e perché ma per qualche momento ci riuscii davvero, tutta la mia attenzione era diretta ad essere in sincronia nella pronuncia delle parole, nel ritmo, nelle micro-modulazioni della tonalità, nelle fluttuazioni della vibrazione, fino a che, improvvisamente, mi resi conto che siccome tutta la mia attenzione era lì, diretta verso Thomas, dentro di me stava succedendo qualcosa a mia insaputa, forse proprio perché "a mia insaputa": la mia attenzione era diretta ad un compito preciso, al di fuori di me, così non c'era auto-osservazione, e un aspetto dentro di me era diventato come libero di reagire. Ma nell'istante in cui me ne sono accorto, sono andato fuori ritmo e tutto è finito. In quell'episodio però c'era come un'indicazione: l'essere precisi può avere realmente una funzione, non è qualcosa che vale di per sé.

Questo tipo di precisione ti richiede uno sforzo costante, ogni secondo per tutta la durata della struttura in cui lavori (ad esempio l'opera attuale, Action, dura circa un'ora). Poi, col tempo, magari in sessioni di lavoro distinte dal lavoro su Action, cominci a cantare guidando tu un canto e la persona con un po’ più di esperienza sta fuori, ascolta e guarda, e in un certo senso segue quello che succede dentro di te: per esperienza ha come una sensibilità, come se potesse quasi sentire dove il processo in te è bloccato, dove qualcosa fa ostacolo. Allora magari ti dice: "Lascia andare la mano sinistra, ora fai un passo, ora segui". Non ti spiega perché, ti fa fare. Tu fai, senza chiederti il motivo - ti fidi, fai ciò che ti dice di fare senza esitazioni, e qualcosa succede: come se tu avessi tolto un sasso dal ruscello, e l'acqua potesse ora scorrere.

 

Domanda: Che tipo di rapporto intercorre tra gli uomini di teatro e gli studiosi di teatro?

 

Mario Biagini: Se la tua vocazione è quella dell'analisi del reale, mi sembra che dovresti dirti che, inevitabilmente, il reale ti resisterà. Se uno dei campi d'indagine dello studioso di teatro è l'attore, se il lavoro dell'attore è il suo reale e il compito dello studioso è analizzare questo reale, non solo la natura ma in un certo senso anche la funzione del reale, in una relazione dialettica, in un possibile dialogo, è offrire resistenza all'analisi. Le due vocazioni, in un certo senso, sono come avversarie e il fatto che lo siano è di per sé una fertilità possibile nel rapporto. Tutto quello che abbiamo detto ieri sulle azioni fisiche ha realmente senso per un attore? Ciò che noi chiamiamo qui adesso una "partitura" rappresenta la totalità del mestiere dell'attore? Il mestiere dell'attore è costituito da una serie di tentativi, di sforzi più o meno intensi per toccare qualcosa che lui stesso non conosce, per vivere questo qualcosa e, in certi campi dell'arte, per renderlo anche fruibile a un osservatore o spettatore. Per toccare questo qualcosa di cui è difficile parlare, per avvicinarvisi, l'attore fa dei tentativi. Ora, questi tentativi non possono essere ricondotti ad una tecnica specifica. Voglio dire che non esiste nessuna tecnica che di per sé funzioni, non esiste nessuna tecnica grazie alla quale tu, prima di cominciare un lavoro, puoi essere sicuro di portare quel lavoro a buon fine. La tecnica perfetta non esiste. Esistono molte tecniche, arginamenti alle difficoltà, maniere per eliminare certi blocchi; ma nel momento in cui un blocco viene eliminato se ne crea un altro. E gli ostacoli, i blocchi psicologici, fisici, ecc. per loro natura si trasformano l'uno nell'altro e per loro natura cambiano di continuo. Una volta eliminato un blocco fisico, se ne crea un altro.

Un attore crea un frammento e il suo regista gli dice: "Sì, questo è buono, rifacciamolo!". L'attore prova a rifarlo e, provando, si accorge di non riuscirci, di non esserne capace: di trovarsi in un'impossibilità. Allora, giorno per giorno, insieme al suo regista e ai suoi colleghi, cerca di sviluppare dei modi di fare per poter rivivere quello che ha fatto. Per esempio, costruisce una partitura, memorizzando una serie di piccole azioni, di dettagli, associazioni ("Quando facevo così in quel frammento era come quando da piccolo tornavo a casa, al crepuscolo, il cane mi aspettava sotto quell'albero, e io mi nascondevo dietro il cespuglio per farlo venire da me..."), come dei punti di riferimento, come se gettasse delle ancore qui e là. Ecco, come gettare delle ancore, come cercare di creare dei punti fermi in un oceano in cui non ci sono elementi fissi e stabili, perché la materia su cui si lavora è fluida, è legata alla vita e la vita per sua natura cambia sempre. Così dopo qualche tempo l'attore ha una partitura più o meno completa. Ripeto, sto parlando di una partitura non di forme e di movimenti, ma di intenzioni, azioni e reazioni. Allora, a questo punto può essere che la partitura più o meno funzioni, che sia il più vicino possibile a ciò che l'attore ha fatto quel giorno. Ebbene, anche la partitura in sé, è qualcosa che forse funziona un giorno, forse il giorno dopo non funziona. Per "funziona" voglio dire che è "di aiuto" per avvicinarsi a quell'atto del primo giorno. In realtà, molto dipende da quanto bisogno ha la persona di rivivere quel momento, di compiere di nuovo quell'atto. Da quanto forte è il suo desiderio. Se l'esperienza in quel frammento che ha creato quel giorno è importante per lui come essere umano e dunque lui vuole riavvicinarvisi, toccare di nuovo quel flusso, lasciarsi riattraversare da quella vita che ha sentito, allora troverà delle maniere per farlo. Ma queste maniere, all'interno della struttura, non saranno mai esattamente le stesse, quello che ha funzionato oggi forse domani non funzionerà di nuovo. Forse si, forse no. Allora, che fare? Come dicevo ieri, nel nostro lavoro la struttura non è mai di natura formale, si tratta piuttosto di arrivare alla forma, sempre ogni volta di nuovo, facendo realmente e semplicemente. Per esempio: durante la mia linea di azione ad un certo punto cerco un contatto con lei, che sta al mio fianco; lei non sarà mai esattamente nello stesso luogo, la nostra relazione nello spazio sarà leggermente diversa ogni giorno; dunque quello che dovrò fare per guardarla negli occhi, formalmente sarà diverso. Ma questo è un livello ancora molto grossolano, la realtà è più complessa. Un giorno, appena ci guardiamo, subito riesco a catturare la sua attenzione, e lei reagisce immediatamente alla mia proposta di connessione. Un altro giorno invece forse sono stanco o forse lei è un po' più lenta, forse è arrabbiata, e nel momento in cui mi avvicino è come se fosse lontana: forse, quel giorno mi ci vorranno due secondi in più per stabilire un ponte di contatto, per fare in modo che mi veda. Qual è la partitura? Non è il movimento - volgere la testa, inclinare il corpo facendo un passo nella direzione opposta. La partitura consiste nel fatto che voglio avere un contatto, magari in vista del frammento seguente, o in relazione ad un altro collega.

Qual è il pericolo? Che, data una partitura, io sia poi certo che funzionerà da sola, e che dunque mi sia sufficiente passare per quei punti di riferimento per compiere pienamente ciò che ho da fare. Quei punti di riferimento sono solo puntelli. Sono come le articolazioni di uno scheletro, la cui esistenza è in funzione della carne che sostengono. Se solamente "eseguo" la partitura come qualcosa di distinto dal mondo per così dire interiore, c'è il rischio di un approccio mentale, di un fare "diviso": "Adesso mi giro verso di lei, ora la sto guardando, ora siamo in contatto...", come descrivendo nei miei pensieri ciò che invece dovrei semplicemente fare, con tutto me stesso.

Tempo fa, qualcuno ha domandato a Thomas se è possibile strutturare una linea di pensieri. E certo che è possibile. Non è tanto questo il punto. Il punto è se funziona o meno. Un attore può strutturare una linea di pensieri come elemento fondamentale di un frammento di azione, ma attenzione: anche una linea di pensieri può essere strutturata e poi eseguita in modo del tutto formale. Esattamente come, formalizzandole, si trasformano azioni fisiche e intenzioni in gesti e movimenti vuoti, così si possono trasformare contenuti associativi e intenzioni in formule e frasi mentalizzate, sterili, separandole dagli impulsi - dalla totalità - cui sono organicamente legate. Puoi fissare addirittura le parole da pensare in ogni momento della tua partitura, e ripeterle come una macchinetta, e probabilmente non funzionerà; oppure puoi fissare non che cosa pensi, non le parole che pensi, ma verso che cosa sei orientato, verso che cosa tendi, a che cosa "in-tendi", qual è la tua intenzione. Ed è chiaro che, giorno dopo giorno, la forma che prenderanno i tuoi pensieri cambierà, come cambieranno i movimenti e il tempo-ritmo: cercando un contatto con lei, i miei pensieri saranno ogni giorno un po' diversi, come saranno leggermente diversi i miei movimenti e il tono della mia voce, perché lei sarà differente, e io pure. La struttura è la stessa, le intenzioni sono le stesse, ma qualcosa di formalmente dissimile dal giorno prima potrà apparire. Uno di voi poco fa diceva che un'azione arriva ad aver valore a livello teatrale soltanto quando è artificiale, composta e formalizzata. Non sono d'accordo, perché fortunatamente in teatro non esiste "solo così", o "solo se": ogni persona è diversa, ogni attore è diverso e ogni attore ogni giorno, ogni minuto, è diverso. Fidandosi di un approccio unicamente tecnico o comportandosi come se la sicurezza che dà una struttura fosse di per sé sufficiente, si può perdere col tempo la vita di quella stessa struttura, perché si cesserà di cercare al suo interno ogni giorno la via - che non si conosce una volta per tutte - per fare pienamente. Non si tratta solamente di "eseguire" una serie di movimenti uniti ad una serie di pensieri. Si tratta di rivivere un attimo di vita, in qualche modo. Ma come? Lì non c'è tecnica possibile, ci sono delle tecniche. L'attore deve essere, da un certo punto di vista, estremamente rapido e cosciente delle difficoltà.

Quando per me il rigore, la struttura, l'artificialità nel senso alto della parola, acquistano tutto il loro senso? Quando la forza della vita che scorre dentro un attore è forte, quando davvero in lui succede qualcosa. È ciò che dicevo poco fa in relazione ad un altro tema: la vita farà sempre resistenza ad una struttura; fa resistenza perché vuole uscirne, è più grande, è più piena. Ma non tutto ciò che è preciso, strutturato, rigoroso, ha di per sé valore teatrale e artistico. Un attore può imparare alla perfezione delle tecniche efficaci e raffinate ma, una volta in scena, ciò non basta: magari vedi uno con una tecnica incredibile ma non c'è nient'altro, vedi soltanto una scimmia ammaestrata. Per quel che mi riguarda, l'armatura della tecnica, dell'artigianato, ha senso se protegge una carne viva. La sostiene: paradossalmente, come contraddicendola, le dà forza. E la difende di fronte al mondo.

Siccome ciò che succede in un attore - oppure nella relazione tra due attori, o tra attore e spettatore - è estremamente complesso, cercando di analizzare verbalmente la materia dell'agire performativo, cercando di capire dall'esterno ciò che succede nell'attore o in chi agisce in modo strutturato con la totalità delle proprie risorse, si arriva ad una complessità concettuale che rischia di essere più povera e ridotta della realtà. Quando si parla di una struttura di azione o del lavoro di un attore in generale, si può arrivare senza volerlo a considerare questa struttura, o partitura, alla stregua di un congegno meccanico: c'è questo, questo, poi questo e questo, tanti elementi che si combinano creando la circostanza performativa. Purtroppo non è così, il lavoro dell'attore non consiste solo di composizione, né è un lavoro di sola ingegneria. Questo è un dato di fatto, in certi ambiti teatrali. Neanche il lavoro di un ballerino è ingegneria: per quanto si possa guardare ad una coreografia come a qualcosa di estremamente preciso, di quasi matematico, ad occhi attenti la presenza in scena del danzatore sarà diversa ogni giorno, un giorno sarà migliore di un altro, il giorno dopo invece sarà più scadente - eppure il danzatore fa le stesse cose, esegue la stessa coreografia, ma un giorno è come se volasse, un altro è come se facesse strani esercizi ginnici. E qual è la differenza? Com'è formulabile concettualmente? Non lo so. Il che non vuol dire che da parte dell'analisi storica o teorica ci debba essere una specie di resa senza condizioni, come se non si potesse dire nulla di valido, di reale. Ma trovare questo modo di accostarsi alla realtà, senza arrendersi né alla fatica né alla facilità delle ideologie o delle dottrine, delle consorterie artistiche o estetiche, senza radunare materiale per dimostrare tesi accettate come valide in partenza, forse è compito vostro. Sono convinto che, a volte, basterebbe riuscire a guardare con gli occhi aperti.

Ho letto tempo fa una definizione di che cosa sia un'azione efficace, teatralmente parlando - cito a memoria: l'azione efficace e reale è un'azione "cosciente e precisa". Ma il fatto che la struttura copra solamente un livello del lavoro dell'attore è chiaro quando vedete due attori che agiscono in relazione: ciò che fanno può essere estremamente semplice, eppure non puoi descriverlo esattamente - loro stessi non possono, non sono capaci di descrivere quello che stanno facendo il loro corpo, la loro voce, il loro cuore. Un'analogia: due persone che fanno l'amore non sono mentalmente coscienti di tutto ciò che fanno, dei loro movimenti o dei loro impulsi. Un essere umano che cerca di fare l'amore mantenendo tutto il proprio agire all'interno della sfera consapevole, osservandosi, agisce come una specie di burattino - il suo comportamento avrà qualcosa di strano, di grottescamente artificiale: la sua coscienza non può contenere tutto quello che succede in quel momento, c'è dell'altro. Quando fai l'amore, non solo stai facendo qualcosa di diverso dalla quotidianità, tu stesso sei diverso. Per esempio, in quel momento, non hai paura di come ti vede la persona che è con te, non hai paura di come ti giudica. È come un'esplosione, una mancanza di paura, sì, una libertà. In quel momento non pensi neanche a come sei visto, sei indifeso: sai, o senti, di non aver bisogno di nessuna difesa. Nella vita normale abbiamo di continuo la necessità di porre barriere tra noi e gli altri, delle difese. Forse in teatro c'è una possibilità: farne a meno. Come diceva Grotowski già molti anni fa, forse in teatro si può smettere di recitare.

Un attore non è necessariamente cosciente di ciò che fa il suo corpo, di ciò che la sua mente pensa, di ciò che il suo cuore sente. Anzi, questo modo di osservare le varie funzioni e di dividerle in compartimenti stagni spesso può essere un ostacolo alla creatività. Mi si può obbiettare che l'esempio della coppia che fa l'amore è poco calzante, trattandosi di un'esperienza reale, mentre il materiale proprio al lavoro d'attore in fondo è qualcosa di fittizio. Be', sempre più spesso sento dire che ciò che un attore fa in scena può essere completamente vuoto, non corrispondere ad un'esperienza reale e funzionare lo stesso. Tutti voi conoscete la tesi de Il paradosso dell'attore di Diderot: non è importante che vi sia un'identificazione dell'attore con la logica del ruolo o con il personaggio - in altri termini, che l'attore viva un'esperienza reale in scena; l'importante è che l'attore faccia vivere quell'esperienza allo spettatore. È una delle vie alla creatività, e può arrivare a livelli straordinari. Ma ci sono anche altri modi di fare teatro, in cui ciò che un attore fa non è vuoto, non è frutto di finzione, e forse questo è vicino a ciò che cercava Stanislavskij. Forse è addirittura possibile andare oltre, verso ciò che è più pieno della vita reale, o della vita di tutti i giorni. A volte è per questo che un attore fa questo mestiere. Penso che fosse questo ciò che cercava Grotowski. Qui, dal punto di vista dell'attore, la soddisfazione dello spettatore passa in secondo piano. In quella che Grotowski chiamava linea "organica"15, la struttura non è la messa in coscienza della totalità del comportamento scenico. La struttura concerne i punti di contatto tra il palpabile e l'impalpabile, tra ciò che dipende dalla mia volontà e che cade all'interno della sfera della coscienza e ciò che non sottostà alla mia volontà consapevole. L'attore è cosciente delle sue intenzioni, che vanno verso l'esterno (intenzioni che forse sono suscettibili di risvegliare in lui intenzioni e reazioni segrete, intime, che sono la radice viva, il nucleo fondamentale, caldo del suo atto), ma il modo in cui l'intenzione passa nel corpo attraverso l'agire, passa nella voce, passa nello spazio, passa nel partner... Tutto questo processo non è pienamente cosciente. Nel momento in cui lo diventa, si rischia di ritrovarsi tra le mani una forma vuota. Inoltre, quando trattengo il livello delle mie azioni sul piano cosciente, mi muovo, parlo, faccio solamente secondo modi che già conosco, che sono già registrati nel mio bagaglio di conoscenze tecniche, professionali o umane. Non esco da lì. Ma il campo del reale, della vita, è molto più vasto di questo quadratino. Una delle avventure, delle tentazioni proprie al mestiere dell'attore è uscire fuori dall'area del noto, avvicinarsi ad un territorio ignoto, che quasi ispira timore. Anche per questo si ha bisogno di una struttura, perché almeno sai che in ogni caso la prossima cosa da fare è questa, sai qual è la tua prossima intenzione: nell'oceano senza punti di riferimento hai posto delle boe, non ti perdi. Notate, per piacere, che non sto dicendo che un attore si debba comportare in modo incosciente - sono sicuro che avete già visto fare delle improvvisazioni in stile cosiddetto "grotowskiano": persone che si buttano per terra, urlano, sbattono tra loro facendosi a volte anche male, perdono coscienza di ciò che sta loro intorno e dei loro partner, come sommerse da contenuti inconsci. No. Si tratta di creare una base solida, che ti dia la sicurezza di non perdere il filo: sai che dopo questo viene questo, poi questo, poi questo, anche se tra qui e lì c'è da percorrere tutta una strada che non conosci. Cosa c'è tra due punti della tua struttura vicinissimi tra di loro, A e B? Basta fare un passo per andare dal punto A al punto B. Eppure tra A e B c'è tutto un mondo, perché tra A e B ci sono io, o meglio c'è tutta la mia assenza di me, e tutto lo spazio che ho per trovarmi. "Dove sono? Dove sono?": è una domanda continua. La via per andare dal punto A al punto B della struttura, la transizione tra questi due punti vicinissimi nello spazio e nel tempo, è in qualche modo il segreto per mantenere viva una partitura, ma devi renderti conto che è una strada da tracciare nuova ogni giorno.

Questo vale anche per il cosiddetto lavoro sulla memoria. Si dice spesso che, al Workcenter, molti frammenti di azione sono basati su ricordi personali: si tratta realmente di avvenimenti della vita trascorsa che vengono come riattualizzati? È realmente così? Forse non più, forse adesso si tratta piuttosto di uno dei possibili tentativi per poter vivere di nuovo un'esperienza apparsa nel lavoro. Per esempio - ora sto parlando specificamente del nostro lavoro: una persona inizia un canto e... dall'esterno ti riesce difficile analizzare la transizione, ma quasi di botto è davvero come se il canto si riempisse di una sostanza, cominciasse a cantarsi; tu che stai nella stessa stanza e guardi, ti accorgi che è come se il canto fosse diventato per la persona che canta come un partner, e cantasse con lei; questa persona ora si muove in tutt'altro modo, c'è qualcosa di fluido, senza sforzo, e come una specie di trasparenza, la persona stessa è come trasparente, addirittura il modo in cui la luce si riflette sul suo corpo cambia, come se la pelle accettasse la luce diversamente. Poi, tutto questo finisce e la persona torna come prima, ma rimane in lei e nello spazio intorno come un'eco di ciò che è successo. Bene. Diciamo che vogliamo cominciare gentilmente a strutturare alcuni dettagli per poter dare alla persona la possibilità di approfondire il suo approccio a quel canto. E, allora, per esempio, lei dice "Quando facevo così, mentre cantavo, era come se mi stessi ricordando, in azione, di una volta che ero insieme a mia nonna: lei è caduta e si è messa a ridere, e anch'io mi sono messa accanto a lei per terra, ridendo, e giocavo a rotolare". Come se... Quel ricordo, in qualche modo, per qualche motivo misterioso, funziona da ponte con ciò che stava succedendo in quel momento dentro alla persona: ciò che stava avendo luogo non era legato a quel ricordo, in realtà la persona non sa a che cosa era legato. Ma attraverso quel ricordo, che diventa in azione parte integrante della struttura, è possibile come tracciare un sentiero da ciò che è conscio, evidente, controllabile, e ciò che invece non lo è, ciò che appartiene ad un ambito più vasto, non necessariamente inconscio, ma non riducibile al mondo dei nomi, e che era apparso durante la prima volta. Con il tempo, dopo molti anni di approfondimento e lavoro su di uno stesso frammento di azione di questa natura, la struttura - nel senso di ciò che viene compiuto - si approfondisce, ma è come se quel ricordo che serviva da trampolino per tracciare il sentiero non fosse più indispensabile (o lo fosse solamente in certi momenti di crisi); come se il sentiero stesso adesso ti conoscesse, ti riconoscesse, e tu potessi avvicinarti a lui attraverso la linea di azioni senza l'intermediario del ricordo. Come se, percorrendolo giorno dopo giorno con la guida, per così dire, del ricordo, il sentiero stesso cominciasse ad essere realmente tracciato. Ciò che sto cercando di formulare è delicato e complesso, è qualcosa che solamente oggi posso cominciare ad articolare in parole, dopo molto tempo di lavoro. È un argomento che, da solo, richiederebbe molto spazio. Per adesso vorrei solamente aggiungere che questo approccio, che tende a creare come un ponte, un passaggio o un'osmosi tra l'orizzonte conscio e, diciamo, la vita interiore, oltre ad avere un posto nel processo di strutturazione, con gli anni può anche aiutarti nel momento stesso in cui fai qualcosa di nuovo, quando per esempio stai creando un nuovo frammento di azione.

Dunque, sono convinto che esistano delle tecniche, che possono essere di aiuto in certi momenti, ma è fondamentale essere svelti, svegli, pronti ad abbandonarle. Non da un giorno ad un altro, ma di secondo in secondo. Mentre lavori cerchi, provi, tenti una strada, un'altra, un'altra: "Come fare?". Essere pronti ad abbandonare una tecnica, a trovarsi senza armi in mano. Questo vuol dire che, in certi campi, gran parte di quel che succederà in una data situazione dipende non solo dalla competenza professionale, ma anche dal materiale umano.

La direzione dell'attenzione, del tuo sguardo, può essere molto importante. Quando un attore giovane fa una scoperta nel suo lavoro, vedi che qualcosa dentro di lui si sveglia, diventa vivo. Nei giorni seguenti, sarà ansioso, preoccupato, perché pensa che ci si aspetti da lui che questo qualcosa rinasca di nuovo, che lui sia capace di riviverlo. Allora il suo sguardo, la sua attenzione, possono volgersi verso l'interno, a ciò che succede o non succede dentro di lui, e l'attore può iniziare ad osservarsi. Ma il processo interiore è qualcosa di molto delicato, è come una creatura timida: se la guardi direttamente, scappa. È necessario allora creare le condizioni nelle quali l'attore abbia l'opportunità di dirigere la sua attenzione altrove, sui compiti che ha in relazione ad un suo partner per esempio. Può anche essere necessario liberarlo dall'aspettativa, dal dovere. Per aiutarlo non esistono ricette: la tua responsabilità, nel momento in cui provi ad aiutarlo, è essere sensibile ai suoi bisogni e alle sue possibilità.

Rispetto a questo problema dell'auto-osservazione vorrei anche parlare di un tema legato ad un aspetto molto importante nel nostro lavoro sui canti di tradizione. È difficile da formulare. È come una specie di movimento dentro: il primo apparire di, per esempio, un'emozione è come un moto senza nome, come una forza. Solamente nel momento in cui le do un nome ("questa è gioia, questo è dolore"), diventa una mia emozione. Nel momento immediatamente precedente non era mia, era come un moto, un movimento della natura, qualcosa che passava attraverso. Nell'attimo in cui guardo questo moto, e lo identifico, diventa qualcosa di personale, cui posso anche affezionarmi - come dire? - attaccarmi. Mi sembra che esistano vari tipi di moti: ce ne sono di più legati, per esempio, alla vitalità, ovvero alla sopravvivenza, agli impulsi fondamentali, alla sensualità. Altri sono più sottili, difficilmente percepibili, come un vento leggero è difficile da sentire camminando velocemente. Tutti sono come carburanti: sono davvero forze, slanci o moti che possono dirigersi in una direzione o nell'altra. In quel primo apparire sono come un fremito, qualcosa di percepibile, palpabile. E forse, tutte queste forze o energie, possono essere sostegno per un certo tipo di lavoro. Di solito, queste forze si dirigono verso il loro nutrimento specifico in maniera automatica, molto velocemente: la paura si dirige verso un oggetto, la rabbia verso un altro, la forza più legata alla vitalità verso un altro ancora. Questa messa in moto è istantanea, fulminea: non è dettata da ciò che tu vuoi a livello cosciente, ma da ciò che loro vogliono. Immediatamente inoltre, ciò che percepisco come "io" s'identifica con questi moti e presta loro tutte le sue funzioni. Ma se potessi rimanere in quel loro primo apparire... Forse, c'è un modo in cui queste forze, che sono spesso in lotta tra loro, possono trovare nutrimento non nei loro obiettivi immediati, possono cercare non tanto il proprio appagamento quanto una specie di riconciliazione fra di loro. Come se, servendo qualcosa che è al di sopra di loro, si disponessero lungo un asse, come creando un sostegno, una scala. E su questa scala, qualcosa può salire e poi discendere. L'avvicinarsi a questa scala ha bisogno di essere sostenuto da una competenza artigianale.

 

L'abilità artigianale è un territorio in comune tra l'arte come veicolo ed il teatro. Riguardo a questo aspetto dell'artigianato, attenzione: c'è una differenza sostanziale tra un artigiano e un ingegnere. Il lavoro dell'essere umano in azione non è ingegneria, non lo si può smontare e rimontare con bulloni, viti, chiodi, aste e leve; non se ne possono individuare i fulcri nascosti, le intenzioni segrete. È più simile al lavoro di un giardiniere. Il giardiniere non sa spiegarti a parole come fa a far crescere quelle cipolle così grandi. Tu pensi di fare esattamente le stesse cose che fa lui, ma alla raccolta le tue cipolle sono più piccole e striminzite. Tu gli chiedi: "Ma perché, se ho fatto come hai fatto tu?" e lui borbotta qualcosa a proposito della terra del tuo campo e se ne va: - non può spiegarti. Sa come si fa ma non può dirtelo. Potrebbe insegnarti, ma dovresti lavorare con lui, nel suo orto.

Nell'analisi, penso si debba tenere in conto che ciò che fa un attore non è ingegneria. Se spezzetti una mela, ne guardi un frammento al microscopio o lo sottoponi ad uno spettrografo, non ne saprai di più sul suo sapore: lo saprai se e quando la mangi. Non voglio dire che, per analizzare e comprendere il lavoro dell'attore dovete diventare voi stessi attori; non di meno dovete confrontarvi con una complessità. E non sarà attraverso la complessità delle formulazioni concettuali che toccherete la complessità del reale. Attraverso che cosa vi potrete avvicinare non lo so, ma spesso noto che un libro, per esempio un saggio di analisi storica, mi colpisce quando fra le righe percepisco qualcosa di vivo. Sarà una deformazione professionale, ma l'analisi più minuziosa e dettagliata, quasi gesuitica, di un processo, che corrisponde quasi a quello che succede, se è morta non mi dice niente. Sento che quell'analisi, per quanto possa approssimarsi al flusso del reale, resterà sempre a migliaia di chilometri di distanza dalla comprensione perché le manca qualcosa di fondamentale. A volte invece percepisci in un testo scritto non solo una reale competenza, ma anche una posta in gioco, un'implicazione dello scrivente. Sono convinto che anche in questo campo potrebbe valere quello che Grotowski diceva: "Qual è la tua tentazione essenziale? Che cosa ti tenta?" Mantenendo desta la propria tentazione, come una parte dell'anima che non si lascia intorpidire dal tempo o dalla vecchiaia, ogni lavoro o sforzo umano può diventare un mezzo per interrogare il proprio destino, per porsi delle domande.

 

Domanda: Mi sembra che la posizione dell'attore e dello storico siano diverse. Se ciò che fa l'attore deve "funzionare", il compito dello storico è "sistemare le conoscenze"...

 

Mario Biagini: Se pensi che questo sia il compito dello storico... Non voglio farne un problema dottrinario (sebbene mi sembri che, dai tempi di Hegel, l'approccio allo studio teorico dei fenomeni abbia pur fatto qualche passo in avanti: se "conoscere vuol dire: far riferimento al noto, comprendere che una cosa sconosciuta è la stessa di un'altra conosciuta" allora davvero non possiamo andare molto lontano) diciamo solo che in questo caso ciò cui resisto è la sistematizzazione delle conoscenze. Inoltre: non tutto quello che chiamiamo "conoscenza" e che è suscettibile di sistematizzazione è realmente conoscenza, altrimenti ogni saggio, in ogni campo, rappresenterebbe un passo in avanti per il pensiero, per la comprensione del mondo e delle relazioni umane. E non mi sembra che sia così, sfortunatamente.

Mi ricordo che Grotowski diceva che, quando aveva fatto i colloqui con i professori del Collège de France allorché fu proposto come docente, le persone con cui si era inteso subito parlando del suo lavoro erano gli studiosi appartenenti al campo delle scienze esatte. Quando Grotowski parlava loro delle azioni fisiche, della ricerca e della creazione del personaggio, del "come se" di Stanislavskij ed anche di altri aspetti del proprio lavoro, i fisici per esempio dicevano: "Ma certo, è chiaro, è come quando noi diciamo che un elettrone si comporta in certe circostanze come se fosse un'onda, in altre come se fosse una particella. Non lo è ma è come se...".

Uno di voi mi ha chiesto: "Ma allora, come deve comportarsi uno storico del teatro?" Non ho nessuna soluzione da offrire, penso che dovremmo lottare per scoprirlo. Credo che uno storico debba, per sé, per i suoi colleghi, per la materia del suo studio, creare dei momenti di provocazione, delle sfide. Se stai cercando di capire ciò che è stato hai a disposizione testimonianze scritte o iconografiche, materiale in un certo senso muto: tu lo interroghi e lui non ti risponde. Se invece ti occupi di ciò che è, allora è come se fossi di fronte ad un animale non addomesticato, una bestia che cambia forma continuamente. Puoi anche, se vuoi, bloccarla in un angolo e dirle: "Ah, sei così!", ma un secondo dopo non lo sarà più. E se l'addomestichi nella tua mente o nel tuo lavoro, te ne allontani. Ma giustamente tu chiedi: quale può essere un modo, una via, un approccio? Ci può essere un'analogia con un certo lavoro d'attore: un attore si avvicina ad un elemento del suo lavoro (per esempio un canto o un frammento di azione), e mentre si avvicina, dice a se stesso: "A dispetto di tutta la mia competenza, io di questa cosa non so niente, non so come fare, è sul momento che devo trovare come avvicinarmi". Ti avvicini a qualcosa e sospendi il tuo giudizio. Ti avvicini sapendo che non la conosci, che non sai come reagirà quando la toccherai. Un approccio possibile è quello del contatto diretto, personale. Se ti occupi di temi che sono presenti e vivi all'interno del lavoro di un artista vivente, per prima cosa cerca di assistere il più possibile e in molti modi diversi al suo lavoro. Poi vai da lui e gli dici: "Guarda, ho pensato che forse è così". E lui ti dirà: "No, dal mio punto di vista non è così." Forse potrete allora iniziare un dialogo, un'interazione creativa, magari lui ti darà qualche elemento in più su cui lavorare. Mi dirai che tutto questo è ingenuo, che lo studioso deve mantenere una posizione oggettiva... Ma sinceramente vedo pochi studiosi realmente implicati nella ricerca sul campo. Il mio unico consiglio è: se studi dei fenomeni teatrali viventi, vai a vederli da vicino, il più possibile, guarda di che cosa si tratta, non fidarti dei soli libri, leggili come se cercassero di imbrogliarti, come se non volessero rivelarti il loro segreto. Quando vai a vedere il lavoro di un gruppo teatrale, di un regista o di un attore, cerca di essere uno spettatore vergine, qualcuno che si lascia, in qualche modo, travolgere da ciò che vede. Fottitene della pretesa "oggettività" dello studioso, se è solo un pretesto per non correre rischi. E non pensare, prima di vedere, o immediatamente dopo: "Ah, già so". Questo è un problema che un regista, da parte sua, deve affrontare ogni giorno: vede il materiale degli attori, tutti i giorni osserva quella stessa struttura; dopo tre mesi la conosce a memoria, sa che dopo questo dettaglio c'è quello e poi quello e quest'altro. Potrebbe indicarne i ritmi senza vedere. Però tutti i giorni deve fare uno sforzo cosciente per vedere da capo, di nuovo. In questo Grotowski era incredibile. Uno sforzo cosciente come di azzeramento della memoria: vedere per la prima volta. È difficile. Vedere per la prima volta, vedere senza preconcetti: come una specie di passività all'erta, di passività attiva, sei attento a quello che succede di fronte a te, non vi proietti quello che vorresti succedesse, i tuoi fantasmi o i tuoi desideri, ma semplicemente vedi quello che ti sta di fronte. È una questione d'esperienza, non conosco nessun tipo di tecnica che ti può aiutare. Come non c'è nessun tipo di tecnica o di formula per essere capaci di riconoscere quando un attore è vivo in ciò che fa. Col tempo, piano piano, cominci ad accorgerti che c'è come una sostanza che fluisce intorno a lui.

In seguito, domandati se hai degli strumenti che sono atti ad analizzare, a descrivere, ad avvicinarti in maniera teorica a ciò che hai visto. Vedi quali sono gli strumenti che possiedi e, anche riguardo agli strumenti, rimani critico. Forse te li devi creare, gli strumenti, i linguaggi. A questo punto si pone anche il problema di una terminologia condivisa. La parola "energia", per esempio: come abbiamo visto ieri, la si può utilizzare in ambiti diversi, con significati diversi. Anche il termine "azione fisica" è passato nel linguaggio di numerosi registi ed attori, ed è diventato un termine condiviso in molti ambienti teatrali. Nondimeno sono convinto, per quello che vedo e leggo, che gran parte delle persone che utilizzano la formula "azione fisica" nel loro lavoro, pratico o teorico, non comprendono che "azione fisica" non vuol dire movimento, lavoro fisico. In certi casi, se vedono una persona che fa un movimento e una che fa un'azione fisica non percepiscono la differenza. Allora, c'è la questione della percezione. È necessario o no per uno storico essere capace di distinguere, non sulla pagina ma in quello che succede di fronte a lui, nei fatti, tra un movimento e un'azione fisica? Se è necessario, vuol dire che deve avere un certo tipo di allenamento, osservare molto, veder lavorare attori e registi, senza fare finta di essere un attore o un regista, né guardando dal punto di vista dell'esperto - ma semplicemente guardare, e cercare di comprendere perché il regista dice all'attore in quel momento che quello che fa non va bene. Per percepire la differenza tra movimento e azione, devi sviluppare una certa capacità. Come non si nasce bravi attori, così neanche si nasce fini percettori. Alcune persone forse si, altre no. Mi ricordo che, con Grotowski, spesso non capivo che cosa intendesse quando diceva che un frammento era vivo e un altro, invece, morto. Solo con gli anni ho cominciato a vedere. Non è che capisci, ma vedi, è come se tu percepissi. È qualcosa che va nutrito. Ci vuole una certa ricettività e qualcuno che ti aiuta. Il che è un problema effettivo, anche di tempo: uno studioso ha bisogno di passare molte ore leggendo, studiando. Anche qui è necessario un apprendistato: alla lettura reale, critica, attenta, per capire quando un autore sta facendo il giocoliere con le parole e quando sta realmente dicendo qualcosa. Spesso un saggio è importante perché contiene una pagina importante: in quella pagina l'autore è riuscito a dire qualcosa di reale e concreto, qualcosa che fa avanzare la tua comprensione, o che ti pone una domanda che non puoi eludere facilmente. Ma le pagine importanti sono rare, non solo quelle scritte dagli storici: rari sono anche gli spettacoli in cui c'è una pagina importante, o i romanzi.

 

 

 

© Mario Biagini 2000

 

1 Il seminario è stato organizzato dalla cattedra di Metodologia e Critica dello Spettacolo III, prof. Roberto Ciancarelli.

2 Thomas Richards, Il punto limite della performance, Documentation Series of the Workcenter of Jerzy Grotowski, pubblicato da: Fondazione Pontedera Teatro, Pontedera, giugno 2000, p. 8 (n.d.c.).

3 Ibidem (n.d.c.).

4 Jerzy Grotowski, Prefazione a Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Milano, Ubulibri, 1993, p. 10 e Jerzy Grotowski, "Testo senza titolo", in "Teatro e Storia", Annali 5-6, XIII-XIV, 1998-1999, p. 443 (n.d.c.).

5 Nel 1986, su invito di Roberto Bacci e Carla Pollastrelli, "Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale" (ora: "Fondazione Pontedera Teatro") (n.d.c.).

6 Jerzy Grotowski, Dalla compagnia teatrale all'arte come veicolo, in appendice a Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, cit., p. 128 (n.d.c.).

7 Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, cit., p. 106 (n.d.c.).

8 Franco Ruffini, La Stanza vuota. Uno studio sul libro di Jerzy Grotowski, in "Teatro e Storia", Annali 5-6, XIII-XIV, 1998-1999 (n.d.c.).

9 Ivi, p. 470 (n.d.c.).

10 Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, cit., p. 106 (n.d.c.).

11 Ivi, pp. 39-40 e p. 85 (n.d.c.).

12 Ivi, pp. 104-109 (n.d.c.).

13 Si veda, per esempio: L'arte segreta dell'attore. Un dizionario di antropologia teatrale, a cura di Eugenio Barba e Nicola Savarese, Lecce, Argo, 1996, pp. 52-72 (n.d.c.).

14 Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, cit., p. 33 (n.d.c.).

15 Vedi Jerzy Grotowski, Anthropologie théâtrale, Leçon Inaugurale, Théâtre des Bouffes du Nord, (cassetta audio della Lezione inaugurale della cattedra di Antropologia teatrale del Collège de France, 24 Marzo 1997), Collection Collège de France, Le livre qui parle; e Jerzy Grotowski, La "Lignée organique" au théâtre et dans le rituel, Collection Collège de France, Le livre qui parle (6 cassette audio contenenti il primo ciclo di lezioni di Antropologia Teatrale al Collège de France: sessioni del 2, 16 e 23 Giugno 1997 al Théâtre de l'Odéon). Le cassette del secondo ciclo, al Théâtre du Conservatoire, e del terzo, al Théâtre du Rond-Point, sono in preparazione. Le cassette sono ottenibili presso il Collège de France (www.college-de-france.fr) oppure presso Le livre qui parle (lelivrequiparle@wanadoo.fr) (n.d.c.).

 

La foto che ritrae Mario Biagini, di Giordano Acquaviva (1999), è stata gentilmente concessa dal Workcenter.