Incontro
all’Università ‘La Sapienza’
di Mario
Biagini
Questo testo è stato elaborato dall’autore, Mario Biagini del
"Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards", a partire dalla
trascrizione delle ultime due giornate di un seminario tenuto presso l'Università
degli Studi di Roma "La Sapienza" - 28, 29 e 30 novembre
20001
a cura di Anna
Rita Ciamarra
29 novembre, seconda giornata
All'inizio del secondo giorno del seminario, gli
studenti hanno posto le seguenti domande:
Come vivete la responsabilità di essere gli
eredi di Grotowski?
Che senso può avere per un attore lavorare senza
un pubblico?
La "qualità" del silenzio di
Grotowski di cui parla Thomas Richards2
Quale può essere la definizione di "azione
fisica"? In che cosa un'azione fisica si differenzia da un movimento?
Nell'esposizione di alcuni concetti de Il
punto-limite della performance3
Qual è l'obiettivo della ricerca condotta al
Workcenter, tanto più che il lavoro è visto da pochi e non è uno spettacolo?
Mario Biagini: Molte persone ci
hanno domandato - anche prima della morte di Grotowski... - e molte altre
tutt'oggi ci domandano, come voi: "Come vivete la responsabilità
dell'eredità di Grotowski?" Personalmente non penso mai al lavoro fatto
negli ultimi anni, e alla ricerca che continua e si sviluppa, come se
costituisse un'eredità. Quale eredità? Non mi sento un erede. Ci riferiamo
all'eredità in termini giuridici? Non sto facendo una polemica, voglio farvi
capire quello che sento. Forse per "eredità" intendete ciò a cui si
riferiva Grotowski quando parlava del processo di "trasmissione" tra
lui e Thomas Richards, trasmissione nel senso tradizionale.4
Molte persone ci dicono: "Dopo la morte di
Grotowski...", "Ah, che responsabilità essere suoi eredi!". Temo
che non parlino di ciò che davvero è successo tra Jerzy Grotowski e Thomas
Richards, in seno a un piccolissimo gruppo di persone, degli sforzi che Thomas e
Grotowski hanno fatto affinché qualcosa passasse, fosse trasmesso, una base
fosse posta per compiere un altro passo. Ho la sensazione che queste domande si
riferiscano piuttosto all'aspetto sociale di tutto ciò, al significato sociale
e culturale, storico, dell'essere "eredi" di Grotowski. Responsabilità
di fronte alla società, alla storia, all'arte? Tutto ciò non m'interessa
minimamente. Oppure responsabilità di fronte a se stessi, alla propria vita, o
al proprio destino? In questo senso ognuno potrebbe scoprire di essere
responsabile verso qualcosa, e porsi delle domande.
C'è un testo antico, appartenente alla
tradizione occidentale, in cui qualcuno domanda ad una persona che è una specie
d'insegnante: "Ma i tuoi apprendisti, sono come?" Gli viene allora
risposto: "Sono come bambini piccoli, che dimorano in una casa che non è
loro. Quando arrivano i padroni della casa e dicono: 'Ridateci la casa!', loro,
nudi, la rendono".
Quando si parla di "eredità" ci si può
riferire a qualcosa che si possiede, intendere una specie di possesso. Per me
quello che è importante da questo punto di vista non è tanto ciò che ti
appartiene quanto ciò cui appartieni. È come un'aspirazione, una tentazione di
libertà... Se guardi un bambino che gioca, vedi che è completamente in ciò
che fa: gioca e basta, con tutto se stesso. Ma, in un attimo, se inventa un
altro gioco, il gioco di prima sparisce dal suo orizzonte, non lascia traccia:
il bambino non lo possiede, il gioco non è un suo possesso e lui non ne è
posseduto. Nel nostro lavoro non abbiamo, in un certo senso, alcun possedimento.
Nessuno. Non desideriamo difendere una proprietà intellettuale o artistica,
un'eredità, di fronte alla società o alla storia. È campo di altri, non il
nostro. La sensazione più forte è la gratitudine verso chi ti ha fatto vedere
che la casa in cui vivi, e che pensi sia tua, che addirittura senti così vicina
a te da confonderla con ciò che ti è più intimo, è solo un luogo di
passaggio. Non ti appartiene, non è tua. Percepisci allora più una mancanza
che un possesso. Nella vita di tutti i giorni, ogni essere umano ha difficoltà
problemi e compiti come se fosse il padrone della casa in cui dimora. Riguardo a
tutti gli aspetti del nostro lavoro c'impegniamo senza risparmio, con tutte le
nostre forze. Ma, in fondo, come se stessimo giocando, oppure tentando di
ricordarci che la casa in cui dimoriamo non ci appartiene.
Uno di voi ha chiesto qual è il senso del fare
teatro senza un pubblico. È una domanda naturale. Oggi parlavo con un ragazzo
molto giovane che mi diceva di voler fare l'attore. Gli ho detto che anche io
sono un attore, e lui mi ha domandato che cosa facessi. Quando ha capito che le
persone che vengono a vedere il nostro lavoro sono relativamente poche, mi ha
detto: "Ah, io non potrei mai farlo, io ho bisogno del pubblico".
Allora devi cercare di spiegare. Quale può essere la maniera migliore per
spiegare? Forse è non spiegare. Tu che hai fatto questa domanda, scrivici una
lettera, dicendo che vorresti venire a vedere Action e, quando ci saranno
dei posti liberi, t'inviteremo. Vieni a vedere che cosa facciamo. Da parte
nostra, noi proviamo ad invitare, prima o poi, tutti coloro che ci chiedono di
vedere il lavoro. Io posso parlare, tu leggere ed essere anche molto perspicace,
riuscire a cogliere ciò che si cerca di dire tra le righe, ciò che si cerca di
dire con le parole e che, a parole, non può essere completamente espresso, ciò
che traspare nel non-detto. Tra oggi e domani, in tutto ciò che dirò, cercherò
di rispondere alla tua domanda. Però, la cosa fondamentale è vedere. E poiché
vedere è possibile, allora scrivimi, vieni a vedere e un aspetto di ciò che
facciamo ti sarà più chiaro. Puoi anche chiederci di tenerti al corrente dei
progetti che creiamo, per esempio The Bridge: Developing Theatre Arts, ed
essere informato di quando presentiamo One breath left, di cui ieri avete
visto dei frammenti.
Senza una conoscenza di prima mano, oppure senza
aver mai visto Action, è difficile comprendere quale possa essere il
senso del nostro lavoro per chi lo fa, e anche farsi un'idea di che cosa si
tratti. Ieri sera, nello studio del vostro professore, mi sono messo a sfogliare
alcuni libri di storia del teatro e ho trovato molti passi sul nostro lavoro.
C'erano molte cose interessanti, ma anche molti malintesi. E' istruttivo vedere
quanti ne possano sorgere, anche quando provi ad essere chiaro. Per esempio, in
uno dei saggi che ho letto si afferma che Action del Workcenter è una
struttura su cui si lavora dal 1986, una struttura la cui elaborazione è
iniziata, addirittura, durante l'Objective Drama Program, in California, e che
poi si è sviluppata cambiando nome: prima, a Irvine in California, si chiamava Main
Action, poi in Italia ha preso il nome di Downstairs Action e,
adesso, si chiama semplicemente Action. In quel saggio è detto che si
tratta della stessa Azione che si è sviluppata e, sviluppandosi, ha cambiato
nome. Non è così, e basta leggere con attenzione e senza preconcetti i testi
di Thomas Richards per rendersene conto. Main Action, Downstairs
Action, Action: strutture completamente diverse l'una dall'altra,
ognuna creata con canti diversi, testi diversi, e soprattutto con un materiale -
cioè quello che succede, ciò che viene fatto - un materiale dicevo, diverso e
indipendente, e con persone diverse. Si tratta di strutture distinte
(inoltre tra l'una e l'altra, per esempio, tra Downstairs Action e
l'opera attuale, Action, sono state create altre Azioni che nessuno ha
mai visto). Questo è soltanto un malinteso tra i tanti. Leggendo quel saggio ci
si domanda, come ha fatto uno di voi poco fa: "Ma al Workcenter fanno
sempre la stessa cosa?" No, non è proprio così. La struttura su cui
lavoriamo ora, che chiamiamo Action, è cominciata a nascere nel 1994:
siamo arrivati alla struttura di base nel 1995, con un gruppo di cinque persone.
Tra i membri attuali del gruppo, gli unici che erano presenti quando è stata
creata siamo Thomas Richards ed io. Le altre persone presenti oggi sono tutte
arrivate dopo, quando la linea di azione di Thomas e la mia erano già create.
Le altre persone che erano al Workcenter quando è iniziato il processo di
creazione di Action, sono dovute andare via: avevano altri impegni,
oppure il periodo del loro soggiorno al Workcenter era arrivato ad una
conclusione naturale, oppure non avevano più soldi per pagarsi da vivere -
sapete che non possiamo pagare i membri del gruppo, se non in alcuni casi
eccezionali, quando abbiamo un po' di soldi. Così il lavoro sulla struttura
avanza in due direzioni: per ogni nuovo membro del gruppo si tratta, in maniera
specifica e personale, di cercare il modo di penetrare - senza disturbare - in
ciò che viene fatto in Action, con le sue doti e potenzialità
individuali; per chi invece è presente e attivo all'interno della struttura da
più tempo, la possibilità è avvicinarsi a risorse inesplorate, risorse che si
rendono disponibili - a volte all'improvviso, a volte gradualmente - soltanto
attraverso la ripetizione creativa negli anni. Le persone che ci contattano
chiedendoci di lavorare con noi, perché vengono? Perché ci scrivono? Ci
mandano una lettera di motivazioni, ma ti accorgi che la motivazione non sta in
ciò che è scritto. Che cosa cercano? Con il tempo, lavorando, ti accorgi che
la motivazione sta nell'atto stesso, e nella risonanza che l'atto ha in te: la
scopri facendo.
Io stesso, perché ho cominciato a lavorare al
Workcenter? Avevo visto nell'86 una conferenza di Grotowski, non sapendo niente
di Grotowski né del suo lavoro. Be', non proprio niente. Per alcuni anni, fin
da ragazzo, avevo lavorato con un gruppo teatrale in Francia, al di fuori
dell'ambiente professionale: in ciò che facevamo c'era una specie d'intensità
estrema ma, temo, il livello del nostro lavoro non era molto alto. Non avevo una
lira e praticamente facevo la fame; però mi sembrava di partecipare ad
un'avventura importante e di fare davvero qualcosa. Poi, una volta, di ritorno a
Firenze, per caso lessi in un quotidiano che quel giorno Jerzy Grotowski avrebbe
tenuto una conferenza. A Parigi, due anni prima, camminando con una persona più
dotta di me, avevo visto un manifesto in cui c'era scritto: "Corsi di
teatro: metodo Grotowski". Avevo chiesto chi fosse questo Grotowski e il
mio collega, meglio informato, mi aveva detto: "Ah, è un polacco che
organizza degli incontri nei boschi". Probabilmente si riferiva al
Parateatro o al Teatro delle Sorgenti, di cui allora non sapevo niente, ma
rimasi colpito dall'idea di persone che s'incontrano nelle foreste polacche, che
m'immaginavo alquanto selvagge. Allora, a Firenze, in- curiosito, sono andato a
quella conferenza.
Mi avete chiesto della "qualità" del
silenzio di Grotowski di cui parla Thomas Richards. Cosa fosse quel silenzio,
non lo so. Se gli chiedevi qualcosa, Grotowski cercava di darti una risposta,
non con delle formule già fatte, provava in maniera attiva a vedere se poteva
darti una risposta, o se poteva aiutarti a cercarla. Vedevi qualcuno che
s'impegnava e pensava. Quando parlavi con lui, ti ascoltava davvero, come se
nient'altro esistesse al mondo. Non so se, come mi chiedete, questo sia legato a
ciò che Thomas chiama "azione interiore". Forse c'è un legame, ma più
nel senso di una canalizzazione, una messa in direzione. Normalmente, le mie
forze mentali e fisiche vanno dove vogliono, a caso, qua e là. Quando qualcuno
fa uno sforzo per dirigerle in una data direzione, questo sforzo può essere
percepito come una certa qualità di presenza. E' come trovarsi di fronte ad una
sostanza umana più densa del solito. C'è anche qualcos'altro: Grotowski era
molto malato, soffriva di una grave malattia cardiaca. Ogni sforzo, anche
minimo, gli costava caro. Se doveva fare qualcosa d'importante, restava per
settimane senza vedere nessuno, eccetto Thomas e me, economizzando al massimo le
sue forze. Nel momento in cui doveva lavorare e impegnarsi in un compito
importante, percepivi in lui, benché non avesse forze, come un ascendere, come
una trasparenza. Una qualità. Dopo, per settimane, pagava per quell'impegno.
Questa sua capacità, o conoscenza, era come una lezione essenziale.
Alla conferenza di cui ho parlato, ad introdurre
Grotowski c'era uno studioso di teatro che non conoscevo. Non andavo mai ad
assistere a conferenze o discorsi, e non ero per niente abituato a quel genere
di situazione. In realtà avevo grandi difficoltà ad ascoltare - ero
intollerante, impaziente: non sapendo chi fosse questo Grotowski, trovavo che il
professore fosse un po' nervoso e non ne capivo il motivo. Durante
l'introduzione si presentò una mia reazione abituale, d'intolleranza appunto,
di ribellione, per poi trasformarsi in una sorta di sopore: mi sembrava che la
vita scorresse altrove, volevo andarmene. Ma rimasi. E non appena lo studioso
ebbe finito di parlare e Grotowski prese la parola, ci fu come una frustata
nella sala, e tutti improvvisamente si svegliarono. Senza volerlo, ero all'erta,
come di fronte ad un pericolo. Fu una cosa strana perché, fin dall'inizio,
avevi visto in Grotowski una persona evidentemente malata, senza forze e, di
botto, nel momento in cui si è mobilizzato per rispondere al professore e poi
per fare la sua conferenza, ti rendevi conto di una forza, di una presenza, di
fronte alla quale non potevi rimanere indifferente, era qualcosa che ti faceva
paura e insieme ti affascinava. E, poi, ti accorgevi di una competenza. A
quel tempo ero estremamente diffidente rispetto a qualsiasi tipo di competenza e
professionalità, ero ribelle, violento, aggressivo. E' stata la prima volta in
vita mia che, dopo qualche minuto che ascoltavo, mi sono detto: "Madonna,
costui sa di che cosa sta parlando". Ho avuto la percezione d'ascoltare per
la prima volta qualcuno che sapeva che cosa stava dicendo. E' stata una scossa:
ero convinto che nessuno mai avrebbe potuto dirmi o insegnarmi qualcosa. E,
evidentemente, quel signore potente e fragile assieme poteva, e forse voleva.
Feci di tutto, allora, per riuscire ad avvicinarmi, per far sì che m'insegnasse
qualcosa. Ero confusamente cosciente che se avessi continuato sulla strada su
cui mi trovavo allora, sarei diventato matto, un outsider, e il mondo
contro il quale mi rivoltavo mi avrebbe mangiato. Avevo già creato un vuoto,
una specie di deserto intorno a me: non trovando nessun posto in cui mi sentivo
a casa, scaricavo la mia frustrazione all'esterno, come se l'esterno fosse
responsabile, come se il mondo fosse responsabile. Forse un po' lo era, ma non
solo. In quell'uomo percepivo una competenza, una conoscenza reale.
Grotowski in quell'occasione non parlò solo di
teatro. Se non mi sbaglio, lo studioso nella sua introduzione disse di aver
sentito Grotowski affermare l'esistenza di una complementarietà tra teatro e
società. Grotowski aveva co-minciato la sua conferenza rispondendogli:
"Non so se ho mai detto qualcosa al riguardo in passato, non me ne ricordo,
però so che il teatro non è qualcosa che si possa mettere in una
scatola". Non è entrato in polemica ma ha cominciato a parlare di creare
un proprio spazio di libertà. Chiedeva: "Questa vita vi basta? Siete
felici?", e diceva che, se uno sente una mancanza deve fare qualcosa, agire
in risposta a questa mancanza. Non una mancanza nella società, ma nel mio modo
di vivere. Era una cosa forte per me, alla quale aspiravo, ed era evidente che
tutto ciò che avevo provato era stato un fallimento. E lui continuava, senza
darmi il tempo di respirare o di compiacermi: "Come creare questa libertà?
Come fare la rivolta, e non parlarne? Per prima cosa, credibilità
professionale. Per prima cosa, sappi che cosa che stai facendo". Non mi ero
mai posto il problema in quei termini e, se me lo avesse detto chiunque altro,
avrei detto: "Che banalità! Che discorso da borghese!" Ma dietro alle
parole di Grotowski c'era un tale carico di senso, di competenza, d'esperienza
che... mi dicevo: "Da sempre avresti voluto sentire qualcuno dire queste
cose".
Adesso voglio passare ad un altro tema, alla
domanda sulle azioni fisiche: per me, un'azione fisica è qualcosa che non si può
definire in maniera esauriente. Perché la chiamiamo "azione fisica"?
Perché Stanislavskij ha detto "azione fisica"? A quanto ci raccontava
Grotowski il motivo è semplice, d'ordine pratico: gli attori di Stanislavskij
erano abituati a lavorare con la cosiddetta "memoria emotiva" - quando
recitavano, in certi casi la loro attenzione si volgeva alle emozioni, al mondo
psichico, all'auto-osservazione, verso l'interno, a cosa sentivano. In
quel periodo provavano disperatamente a richiamare precise emozioni, in un certo
senso a manipolare la loro vita psichica. In contesto "drammatico" -
nel senso etimologico della parola, nell'agire - l'attore deve essere attivo
fuori, nel mondo esterno, in relazione: deve essere attivamente presente in
relazione al suo partner, immaginario o reale che sia, la sua vita deve scorrere
verso l'esterno, la sua attenzione andare verso l'esterno - ascoltare, vedere,
percepire. Ad un certo punto, Stanislavskij si è accorto che qualcosa non
funzionava: era evidente che, provando a manipolare le proprie emozioni, gli
attori in realtà "pompavano" degli stati emotivi, forzavano,
violentavano i loro processi psicologici e non arrivavano ad essere veridici in
scena. Grotowski aveva un esempio perfetto per questo, diceva: "Le emozioni
non sono controllabili dalla volontà. Se tu non ami una persona, per quanti
sforzi tu faccia, non riesci ad amarla; se ami una persona, non puoi non amarla.
Non puoi cambiare ciò che senti". Stanislavskij si rese conto che ciò su
cui un attore può lavorare è ciò che fa. "Ciò che fa" non
è soltanto qualcosa di fisico. È qualcosa che coinvolge tutto te stesso: la
tua carne ma anche il tuo pensiero, la tua vita, i tuoi desideri e le tue paure,
e inoltre la tua volontà, le tue intenzioni. Le intenzioni sono legate anche ad
un orientamento della mobilitazione corporea ("in-tensione",
"in-tendere" verso qualcosa o qualcuno)7
È apparso di recente un articolo di Franco
Ruffini, intitolato La stanza vuota8
Giustamente al giorno d'oggi l'azione fisica è
tra i temi obbligati della storiografia teatrale. È chiaro però che un attore
può fare un lavoro straordinario senza sapere assolutamente niente di che cosa
sia un'azione fisica, oppure utilizzando tutt'altra tecnica: le azioni fisiche
sono soltanto una delle tante vie possibili. "Al Workcenter si lavora con
le azioni fisiche": non so se questa affermazione, così com'è, sia ancora
corretta, forse è già qualcosa che rimanda al passato, ad una tappa che era
necessaria; oggi, il lavoro sulle azioni fisiche è in certi casi un elemento
ancora fondamentale, ma è un elemento tra gli altri, ed in ogni modo il nucleo,
l'asse della ricerca condotta al Workcenter è il lavoro sui canti di
tradizione. Ma se un giorno fai qualcosa di vivo in un frammento di azione, il
giorno dopo uno dei modi per riavvicinarti a quell'esperienza e riviverla può
passare attraverso il ritrovarne motivazioni e impulsi attraverso il
corpo: la tecnica delle azioni fisiche - se la si può chiamare una
"tecnica". A volte mi pare che può essere utile parlare ad un attore
di "azioni fisiche" quando costui riesce solamente a creare delle
partiture di movimenti e gesti, partiture di manipolazioni muscolari. Quando
vedo un giovane attore strutturare del materiale proveniente da
un'improvvisazione, spesso noto che cerca di ritrovarne la vita riproducendo i
movimenti che si ricorda di aver fatto, in modo formale. Per aiutarlo forse puoi
chiedergli perché fa una certa cosa, un certo movimento, perché per esempio
cammina in un certo modo e suggerirgli di tornare verso le intenzioni che lo
attraversavano durante l'improvvisazione. Quando invece in ciò che fa è già
presente un processo organico, un agire complesso in vista di qualcosa o
qualcuno, una linea di comportamento costituita da ciò che posso chiamare
"azioni fisiche", allora definire e fargli sapere che ciò che sta
facendo sono "azioni fisiche" diventa inutile: ciò che fa rifugge
dalla semplificazione, dalla segmentazione - che implica un'auto-osservazione -
in corpo-che-si-muove, testa-che-pensa, cuore-che-sente. Quello che vedo allora
è una totalità in atto, un essere umano le cui forze, consce e inconsce,
concorrono insieme alla realizzazione di un'esperienza, all'esplorazione di un
attimo di vita, ad una pienezza.
Uno di voi mi ha domandato se nel nostro lavoro
non ci sia il rischio che un processo potente possa sommergerti, sopraffarti.
Certo, questo rischio esiste, e per questo c'è una struttura, che tra l'altro
diventa con gli anni sempre più dettagliata. La struttura è lì perché tu
possa ripetere quello che hai fatto, riavvicinarti ad una certa esperienza: non
riprodurla, ma riviverla. E non sarà esattamente la stessa cosa. La struttura
è lì perché questa ripetizione possa aver luogo, perché a questa esperienza
ci si possa avvicinare ogni giorno, ogni giorno: attraverso la ripetizione,
l'esperienza può approfondirsi, i limiti del conosciuto possono dissolversi e
ricomporsi un passo più in là, un passo più là in un territorio che non
conosci. E hai una struttura, non fai un passo nel vuoto. Ripeti tutti i giorni,
e da questa ripetizione qualcosa di speciale può apparire. È come se un
frammento di una linea di azione diventasse un tuo amico, una persona che ami; a
questo frammento ti avvicini ogni giorno come cercando di risvegliare in te il
fatto che non lo conosci. Da questa conoscenza della prima volta, prima volta
ripetuta giorno dopo giorno, può nascere una relazione molto forte tra ciò che
fai e ciò che sei.
Vorrei sottolineare che le strutture su cui
lavoriamo sono incredibilmente minuziose. Se lavori per cinque anni, tra le
altre cose, su un frammento di quattro minuti, questo frammento ogni giorno
diventa sempre più dettagliato e rigoroso nella struttura... Le strutture su
cui lavoriamo, lo ripeto, non sono di natura formale, sono strutture di linee di
azione - intenzioni, reazioni, relazioni e contatti, diciamo, orizzontali -
oppure sono strutture di "intenzione" verso quello che Thomas chiama
"azione interiore". Altro elemento strutturale molto potente sono i
canti. I canti sono assolutamente precisi, precisa è la melodia, precisi il
ritmo, la risonanza, le parole, così precisi che richiedono un'attenzione
continua. E, in più, le relazioni tra partner sono così strutturate che lui,
il mio collega, sa che dopo aver avuto una connessione con lei, devo contattare
lui. In ogni secondo so cosa devo fare. Eppure, questa struttura è solamente un
tentativo. Il problema non è se esista o meno una tecnica. Il fatto è che
nessuna tecnica, di per sé, può realmente aiutarti in tutto.
Ieri avete visto gli attori di Singapore che
lavorano con noi nel Progetto The Bridge: Developing Theatre Arts
mostrare alcuni frammenti di One breath left. Che posto hanno le azioni
fisiche in ciò che fanno? "Azioni fisiche" è un termine che funziona
bene nell'ambito di un certo teatro, per lo più occidentale. Per un attore
orientale, o per un attore occidentale con un altro temperamento, la strada può
essere molto diversa: può trattarsi di creare una composizione, ossia di
articolare il suo slancio in una struttura ritmico-spaziale, qualcosa di
completamente diverso dalla creazione di una linea di azioni fisiche. Se vedete
degli attori di tradizione orientale, per esempio dell'Opera di Pechino, vi
rendete conto che quello che fanno è "artificiale": si tratta di
strutture formali che vengono apprese tali e quali sono state tramandate dalla
tradizione. Allora, fanno delle azioni fisiche? No, non tecnicamente. Mi sembra
che si tratti di qualcos'altro. Troviamo qui come una composizione di forme,
perfettamente articolata in termini di ritmo e spazio, che ha un senso compiuto
per uno spettatore (può definire un personaggio, una situazione, raccontare una
storia). E in questa composizione l'attore entra con slancio, senza ostacoli. E
la forma diventa un canale molto efficace per la sua forza vitale. All'interno
di questo canale molto preciso, si hanno delle possibilità di modulazione,
d'improvvisazione. Questi spazi d'improvvisazione sono minuscoli; un osservatore
a volte non può neanche riconoscerli. Può trattarsi dell'ordine di alcuni
elementi, di alcuni dettagli, oppure, in maniera più sottile, della modulazione
del proprio slancio all'interno di questo canale. Ora, le persone che avete
visto lavorare ieri - i membri attivi al Workcenter in seno al Progetto The
Bridge: Developing Theatre Arts - non vengono da un ambiente tradizionale,
non sono stati allenati anni e anni all'interno di una struttura artistica e
sociale paragonabile all'Opera di Pechino. Sono come noi, esseri umani senza un
bagaglio artistico tradizionale. Fatto sta però che lavorando con loro, su
frammenti performativi e su canti tradizionali cinesi, e poi sulla creazione di
una struttura diciamo spettacolare, abbiamo visto che una possibilità creativa
consisteva nel creare delle composizioni, non tanto delle composizioni formali,
cioè delle partiture di movimenti e forme, ma qualcosa che potesse servire loro
come un canale, come il letto di un fiume. C'è in queste composizioni un
aspetto ludico, di gioco, e un aspetto legato invece alla creazione di segni
riconoscibili dall'esterno, ma non solo. Comunque, durante il lavoro, ci siamo
accorti che non si trattava di azioni fisiche. Sì, c'erano dei momenti di
relazione e intenzione, ma queste relazioni e intenzioni erano più legate
all'elaborazione articolata di segni che non a ciò che succedeva tra i membri
del gruppo all'interno del contesto della struttura. Allora, non ho ancora un
nome per ciò che fanno, non lo so dire, ma so che non si tratta di azioni
fisiche. Uno di voi suggeriva che potrebbe trattarsi di azioni in potenza, di ciò
che Grotowski chiamava "impulsi"... Vediamo: Grotowski diceva che
l'impulso è qualcosa di misterioso che, forse, non appartiene completamente al
campo fisico, biologico; c'è qualcos'altro dietro un impulso. Ad un certo
punto, nel suo primo libro, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche12
Nel lavoro che facciamo con gli attori di
Singapore non si tratta esattamente di questo: sì, c'è là una relazione
interessante tra composizione e impulsi, ma non un flusso organico d'impulsi che
sono poi strutturati rigorosamente; sono piuttosto composizioni create per lo più
dall'esterno, "affidate" agli attori, che poi, in un modo o
nell'altro, trovano il modo di entrare senza esitazione in quegli argini con
tutta la loro presenza. Inoltre, queste composizioni sono messe in contatto con
l'approccio ai canti tradizionali cinesi: questo è un nuovo aspetto del lavoro
attuale, un aspetto legato alla ricerca sui canti vibratori sviluppata negli
ultimi 14 anni al Workcenter. Tutto questo rappresenta un campo d'investigazione
estremamente fertile per noi, qualcosa di nuovo e sconosciuto. È un po' come se
stessimo creando una struttura spettacolare - una struttura cioè, che prenda in
considerazione uno spettatore - che nello stesso tempo possa rinviare ad un
altro tipo di lavoro, che crei addirittura come la "nostalgia" di
un'altra cosa.
Immaginate un monastero (dico immaginate perché
non so se qualcosa di simile esista davvero), in Asia, all'interno del quale i
monaci fanno delle danze che in un certo senso sono la loro preghiera, il loro
lavoro. Immaginate che queste danze non vengano viste dalla gente del villaggio,
che pure dà ai monaci di che mangiare e di che vestirsi. E immaginate che, due
o tre volte l'anno, sul sagrato all'esterno del tempio, sulla porta, i monaci
eseguano altre danze, che la gente del villaggio viene a vedere e che contengono
certi elementi di ciò che viene fatto dentro al monastero, dietro la porta. Per
noi il Progetto The Bridge è qualcosa di simile a questo sogno, a
quest'immaginazione. One breath left è chiaramente una struttura
spettacolare. In uno spettacolo, il regista ha il potere di creare un montaggio
che è rivolto a te che guardi, e attraverso questo montaggio cattura la tua
attenzione e ti racconta qualcosa. È questa una delle distinzioni possibili tra
Action, l'opera attuale fatta al Workcenter nel campo dell'arte come
veicolo, e uno spettacolo: in uno spettacolo il montaggio tende a creare una
certa storia o un certo tipo di esperienza percettiva nello spettatore, mentre
in Action il montaggio mira a creare la possibilità di un certo tipo di
esperienza nella persona che fa. La struttura di One breath left prende
in considerazione chi guarda in modo simile a come fa uno spettacolo, e in
questo è molto diversa dalla struttura di Action. Eppure ci sono dei
momenti in One breath left in cui questa funzione del regista - di
dirigere, in una certa misura, l'attenzione dello spettatore, il suo flusso
associativo - viene come abbandonata: come se abdicassimo da questa posizione di
forza. E, allora, cosa succede se abdico da questa posizione e lascio, per
esempio, che un canto abbia il suo sviluppo naturale, pur in una situazione che
fino ad allora aderiva ad una logica teatrale? Cosa voglio dire con
"sviluppo naturale"? A volte, tu canti una canzone e, dopo un po' che
la canti, la canzone ti fa qualcosa, come se smuovesse qualcosa dentro di te, ti
cambiasse. Per fare questo, la canzone ha bisogno di una certa quantità di
tempo, di una durata. Un regista normalmente, oltre alle necessità del processo
dei suoi colleghi attori, deve anche tenere in conto quanto tempo lo spettatore
possa resistere con la sua attenzione, quanto a lungo possa rimanere presente a
ciò che succede di fronte a lui e non mettersi a vagabondare con la mente; il
regista deve di solito mantenere la durata di quella canzone all'interno di
limiti temporali compatibili con la struttura quale è percepita dallo
spettatore (la storia, diciamo). In One breath left, in certi momenti,
questa tecnica, questo tentativo di dirigere l'attenzione e il flusso
associativo dello spettatore viene abbandonato. Per noi è un esperimento:
lasciare andare, e vedere cosa succede.
Uno di voi, accennando ad alcuni passi de Il
punto-limite della performance, quelli in cui Thomas Richards parla
dell'"azione interiore", ha detto che gli sembra vi siano delle
perifrasi, dei giri di parole. Una cosa da non dimenticare è che quel libro è
nato da un dialogo tra due persone. Negli anni scorsi Grotowski e Thomas hanno
provato vari modi di creare una sorta di documentazione scritta del lavoro.
All'inizio non parlavamo quasi mai dei processi essenziali, diciamo
"interni", del lavoro, perché avevamo la sensazione che in quel
periodo, se ne avessimo parlato, qualcosa avrebbe potuto bloccarsi, o forse
sentivamo semplicemente che non era ancora il momento di cercare di
verbalizzare. Poi le cose sono cambiate. Ci siamo accorti, soprattutto parlando
con persone che avevano appena visto il lavoro, che era possibile toccare certi
temi. Leggendo Il punto-limite della performance, devi fare uno sforzo
diverso da quando leggi un libro che è stato "scritto". Devi fare lo
sforzo di ricordarti che stai leggendo un libro che è stato
"parlato"... Quando si cercano delle definizioni, oppure anche
semplicemente cercando di spiegare qualcosa verbalmente, si corre il rischio di
costringere un processo in una forma linguistica più o meno rigida. È lo
stesso problema di fronte al quale ci siamo trovati poco fa, quando cercavamo di
parlare delle azioni fisiche: diventa impossibile ritrovare nelle formulazioni
verbali la complessità e la vita di un processo vivente, tanto più che il
senso di quel processo sta proprio nel suo essere complesso, articolato e vivo.
Nel momento in cui crei una definizione, hai la definizione ma non hai il
processo e non hai, sfortunatamente, una comprensione migliore dell'azione
fisica. Allora, l'unico modo di comprendere è legato al fare? Non vi sono
alternative? Penso che le alternative esistano, che sia possibile parlare senza
dover necessariamente giungere a una definizione che snatura e fissa ciò che si
tenta di additare. Thomas nel suo testo ha affrontato questa difficoltà,
cercando appunto di non fornire facili definizioni. Il suo è un tentativo di
confronto con la questione della documentazione della ricerca; un tentativo per
natura non definitivo, perché si riferisce ad una fase specifica del lavoro.
Inoltre là si tratta di un livello di complessità maggiore, allorché Thomas
cerca di additare con il linguaggio scritto ad un processo ancora più
resistente alle parole. Ma Il punto-limite della performance è in forma
di dialogo, e questo non è un caso: Thomas stava parlando con una persona, una
persona reale che gli aveva posto una domanda e che cercava una comprensione. Se
lui avesse scritto e non parlato quel libro, avrebbe potuto dare ad ogni domanda
"la" risposta. Invece, lì, ogni risposta è in reazione alla persona
che la pone. Allora quello che uno di voi ha definito "perifrasi" è
questa maniera di avvicinarsi con le parole a qualcosa che resiste alla
formulazione, cercare di indicare un'esperienza. È qualcosa d'inevitabile. Sì,
è possibile riassumere in alcune formule, a volte molto rivelatrici, che pure
Grotowski ha utilizzato. Per esempio si può dire che "azione
interiore" è ciò che Grotowski chiamava "verticalità". È
vero, ma con questa equazione abbiamo fatto un passo in avanti nella nostra
comprensione? Oppure possiamo dire che "verticalità" si riferisce a
ciò che Grotowski chiamava "trasformazione di energia". Abbiamo fatto
un passo in avanti? No. Ecco, la parola "energia"... Quando leggo ciò
che si scrive del nostro lavoro, o ascolto qualcuno parlarne, mi rendo conto che
ciò che la maggior parte degli esperti intendono per energia è la
"quantità di forza muscolare e nervosa necessaria per effettuare un certo
lavoro". Mi sembra allora che parlino piuttosto di ciò che Grotowski, da
parte sua, chiamava "tono", tono muscolare, biologico, e non di ciò
che, nel suo vocabolario degli ultimi dieci anni, Grotowski intendeva per
"energia". È necessario contestualizzare la terminologia: per quel
che riguarda il nostro lavoro, quando parliamo di diverse qualità
dell'energia non ci riferiamo ai diversi modi in cui la forza muscolare e
nervosa di un attore può essere modellata e modulata nel comportamento
scenico. Sarebbe fuorviante confondere ciò che Grotowski e Thomas Richards
intendono per qualità diverse di energia (energia "densa" o energia
"sottile") con i diversi gradi d'intensità e impegno muscolare, duro
o delicato, sapori "forti" o "morbidi", quali si possono
osservare nel comportamento scenico di un essere umano - attore, danzatore o
cantante - e che sono diventati parte della terminologia teatrale grazie alle
ricerche effettuate principalmente nell'ambito dei lavori dell'ISTA.13 Quest'ultimo tipo di analisi delle
modalità di rimodellamento della forza muscolare e nervosa di un attore
in scena può essere estremamente efficace quando si osserva, per esempio, un
attore orientale, e forse anche quando se ne ricerca il principio corrispondente
nel lavoro di un attore occidentale. Ma è bene essere consapevoli che Grotowski
e Thomas utilizzano la parola "energia" in tutt'altro senso. Dunque:
quando in relazione al nostro lavoro parliamo di qualità di energia non
intendiamo la forza muscolare e nervosa (spesso a teatro si dice che un certo
attore ha energia, che un dato spettacolo è energico...) o la
capacità di compiere lavoro. Grotowski e Thomas hanno utilizzato questa parola
in mancanza di una migliore: ciò che cercano d'indicare è qualcosa che, sotto
vari nomi, si può trovare in diverse tradizioni. I Bauls del Bengala per
esempio parlano a volte del vento; due Bauls cantano assieme e poi si dicono:
"Amico mio, hai sentito come soffiava oggi il vento?", e si
riferiscono al processo interiore legato al loro lavoro sui canti. Riguardo alle
qualità dell'energia, possiamo trovare nella terminologia dello Yoga
indiano, mutuata dal Samkhya ma utilizzata anche in ambiente tantrico, la
distinzione tra tamas, rajas e sattva, tre qualità della
Shakti (non tre stati, ma tre qualità che fluiscono senza sosta l'una
nell'altra, processualmente): Tamas, letteralmente oscurità, l'energia
pesante, vicina alle forze dell'inerzia; rajas, letteralmente polvere,
legato all'attività vitale; sattva, la qualità sottile, trasparente,
luminosa dell'essere - e poi, ciò che è "al di là di sattva".
Può essere interessante anche considerare la nozione di qi in certe
correnti tradizionali cinesi, legate alla circolazione e alla, per così dire,
distillazione della forza vitale.
La questione può essere affrontata da molti
punti di vista: per esempio, si potrebbe dire che in ciò che Thomas Richards
chiama "azione interiore" l'energia ascende e cambia di qualità; ma
si può anche dire che è il soggetto - io - a cambiare di qualità, come se il
mio essere, la mia percezione di me nel mondo e del mondo in me, cambiassero di
qualità. Qui, non si tratta di trasformazione in senso teatrale: voglio dire
che non si tratta della trasformazione del comportamento operata da un attore,
quando passa da un modo di fare quotidiano ad uno "extra-quotidiano",
per esempio al comportamento proprio ad un personaggio o alla logica di azione
di un personaggio. Nondimeno è importante capire che non riteniamo affatto di
avere il monopolio di questo tipo di ricerca; fatto sta che ci siamo trovati ad
avvicinarci a questo processo non strettamente teatrale attraverso il teatro e
un savoir faire teatrale. Ma ciò non vuol dire che non vi possa essere,
altrove, qualcun altro che, in modi diversi, cerca la stessa cosa attraverso il
teatro.
Nelle lezioni al Collège de France, Grotowski
aveva iniziato a mettere in discussione la sua formulazione "trasformazione
di energia" - non il lavoro in sé, ma quel particolare modo di indicare
verbalmente il processo. Come se sentisse che già stava nascendo l'esigenza di
altre formulazioni. Di-ceva allora che forse non si tratta di trasfor-mare
un'energia in un'altra, forse è qual-cosa di più vicino a ciò che dice Thomas
quando afferma che si tratta di toccare all'in-terno di sé come delle sorgenti
sempre più sottili. Ma, siamo andati più lontano, nella comprensione?
Ci sono dei momenti in cui cammino per la strada
ed è come se vivessi e percepissi il mondo da sotto l'ombelico: mi muovo,
sento, vedo, penso come se fossi una specie di trattore diesel; la percezione,
le impressioni che ho delle persone sono dense, spesse, pesanti, c'è qualcosa
di inerte in me, che può trasformarsi facilmente e repentinamente in un moto
aggressivo. È come se allora il mondo fosse un luogo in cui ci muoviamo
attraverso pietre e sassi, le relazioni con gli altri sono secche e aride,
oppure fangose e torbide. Poi, magari venti minuti dopo, succede qualcosa e,
immediatamente, è come se i colori fossero diversi, più vividi,
improvvisamente i miei pensieri stanno in un'altra relazione con me, non mi
posseggono; è come se, in me, fossi in un altro posto, ad un altro
livello, o piano, di me stesso: se prima ero nella sala macchine o nella cucina,
adesso sono sul ponte della nave. Vedo, e quando vedo le altre persone, non vedo
più solo pezzi di carne, percepisco che ognuna di loro è un mistero,
percepisco che non esisto soltanto io, ma che ognuna di loro è "io",
ognuna di loro dice "io", ogni cosa dice "io". È come se
fossi in un altro posto. Si potrebbe dire: è come se mi trovassi ad un altro
livello di percezione, di fronte ad un'altra soglia.
Mi ricordo di quando ero bambino, magari una
mattina di primavera - abitavo in una fattoria: esci di casa e tutto è nuovo,
ti accorgi che è arrivata la primavera, il mondo è leggero, il mondo è come
un miracolo e senti di appartenere a questo miracolo, ne sei parte. E nello
stesso tempo sei nessuno, e da questo essere nessuno, come una gabbia che si
rompe, una gioia è percepita. Sì, certo, dipende da quali sono le proprie
preferenze. La mia preferenza sarebbe provare ad uscire dall'inferno, e non
rimanerci. Spesso nell'inferno ci si tiene stretti l'uno all'altro, tu provi ad
uscire, io ti acchiappo pei piedi: "No, rimani anche tu qui. Ci sono io, ci
stai anche tu".
Per me, è come se quel signore polacco ci avesse
lanciato una sfida: "Cantate. Può succedere qualcosa?" Attraverso
quel signore e questi canti, abbiamo scoperto una possibilità? Forse, piccola:
qualcosa, attraverso il lavoro su questi canti, può succedere. È come se,
improvvisamente, quella luce, quei colori di quella mattina li rivedessi - io,
nessuno: una gabbia che si apre per un momento. In quel momento qualcosa
funziona di nuovo e di nuovo posso dire: "Ecco, è un miracolo. Questo
mondo è leggero ed io sono parte di tutto questo". E, poi, forse ancora un
po' più su: "Questo mondo è un miracolo. E io non sono più parte di
tutto questo. Io chi?" E, poi, questa percezione finisce, e a volte ne
rimane in te e con te come una risonanza. E non sei migliore di prima, hai solo
tentato, quasi disperatamente, di tornare a casa.
Mi chiedete quale sia il senso di tutto questo,
l'obiettivo, tanto più che è visto da pochi e non è uno spettacolo. Potrei
dirvi che "vogliamo creare una nuova forma d'arte ribelle ai modi di
produzione artistica attuale, che possa sopravvivere e infiltrarsi in questa
civiltà in cui le relazioni umane sono estremamente rapide e nello stesso tempo
ne combatta la tendenza, creando negli artisti che agiscono la percezione del
presente reale al di là di dogmi o credenze o ideologie". Be', non solo
non sarebbe vero, soprattutto non avrei detto proprio niente. Inoltre sarebbe
pericoloso formulare un tale programma, perché, piano piano, mi potrei
convincere che è proprio così, che questo è davvero il nostro indirizzo, la
nostra intenzione, ed è l'indirizzo giusto, l'unico indirizzo giusto,
quello che tutti dovrebbero seguire; se tu allora mi dicessi, a torto o a
ragione, che il nostro indirizzo non è giusto, potrebbe andare a finire che ti
uccido, perché siamo fatti in questo modo, perché si cade così facilmente
nella stupidità, nel fanatismo, soprattutto in campi come questo. Quando ti
avvicini a ciò che fai con una "piattaforma programmatica" è
possibile che tu dimentichi quello che stavi facendo o la motivazione reale per
cui lo stavi facendo - motivazione intima che non puoi esprimere - e scambi il
tuo progetto con la tua motivazione. Il progetto allora diventa prioritario: lo
devi difendere ad ogni costo, contro le difficoltà, contro altre ideologie. Così,
parlando di obiettivi, ci possiamo mettere a litigare quando, magari, quello che
facciamo, tu ed io, o io e lui, nasce dallo stesso impulso. L'obiettivo non c'è,
o è segreto. Un albero: non ha un obiettivo, è una manifestazione in cui la
vita si articola a suo modo, in qualcosa di estremamente complesso.
Quando una persona viene a vedere il nostro
lavoro e, dopo, senti che sta in piedi accanto a te, come se ti dicesse: "Sì,
capisco", allora respiri un po' più liberamente. Ma da qui a dire che il
nostro lavoro serve... Chi serve? Serve alla società? Quale società? Tutto ciò
è pericoloso. Qui bisogna essere lucidi: qual è la società che voglio
servire? Qual è il mondo che voglio servire? Forse il mondo che voglio servire
è una persona.
30 novembre, terza giornata.
Domanda: Che
cos'è un canto vibratorio?
Mario Biagini: Quando Grotowski
e Thomas parlano di "canti vibratori" si riferiscono a canti
specifici, di natura rituale, per quel che ci riguarda provenienti soprattutto
dai Caraibi o dall'Africa. Io non sono certo uno specialista di cultura e
tradizione africana o caraibica, ed è bene essere consapevoli che il modo in
cui noi ci avviciniamo a questi canti nel lavoro non è una ricostruzione del
modo in cui questi elementi vengono utilizzati nel loro contesto tradizionale di
origine. Ma Grotowski diceva che quando un canto di questo genere è cantato in
maniera piena, il che non vuol dire a voce alta, ma con le sue qualità
vibratorie specifiche - nel senso della vibrazione sonora, del suono - e con gli
impulsi del corpo a sostegno, è possibile pur non conoscendo il significato
verbale delle parole del canto, percepire o comprendere il potenziale che vi è
come codificato. Alcuni di questi canti - soprattutto nei Caraibi, o nei luoghi
d'arrivo degli africani deportati - non sono nella lingua parlata
quotidianamente dalla gente del posto: a volte chi li canta può anche non
capirne del tutto le parole. Eppure, se la melodia è cantata in modo esatto,
con le vibrazioni sonore e gli impulsi che le sostengono e danno loro vita, puoi
come percepire di che cosa si tratta: c'è un aspetto per così dire oggettivo.
Può essere interessante comparare i "canti
vibratori" con altri fenomeni, di natura diversa, come per esempio i mantra
della tradizione indù o buddista. Il mantra è una specie di cristallo sonoro,
una forma sonora molto precisa: se ripetuto per un tempo adeguato con la
vibrazione sonora adeguata e con il giusto tempo-ritmo, può avere un effetto su
di un individuo - sulla frequenza di alcune funzioni fisiologiche, per esempio
la respirazione e il battito cardiaco, e poi, diciamo, sulla frequenza della
mente. Anche un mantra ha una natura vibratoria. Una differenza tra i mantra e i
canti presenti all'interno del nostro lavoro sta nel fatto che un mantra viene
intonato quasi sempre - anche se vi sono eccezioni - mantenendo saldamente il
corpo in una posizione statica e come cercando di frenarne le funzioni; invece i
canti attraverso i quali passa la ricerca condotta al Workcenter hanno bisogno
di essere portati da un flusso di impulsi, di affondarvi le loro radici. Si
potrebbe dire che hanno bisogno di essere radicati nelle azioni e reazioni
organiche dell'individuo. Allora, per esempio, il respiro non è manipolato come
nel caso di un mantra indù o buddista, non ci sono posizioni ma flussi di
impulsi attraverso il corpo e sostenuto da questi impulsi il canto si sviluppa.
Però, ci sono molte cose istruttive nella tradizione indù o buddista,
soprattutto in ambiente tantrico, rispetto al tema della vibrazione sonora. Per
esempio, una formulazione classica è: "se mantra e mantrin, cioè colui
che recita il mantra, rimangono distinti, il mantra non funziona. Se il mantra
non è portato dalla 'forza dell'io', allora rimane un suono vuoto, cavo".
Soprattutto in un ramo della tradizione tantrica, l'analisi è stata spinta
molto lontano: si dice che ogni suono emesso da un bambino, da un animale, ogni
esclamazione umana può funzionare come un mantra quando è riempita e pulsa
della vita di quell'essere vivente. Per capire meglio: un uomo dice ad una
donna: "ti amo". In queste parole può esserci - dico: "può"
esserci... - come una vibrazione sonora, indissolubile dalle parole stesse, una
vibrazione che porta in sé il senso, il desiderio, l'aspirazione di quella
persona. Le parole "ti amo" allora non portano solo il loro
significato, sono veicolo di qualcos'altro. È come se in "ti amo" il
suono e il contenuto essenziale non fossero due entità diverse: mantra e
mantrin non sono distinguibili. È solo un esempio, ma vedete, chiarisce che non
si tratta di convincersi mentalmente che tra se stessi e mantra non ci sono
differenze. Per questo nella tradizione indiana si dice che i mantra devono
essere trasmessi da qualcuno che ne conosce praticamente il funzionamento,
qualcuno che poi lavora con te perché questo cristallo sonoro entri dentro di
te e diventi portatore di te stesso.
Mi ricordo una notte di agosto, ero rimasto in
città, stavo leggendo un testo tradizionale indiano in cui si analizzava
proprio il fatto che un mantra può essere vuoto e dunque inefficace, "come
una nuvola che non porta la pioggia", oppure fare tutt'uno con la vita di
chi lo pronuncia. La finestra della mia stanza era aperta, la via era deserta,
la città era vuota: in quel silenzio ho sentito un suono che non riuscivo a
riconoscere, un suono quasi terrificante, con un elemento ritmico, come un
vitello che urlava felice, come se un vulcano cantasse. Ho impiegato diversi
secondi a capire che cos'era: era una coppia che, qualche isolato più in là,
faceva l'amore, era la voce di una donna, ma era come il suono della terra.
Domanda: Nel primo libro
di Richards14
si fa riferimento a un "unico modo" di muoversi nascosto, codificato
in un canto...
Mario Biagini: Non ero presente
alla sessione di lavoro di cui parla Thomas in quel passaggio del libro (ho
cominciato a lavorare con Grotowski nel 1986), dunque posso solo dirvi la mia
opinione. Cerco d'immaginarmi la situazione: un gruppo di studenti più o meno
motivati, in un seminario di due settimane, e Grotowski con i suoi assistenti.
Grotowski lancia una proposta di lavoro, una proposta d'improvvisazione
strutturata: deve indicare una possibilità, accennare ad una strada che potrebbe,
per uno o due di quegli studenti, essere creativa, aprire una porta. Secondo me
in quel caso, la proposta di cercare "l'unico modo di muoversi"
codificato in un canto era come una sfida che Grotowski ha lanciato agli
studenti che partecipavano al seminario. Un modo per provocare in loro una
reazione, per spingerli a cercare in una direzione - ti dice: "Guarda, là
c'è nascosto qualcosa, qualcosa di molto antico, scava, prova a cercarlo!"
D'altra parte, Grotowski era davvero interessato ad una ricerca che portasse
sugli elementi oggettivi presenti nei canti di tradizione: tra le altre cose,
sugli elementi di comportamento, anche se non identificabili con ciò che
s'intende nella tradizione teatrale occidentale con il "personaggio";
come se ogni canto potesse suggerire, anche indipendentemente dalle strutture
culturali acquisite, un tipo di comportamento articolato e non un altro. Durante
l'investigazione pratica sull'arte come veicolo, che continua ancora oggi, la
ricerca e le scoperte connesse a ciò che Thomas chiama "azione
interiore" hanno orientato il lavoro in una direzione che per noi, direi,
forse era più essenziale, urgente. Se vedete il film girato da Mercedes Gregory
nel 1989 su Downstairs Action, potete notare che ci sono molti passaggi
estremamente dinamici, in cui il corpo è pienamente coinvolto, su un livello
che parte dalla vitalità, legato alla piena disponibilità e freschezza delle
risorse vitali proprie alla gioventù. Se poi siete testimoni di Action,
il lavoro attuale, potete accorgervi che quest'aspetto si è come rarefatto, o
modificato: il lavoro si è sviluppato, è come se i canti stessi, col tempo, ci
avessero insegnato che il canto può entrare dentro di te, e in modo molto
potente, attraverso dei micro-adattamenti. Cerchi la strada verso il canto e
verso l'"azione interiore" in un flusso di minuscole azioni, come
accogliendo, lasciando entrare, accettando il canto. Questo dipende, potremmo
dire, da come il canto cerca di entrare e di agire su di te. Un elemento
fondamentale della tua struttura è: il canto deve riuscire a trovarti, a
contattarti, ad aiutarti a lasciar ascendere qualcosa in te. Come? Ogni giorno
troverai una strada che sarà come nuova, ogni giorno intonerai il canto in modo
leggermente diverso, perché ogni giorno sarai diverso. Per un osservatore
esterno però, questi micro-adattamenti all'interno della struttura possono
essere del tutto invisibili.
Domanda: Come si imparano
questi canti?
Mario Biagini: Nel nostro
lavoro, chi conosce il canto, ed ha più esperienza di te, te lo insegna. Come?
Lui canta e tu canti con lui, esattamente la stessa melodia, seguendolo e
cantando ad un volume molto più basso e cercando di essere esattamente in
sincronia nella pronuncia delle parole e del ritmo. Il ritmo, nel nostro lavoro,
non segue una scansione temporale stabile, fissa, quale potrebbe essere quella
dettata da un tamburo o da un metronomo. Il ritmo è dato dalla fluttuazione del
processo che il leader del canto cerca di attuare in sé, e dalle sue esigenze
in relazione a questo tentativo. Come è necessario un adattamento continuo del
corpo, così devi anche come imparare ad adattare (si tratta di fluttuazioni
lievi) il tempo-ritmo di quello che stai facendo - dunque anche il tempo-ritmo
del canto - in modo che il canto abbia una possibilità di agire su di te,
trovandoti disponibile. Il tempo-ritmo allora è più simile ad una cascata,
un'onda: cambia leggermente, e tu, se stai seguendo il leader di un canto, devi
stare molto attento. Mi ricordo di una sessione di lavoro, molti anni fa, quasi
agli inizi - stavo cantando con Thomas, lo seguivo in un canto, e come in una
sfida mi dissi: "Questa volta non mi scappa, in ogni secondo sarò in
sincronia e intonato con lui". Non so come e perché ma per qualche momento
ci riuscii davvero, tutta la mia attenzione era diretta ad essere in sincronia
nella pronuncia delle parole, nel ritmo, nelle micro-modulazioni della tonalità,
nelle fluttuazioni della vibrazione, fino a che, improvvisamente, mi resi conto
che siccome tutta la mia attenzione era lì, diretta verso Thomas, dentro di me
stava succedendo qualcosa a mia insaputa, forse proprio perché "a mia
insaputa": la mia attenzione era diretta ad un compito preciso, al di fuori
di me, così non c'era auto-osservazione, e un aspetto dentro di me era
diventato come libero di reagire. Ma nell'istante in cui me ne sono accorto,
sono andato fuori ritmo e tutto è finito. In quell'episodio però c'era come
un'indicazione: l'essere precisi può avere realmente una funzione, non è
qualcosa che vale di per sé.
Questo tipo di precisione ti richiede uno sforzo
costante, ogni secondo per tutta la durata della struttura in cui lavori (ad
esempio l'opera attuale, Action, dura circa un'ora). Poi, col tempo,
magari in sessioni di lavoro distinte dal lavoro su Action, cominci a
cantare guidando tu un canto e la persona con un po’ più di esperienza sta
fuori, ascolta e guarda, e in un certo senso segue quello che succede dentro di
te: per esperienza ha come una sensibilità, come se potesse quasi sentire dove
il processo in te è bloccato, dove qualcosa fa ostacolo. Allora magari ti dice:
"Lascia andare la mano sinistra, ora fai un passo, ora segui". Non ti
spiega perché, ti fa fare. Tu fai, senza chiederti il motivo - ti fidi, fai ciò
che ti dice di fare senza esitazioni, e qualcosa succede: come se tu avessi
tolto un sasso dal ruscello, e l'acqua potesse ora scorrere.
Domanda: Che tipo di
rapporto intercorre tra gli uomini di teatro e gli studiosi di teatro?
Mario Biagini: Se la tua
vocazione è quella dell'analisi del reale, mi sembra che dovresti dirti che,
inevitabilmente, il reale ti resisterà. Se uno dei campi d'indagine dello
studioso di teatro è l'attore, se il lavoro dell'attore è il suo reale e il
compito dello studioso è analizzare questo reale, non solo la natura ma in un
certo senso anche la funzione del reale, in una relazione dialettica, in un
possibile dialogo, è offrire resistenza all'analisi. Le due vocazioni, in un
certo senso, sono come avversarie e il fatto che lo siano è di per sé una
fertilità possibile nel rapporto. Tutto quello che abbiamo detto ieri sulle
azioni fisiche ha realmente senso per un attore? Ciò che noi chiamiamo qui
adesso una "partitura" rappresenta la totalità del mestiere
dell'attore? Il mestiere dell'attore è costituito da una serie di tentativi, di
sforzi più o meno intensi per toccare qualcosa che lui stesso non conosce, per
vivere questo qualcosa e, in certi campi dell'arte, per renderlo anche fruibile
a un osservatore o spettatore. Per toccare questo qualcosa di cui è difficile
parlare, per avvicinarvisi, l'attore fa dei tentativi. Ora, questi tentativi non
possono essere ricondotti ad una tecnica specifica. Voglio dire che non esiste
nessuna tecnica che di per sé funzioni, non esiste nessuna tecnica grazie alla
quale tu, prima di cominciare un lavoro, puoi essere sicuro di portare quel
lavoro a buon fine. La tecnica perfetta non esiste. Esistono molte tecniche,
arginamenti alle difficoltà, maniere per eliminare certi blocchi; ma nel
momento in cui un blocco viene eliminato se ne crea un altro. E gli ostacoli, i
blocchi psicologici, fisici, ecc. per loro natura si trasformano l'uno
nell'altro e per loro natura cambiano di continuo. Una volta eliminato un blocco
fisico, se ne crea un altro.
Un attore crea un frammento e il suo regista gli
dice: "Sì, questo è buono, rifacciamolo!". L'attore prova a rifarlo
e, provando, si accorge di non riuscirci, di non esserne capace: di trovarsi in
un'impossibilità. Allora, giorno per giorno, insieme al suo regista e ai suoi
colleghi, cerca di sviluppare dei modi di fare per poter rivivere quello che ha
fatto. Per esempio, costruisce una partitura, memorizzando una serie di piccole
azioni, di dettagli, associazioni ("Quando facevo così in quel frammento
era come quando da piccolo tornavo a casa, al crepuscolo, il cane mi aspettava
sotto quell'albero, e io mi nascondevo dietro il cespuglio per farlo venire da
me..."), come dei punti di riferimento, come se gettasse delle ancore qui e
là. Ecco, come gettare delle ancore, come cercare di creare dei punti fermi in
un oceano in cui non ci sono elementi fissi e stabili, perché la materia su cui
si lavora è fluida, è legata alla vita e la vita per sua natura cambia sempre.
Così dopo qualche tempo l'attore ha una partitura più o meno completa. Ripeto,
sto parlando di una partitura non di forme e di movimenti, ma di intenzioni,
azioni e reazioni. Allora, a questo punto può essere che la
partitura più o meno funzioni, che sia il più vicino possibile a ciò che
l'attore ha fatto quel giorno. Ebbene, anche la partitura in sé, è qualcosa
che forse funziona un giorno, forse il giorno dopo non funziona. Per
"funziona" voglio dire che è "di aiuto" per avvicinarsi a
quell'atto del primo giorno. In realtà, molto dipende da quanto bisogno ha la
persona di rivivere quel momento, di compiere di nuovo quell'atto. Da quanto
forte è il suo desiderio. Se l'esperienza in quel frammento che ha creato quel
giorno è importante per lui come essere umano e dunque lui vuole
riavvicinarvisi, toccare di nuovo quel flusso, lasciarsi riattraversare da
quella vita che ha sentito, allora troverà delle maniere per farlo. Ma queste
maniere, all'interno della struttura, non saranno mai esattamente le stesse,
quello che ha funzionato oggi forse domani non funzionerà di nuovo. Forse si,
forse no. Allora, che fare? Come dicevo ieri, nel nostro lavoro la struttura non
è mai di natura formale, si tratta piuttosto di arrivare alla forma,
sempre ogni volta di nuovo, facendo realmente e semplicemente. Per
esempio: durante la mia linea di azione ad un certo punto cerco un contatto con
lei, che sta al mio fianco; lei non sarà mai esattamente nello stesso luogo, la
nostra relazione nello spazio sarà leggermente diversa ogni giorno; dunque
quello che dovrò fare per guardarla negli occhi, formalmente sarà diverso. Ma
questo è un livello ancora molto grossolano, la realtà è più complessa. Un
giorno, appena ci guardiamo, subito riesco a catturare la sua attenzione, e lei
reagisce immediatamente alla mia proposta di connessione. Un altro giorno invece
forse sono stanco o forse lei è un po' più lenta, forse è arrabbiata, e nel
momento in cui mi avvicino è come se fosse lontana: forse, quel giorno mi ci
vorranno due secondi in più per stabilire un ponte di contatto, per fare in
modo che mi veda. Qual è la partitura? Non è il movimento - volgere la testa,
inclinare il corpo facendo un passo nella direzione opposta. La partitura
consiste nel fatto che voglio avere un contatto, magari in vista del frammento
seguente, o in relazione ad un altro collega.
Qual è il pericolo? Che, data una partitura, io
sia poi certo che funzionerà da sola, e che dunque mi sia sufficiente passare
per quei punti di riferimento per compiere pienamente ciò che ho da fare. Quei
punti di riferimento sono solo puntelli. Sono come le articolazioni di uno
scheletro, la cui esistenza è in funzione della carne che sostengono. Se
solamente "eseguo" la partitura come qualcosa di distinto dal mondo
per così dire interiore, c'è il rischio di un approccio mentale, di un fare
"diviso": "Adesso mi giro verso di lei, ora la sto guardando, ora
siamo in contatto...", come descrivendo nei miei pensieri ciò che invece
dovrei semplicemente fare, con tutto me stesso.
Tempo fa, qualcuno ha domandato a Thomas se è
possibile strutturare una linea di pensieri. E certo che è possibile. Non è
tanto questo il punto. Il punto è se funziona o meno. Un attore può
strutturare una linea di pensieri come elemento fondamentale di un frammento di
azione, ma attenzione: anche una linea di pensieri può essere strutturata e poi
eseguita in modo del tutto formale. Esattamente come, formalizzandole, si
trasformano azioni fisiche e intenzioni in gesti e movimenti vuoti, così si
possono trasformare contenuti associativi e intenzioni in formule e frasi
mentalizzate, sterili, separandole dagli impulsi - dalla totalità - cui sono
organicamente legate. Puoi fissare addirittura le parole da pensare in ogni
momento della tua partitura, e ripeterle come una macchinetta, e probabilmente
non funzionerà; oppure puoi fissare non che cosa pensi, non le parole che
pensi, ma verso che cosa sei orientato, verso che cosa tendi, a che cosa
"in-tendi", qual è la tua intenzione. Ed è chiaro che, giorno dopo
giorno, la forma che prenderanno i tuoi pensieri cambierà, come cambieranno i
movimenti e il tempo-ritmo: cercando un contatto con lei, i miei pensieri
saranno ogni giorno un po' diversi, come saranno leggermente diversi i miei
movimenti e il tono della mia voce, perché lei sarà differente, e io pure. La
struttura è la stessa, le intenzioni sono le stesse, ma qualcosa di formalmente
dissimile dal giorno prima potrà apparire. Uno di voi poco fa diceva che
un'azione arriva ad aver valore a livello teatrale soltanto quando è
artificiale, composta e formalizzata. Non sono d'accordo, perché fortunatamente
in teatro non esiste "solo così", o "solo se": ogni persona
è diversa, ogni attore è diverso e ogni attore ogni giorno, ogni minuto, è
diverso. Fidandosi di un approccio unicamente tecnico o comportandosi come se la
sicurezza che dà una struttura fosse di per sé sufficiente, si può perdere
col tempo la vita di quella stessa struttura, perché si cesserà di cercare al
suo interno ogni giorno la via - che non si conosce una volta per tutte - per
fare pienamente. Non si tratta solamente di "eseguire" una serie di
movimenti uniti ad una serie di pensieri. Si tratta di rivivere un attimo di
vita, in qualche modo. Ma come? Lì non c'è tecnica possibile, ci sono delle
tecniche. L'attore deve essere, da un certo punto di vista, estremamente rapido
e cosciente delle difficoltà.
Quando per me il rigore, la struttura,
l'artificialità nel senso alto della parola, acquistano tutto il loro senso?
Quando la forza della vita che scorre dentro un attore è forte, quando davvero
in lui succede qualcosa. È ciò che dicevo poco fa in relazione ad un altro
tema: la vita farà sempre resistenza ad una struttura; fa resistenza perché
vuole uscirne, è più grande, è più piena. Ma non tutto ciò che è preciso,
strutturato, rigoroso, ha di per sé valore teatrale e artistico. Un attore può
imparare alla perfezione delle tecniche efficaci e raffinate ma, una volta in
scena, ciò non basta: magari vedi uno con una tecnica incredibile ma non c'è
nient'altro, vedi soltanto una scimmia ammaestrata. Per quel che mi riguarda,
l'armatura della tecnica, dell'artigianato, ha senso se protegge una carne viva.
La sostiene: paradossalmente, come contraddicendola, le dà forza. E la difende
di fronte al mondo.
Siccome ciò che succede in un attore - oppure
nella relazione tra due attori, o tra attore e spettatore - è estremamente
complesso, cercando di analizzare verbalmente la materia dell'agire
performativo, cercando di capire dall'esterno ciò che succede nell'attore o in
chi agisce in modo strutturato con la totalità delle proprie risorse, si arriva
ad una complessità concettuale che rischia di essere più povera e ridotta
della realtà. Quando si parla di una struttura di azione o del lavoro di un
attore in generale, si può arrivare senza volerlo a considerare questa
struttura, o partitura, alla stregua di un congegno meccanico: c'è questo,
questo, poi questo e questo, tanti elementi che si combinano creando la
circostanza performativa. Purtroppo non è così, il lavoro dell'attore non
consiste solo di composizione, né è un lavoro di sola ingegneria. Questo è un
dato di fatto, in certi ambiti teatrali. Neanche il lavoro di un ballerino è
ingegneria: per quanto si possa guardare ad una coreografia come a qualcosa di
estremamente preciso, di quasi matematico, ad occhi attenti la presenza in scena
del danzatore sarà diversa ogni giorno, un giorno sarà migliore di un altro,
il giorno dopo invece sarà più scadente - eppure il danzatore fa le stesse
cose, esegue la stessa coreografia, ma un giorno è come se volasse, un altro è
come se facesse strani esercizi ginnici. E qual è la differenza? Com'è
formulabile concettualmente? Non lo so. Il che non vuol dire che da parte
dell'analisi storica o teorica ci debba essere una specie di resa senza
condizioni, come se non si potesse dire nulla di valido, di reale. Ma trovare
questo modo di accostarsi alla realtà, senza arrendersi né alla fatica né
alla facilità delle ideologie o delle dottrine, delle consorterie artistiche o
estetiche, senza radunare materiale per dimostrare tesi accettate come valide in
partenza, forse è compito vostro. Sono convinto che, a volte, basterebbe
riuscire a guardare con gli occhi aperti.
Ho letto tempo fa una definizione di che cosa sia
un'azione efficace, teatralmente parlando - cito a memoria: l'azione efficace e
reale è un'azione "cosciente e precisa". Ma il fatto che la struttura
copra solamente un livello del lavoro dell'attore è chiaro quando vedete due
attori che agiscono in relazione: ciò che fanno può essere estremamente
semplice, eppure non puoi descriverlo esattamente - loro stessi non possono, non
sono capaci di descrivere quello che stanno facendo il loro corpo, la loro voce,
il loro cuore. Un'analogia: due persone che fanno l'amore non sono mentalmente
coscienti di tutto ciò che fanno, dei loro movimenti o dei loro impulsi. Un
essere umano che cerca di fare l'amore mantenendo tutto il proprio agire
all'interno della sfera consapevole, osservandosi, agisce come una specie di
burattino - il suo comportamento avrà qualcosa di strano, di grottescamente
artificiale: la sua coscienza non può contenere tutto quello che succede in
quel momento, c'è dell'altro. Quando fai l'amore, non solo stai facendo
qualcosa di diverso dalla quotidianità, tu stesso sei diverso. Per esempio, in
quel momento, non hai paura di come ti vede la persona che è con te, non hai
paura di come ti giudica. È come un'esplosione, una mancanza di paura, sì, una
libertà. In quel momento non pensi neanche a come sei visto, sei indifeso: sai,
o senti, di non aver bisogno di nessuna difesa. Nella vita normale abbiamo di
continuo la necessità di porre barriere tra noi e gli altri, delle difese.
Forse in teatro c'è una possibilità: farne a meno. Come diceva Grotowski già
molti anni fa, forse in teatro si può smettere di recitare.
Un attore non è necessariamente cosciente di ciò
che fa il suo corpo, di ciò che la sua mente pensa, di ciò che il suo cuore
sente. Anzi, questo modo di osservare le varie funzioni e di dividerle in
compartimenti stagni spesso può essere un ostacolo alla creatività. Mi si può
obbiettare che l'esempio della coppia che fa l'amore è poco calzante,
trattandosi di un'esperienza reale, mentre il materiale proprio al lavoro
d'attore in fondo è qualcosa di fittizio. Be', sempre più spesso sento dire
che ciò che un attore fa in scena può essere completamente vuoto, non
corrispondere ad un'esperienza reale e funzionare lo stesso. Tutti voi conoscete
la tesi de Il paradosso dell'attore di Diderot: non è importante che vi
sia un'identificazione dell'attore con la logica del ruolo o con il personaggio
- in altri termini, che l'attore viva un'esperienza reale in scena; l'importante
è che l'attore faccia vivere quell'esperienza allo spettatore. È una delle vie
alla creatività, e può arrivare a livelli straordinari. Ma ci sono anche altri
modi di fare teatro, in cui ciò che un attore fa non è vuoto, non è frutto di
finzione, e forse questo è vicino a ciò che cercava Stanislavskij. Forse è
addirittura possibile andare oltre, verso ciò che è più pieno della vita
reale, o della vita di tutti i giorni. A volte è per questo che un attore fa
questo mestiere. Penso che fosse questo ciò che cercava Grotowski. Qui, dal
punto di vista dell'attore, la soddisfazione dello spettatore passa in secondo
piano. In quella che Grotowski chiamava linea "organica"15, la struttura non è la messa in
coscienza della totalità del comportamento scenico. La struttura concerne i
punti di contatto tra il palpabile e l'impalpabile, tra ciò che dipende dalla
mia volontà e che cade all'interno della sfera della coscienza e ciò che non
sottostà alla mia volontà consapevole. L'attore è cosciente delle sue
intenzioni, che vanno verso l'esterno (intenzioni che forse sono suscettibili di
risvegliare in lui intenzioni e reazioni segrete, intime, che sono la radice
viva, il nucleo fondamentale, caldo del suo atto), ma il modo in cui
l'intenzione passa nel corpo attraverso l'agire, passa nella voce, passa nello
spazio, passa nel partner... Tutto questo processo non è pienamente cosciente.
Nel momento in cui lo diventa, si rischia di ritrovarsi tra le mani una forma
vuota. Inoltre, quando trattengo il livello delle mie azioni sul piano
cosciente, mi muovo, parlo, faccio solamente secondo modi che già conosco, che
sono già registrati nel mio bagaglio di conoscenze tecniche, professionali o
umane. Non esco da lì. Ma il campo del reale, della vita, è molto più vasto
di questo quadratino. Una delle avventure, delle tentazioni proprie al mestiere
dell'attore è uscire fuori dall'area del noto, avvicinarsi ad un territorio
ignoto, che quasi ispira timore. Anche per questo si ha bisogno di una
struttura, perché almeno sai che in ogni caso la prossima cosa da fare
è questa, sai qual è la tua prossima intenzione: nell'oceano senza punti di
riferimento hai posto delle boe, non ti perdi. Notate, per piacere, che non sto
dicendo che un attore si debba comportare in modo incosciente - sono sicuro che
avete già visto fare delle improvvisazioni in stile cosiddetto
"grotowskiano": persone che si buttano per terra, urlano, sbattono tra
loro facendosi a volte anche male, perdono coscienza di ciò che sta loro
intorno e dei loro partner, come sommerse da contenuti inconsci. No. Si tratta
di creare una base solida, che ti dia la sicurezza di non perdere il filo: sai
che dopo questo viene questo, poi questo, poi questo, anche se tra qui e lì c'è
da percorrere tutta una strada che non conosci. Cosa c'è tra due punti della
tua struttura vicinissimi tra di loro, A e B? Basta fare un passo per andare dal
punto A al punto B. Eppure tra A e B c'è tutto un mondo, perché tra A e B ci
sono io, o meglio c'è tutta la mia assenza di me, e tutto lo spazio che ho per
trovarmi. "Dove sono? Dove sono?": è una domanda continua. La via per
andare dal punto A al punto B della struttura, la transizione tra questi due
punti vicinissimi nello spazio e nel tempo, è in qualche modo il segreto per
mantenere viva una partitura, ma devi renderti conto che è una strada da
tracciare nuova ogni giorno.
Questo vale anche per il cosiddetto lavoro sulla
memoria. Si dice spesso che, al Workcenter, molti frammenti di azione sono
basati su ricordi personali: si tratta realmente di avvenimenti della vita
trascorsa che vengono come riattualizzati? È realmente così? Forse non più,
forse adesso si tratta piuttosto di uno dei possibili tentativi per poter vivere
di nuovo un'esperienza apparsa nel lavoro. Per esempio - ora sto parlando
specificamente del nostro lavoro: una persona inizia un canto e... dall'esterno
ti riesce difficile analizzare la transizione, ma quasi di botto è davvero come
se il canto si riempisse di una sostanza, cominciasse a cantarsi; tu che stai
nella stessa stanza e guardi, ti accorgi che è come se il canto fosse diventato
per la persona che canta come un partner, e cantasse con lei; questa persona ora
si muove in tutt'altro modo, c'è qualcosa di fluido, senza sforzo, e come una
specie di trasparenza, la persona stessa è come trasparente, addirittura il
modo in cui la luce si riflette sul suo corpo cambia, come se la pelle
accettasse la luce diversamente. Poi, tutto questo finisce e la persona torna
come prima, ma rimane in lei e nello spazio intorno come un'eco di ciò che è
successo. Bene. Diciamo che vogliamo cominciare gentilmente a strutturare alcuni
dettagli per poter dare alla persona la possibilità di approfondire il suo
approccio a quel canto. E, allora, per esempio, lei dice "Quando facevo così,
mentre cantavo, era come se mi stessi ricordando, in azione, di una volta che
ero insieme a mia nonna: lei è caduta e si è messa a ridere, e anch'io mi sono
messa accanto a lei per terra, ridendo, e giocavo a rotolare". Come
se... Quel ricordo, in qualche modo, per qualche motivo misterioso, funziona
da ponte con ciò che stava succedendo in quel momento dentro alla persona: ciò
che stava avendo luogo non era legato a quel ricordo, in realtà la persona non
sa a che cosa era legato. Ma attraverso quel ricordo, che diventa in azione
parte integrante della struttura, è possibile come tracciare un sentiero da ciò
che è conscio, evidente, controllabile, e ciò che invece non lo è, ciò che
appartiene ad un ambito più vasto, non necessariamente inconscio, ma non
riducibile al mondo dei nomi, e che era apparso durante la prima volta. Con il
tempo, dopo molti anni di approfondimento e lavoro su di uno stesso frammento di
azione di questa natura, la struttura - nel senso di ciò che viene compiuto -
si approfondisce, ma è come se quel ricordo che serviva da trampolino per
tracciare il sentiero non fosse più indispensabile (o lo fosse solamente in
certi momenti di crisi); come se il sentiero stesso adesso ti conoscesse, ti
riconoscesse, e tu potessi avvicinarti a lui attraverso la linea di azioni senza
l'intermediario del ricordo. Come se, percorrendolo giorno dopo giorno con
la guida, per così dire, del ricordo, il sentiero stesso cominciasse ad essere
realmente tracciato. Ciò che sto cercando di formulare è delicato e complesso,
è qualcosa che solamente oggi posso cominciare ad articolare in parole, dopo
molto tempo di lavoro. È un argomento che, da solo, richiederebbe molto spazio.
Per adesso vorrei solamente aggiungere che questo approccio, che tende a creare
come un ponte, un passaggio o un'osmosi tra l'orizzonte conscio e, diciamo, la
vita interiore, oltre ad avere un posto nel processo di strutturazione, con gli
anni può anche aiutarti nel momento stesso in cui fai qualcosa di nuovo, quando
per esempio stai creando un nuovo frammento di azione.
Dunque, sono convinto che esistano delle
tecniche, che possono essere di aiuto in certi momenti, ma è fondamentale
essere svelti, svegli, pronti ad abbandonarle. Non da un giorno ad un altro, ma
di secondo in secondo. Mentre lavori cerchi, provi, tenti una strada, un'altra,
un'altra: "Come fare?". Essere pronti ad abbandonare una tecnica, a
trovarsi senza armi in mano. Questo vuol dire che, in certi campi, gran parte di
quel che succederà in una data situazione dipende non solo dalla competenza
professionale, ma anche dal materiale umano.
La direzione dell'attenzione, del tuo sguardo, può
essere molto importante. Quando un attore giovane fa una scoperta nel suo
lavoro, vedi che qualcosa dentro di lui si sveglia, diventa vivo. Nei giorni
seguenti, sarà ansioso, preoccupato, perché pensa che ci si aspetti da lui che
questo qualcosa rinasca di nuovo, che lui sia capace di riviverlo. Allora il suo
sguardo, la sua attenzione, possono volgersi verso l'interno, a ciò che succede
o non succede dentro di lui, e l'attore può iniziare ad osservarsi. Ma il
processo interiore è qualcosa di molto delicato, è come una creatura timida:
se la guardi direttamente, scappa. È necessario allora creare le condizioni
nelle quali l'attore abbia l'opportunità di dirigere la sua attenzione altrove,
sui compiti che ha in relazione ad un suo partner per esempio. Può anche essere
necessario liberarlo dall'aspettativa, dal dovere. Per aiutarlo non esistono
ricette: la tua responsabilità, nel momento in cui provi ad aiutarlo, è essere
sensibile ai suoi bisogni e alle sue possibilità.
Rispetto a questo problema dell'auto-osservazione
vorrei anche parlare di un tema legato ad un aspetto molto importante nel nostro
lavoro sui canti di tradizione. È difficile da formulare. È come una specie di
movimento dentro: il primo apparire di, per esempio, un'emozione è come
un moto senza nome, come una forza. Solamente nel momento in cui le do un nome
("questa è gioia, questo è dolore"), diventa una mia emozione. Nel
momento immediatamente precedente non era mia, era come un moto, un movimento
della natura, qualcosa che passava attraverso. Nell'attimo in cui guardo questo
moto, e lo identifico, diventa qualcosa di personale, cui posso anche
affezionarmi - come dire? - attaccarmi. Mi sembra che esistano vari tipi di
moti: ce ne sono di più legati, per esempio, alla vitalità, ovvero alla
sopravvivenza, agli impulsi fondamentali, alla sensualità. Altri sono più
sottili, difficilmente percepibili, come un vento leggero è difficile da
sentire camminando velocemente. Tutti sono come carburanti: sono davvero forze,
slanci o moti che possono dirigersi in una direzione o nell'altra. In quel primo
apparire sono come un fremito, qualcosa di percepibile, palpabile. E forse,
tutte queste forze o energie, possono essere sostegno per un certo tipo di
lavoro. Di solito, queste forze si dirigono verso il loro nutrimento specifico
in maniera automatica, molto velocemente: la paura si dirige verso un oggetto,
la rabbia verso un altro, la forza più legata alla vitalità verso un altro
ancora. Questa messa in moto è istantanea, fulminea: non è dettata da ciò che
tu vuoi a livello cosciente, ma da ciò che loro vogliono. Immediatamente
inoltre, ciò che percepisco come "io" s'identifica con questi moti e
presta loro tutte le sue funzioni. Ma se potessi rimanere in quel loro primo
apparire... Forse, c'è un modo in cui queste forze, che sono spesso in
lotta tra loro, possono trovare nutrimento non nei loro obiettivi immediati,
possono cercare non tanto il proprio appagamento quanto una specie di
riconciliazione fra di loro. Come se, servendo qualcosa che è al di sopra
di loro, si disponessero lungo un asse, come creando un sostegno, una scala. E
su questa scala, qualcosa può salire e poi discendere. L'avvicinarsi a questa
scala ha bisogno di essere sostenuto da una competenza artigianale.
L'abilità artigianale è un territorio in comune
tra l'arte come veicolo ed il teatro. Riguardo a questo aspetto
dell'artigianato, attenzione: c'è una differenza sostanziale tra un artigiano e
un ingegnere. Il lavoro dell'essere umano in azione non è ingegneria, non lo si
può smontare e rimontare con bulloni, viti, chiodi, aste e leve; non se ne
possono individuare i fulcri nascosti, le intenzioni segrete. È più simile al
lavoro di un giardiniere. Il giardiniere non sa spiegarti a parole come fa a far
crescere quelle cipolle così grandi. Tu pensi di fare esattamente le stesse
cose che fa lui, ma alla raccolta le tue cipolle sono più piccole e
striminzite. Tu gli chiedi: "Ma perché, se ho fatto come hai fatto
tu?" e lui borbotta qualcosa a proposito della terra del tuo campo e se ne
va: - non può spiegarti. Sa come si fa ma non può dirtelo. Potrebbe
insegnarti, ma dovresti lavorare con lui, nel suo orto.
Nell'analisi, penso si debba tenere in conto che
ciò che fa un attore non è ingegneria. Se spezzetti una mela, ne guardi un
frammento al microscopio o lo sottoponi ad uno spettrografo, non ne saprai di più
sul suo sapore: lo saprai se e quando la mangi. Non voglio dire che, per
analizzare e comprendere il lavoro dell'attore dovete diventare voi stessi
attori; non di meno dovete confrontarvi con una complessità. E non sarà
attraverso la complessità delle formulazioni concettuali che toccherete la
complessità del reale. Attraverso che cosa vi potrete avvicinare non lo so, ma
spesso noto che un libro, per esempio un saggio di analisi storica, mi colpisce
quando fra le righe percepisco qualcosa di vivo. Sarà una deformazione
professionale, ma l'analisi più minuziosa e dettagliata, quasi gesuitica, di un
processo, che corrisponde quasi a quello che succede, se è morta non mi
dice niente. Sento che quell'analisi, per quanto possa approssimarsi al flusso
del reale, resterà sempre a migliaia di chilometri di distanza dalla
comprensione perché le manca qualcosa di fondamentale. A volte invece
percepisci in un testo scritto non solo una reale competenza, ma anche una posta
in gioco, un'implicazione dello scrivente. Sono convinto che anche in questo
campo potrebbe valere quello che Grotowski diceva: "Qual è la tua
tentazione essenziale? Che cosa ti tenta?" Mantenendo desta la propria
tentazione, come una parte dell'anima che non si lascia intorpidire dal tempo o
dalla vecchiaia, ogni lavoro o sforzo umano può diventare un mezzo per
interrogare il proprio destino, per porsi delle domande.
Domanda: Mi sembra che la
posizione dell'attore e dello storico siano diverse. Se ciò che fa l'attore
deve "funzionare", il compito dello storico è "sistemare le
conoscenze"...
Mario Biagini: Se pensi che
questo sia il compito dello storico... Non voglio farne un problema dottrinario
(sebbene mi sembri che, dai tempi di Hegel, l'approccio allo studio teorico dei
fenomeni abbia pur fatto qualche passo in avanti: se "conoscere vuol dire:
far riferimento al noto, comprendere che una cosa sconosciuta è la stessa di
un'altra conosciuta" allora davvero non possiamo andare molto lontano)
diciamo solo che in questo caso ciò cui resisto è la sistematizzazione delle
conoscenze. Inoltre: non tutto quello che chiamiamo "conoscenza" e che
è suscettibile di sistematizzazione è realmente conoscenza, altrimenti ogni
saggio, in ogni campo, rappresenterebbe un passo in avanti per il pensiero, per
la comprensione del mondo e delle relazioni umane. E non mi sembra che sia così,
sfortunatamente.
Mi ricordo che Grotowski diceva che, quando aveva
fatto i colloqui con i professori del Collège de France allorché fu proposto
come docente, le persone con cui si era inteso subito parlando del suo lavoro
erano gli studiosi appartenenti al campo delle scienze esatte. Quando Grotowski
parlava loro delle azioni fisiche, della ricerca e della creazione del
personaggio, del "come se" di Stanislavskij ed anche di altri aspetti
del proprio lavoro, i fisici per esempio dicevano: "Ma certo, è chiaro, è
come quando noi diciamo che un elettrone si comporta in certe circostanze come
se fosse un'onda, in altre come se fosse una particella. Non lo è ma è come
se...".
Uno di voi mi ha chiesto: "Ma allora, come
deve comportarsi uno storico del teatro?" Non ho nessuna soluzione da
offrire, penso che dovremmo lottare per scoprirlo. Credo che uno storico debba,
per sé, per i suoi colleghi, per la materia del suo studio, creare dei momenti
di provocazione, delle sfide. Se stai cercando di capire ciò che è stato hai a
disposizione testimonianze scritte o iconografiche, materiale in un certo senso
muto: tu lo interroghi e lui non ti risponde. Se invece ti occupi di ciò che è,
allora è come se fossi di fronte ad un animale non addomesticato, una bestia
che cambia forma continuamente. Puoi anche, se vuoi, bloccarla in un angolo e
dirle: "Ah, sei così!", ma un secondo dopo non lo sarà più. E se
l'addomestichi nella tua mente o nel tuo lavoro, te ne allontani. Ma giustamente
tu chiedi: quale può essere un modo, una via, un approccio? Ci può essere
un'analogia con un certo lavoro d'attore: un attore si avvicina ad un elemento
del suo lavoro (per esempio un canto o un frammento di azione), e mentre si
avvicina, dice a se stesso: "A dispetto di tutta la mia competenza, io di
questa cosa non so niente, non so come fare, è sul momento che devo trovare
come avvicinarmi". Ti avvicini a qualcosa e sospendi il tuo giudizio. Ti
avvicini sapendo che non la conosci, che non sai come reagirà quando la
toccherai. Un approccio possibile è quello del contatto diretto, personale. Se
ti occupi di temi che sono presenti e vivi all'interno del lavoro di un artista
vivente, per prima cosa cerca di assistere il più possibile e in molti modi
diversi al suo lavoro. Poi vai da lui e gli dici: "Guarda, ho pensato che
forse è così". E lui ti dirà: "No, dal mio punto di vista non è
così." Forse potrete allora iniziare un dialogo, un'interazione creativa,
magari lui ti darà qualche elemento in più su cui lavorare. Mi dirai che tutto
questo è ingenuo, che lo studioso deve mantenere una posizione oggettiva... Ma
sinceramente vedo pochi studiosi realmente implicati nella ricerca sul campo. Il
mio unico consiglio è: se studi dei fenomeni teatrali viventi, vai a vederli da
vicino, il più possibile, guarda di che cosa si tratta, non fidarti dei soli
libri, leggili come se cercassero di imbrogliarti, come se non volessero
rivelarti il loro segreto. Quando vai a vedere il lavoro di un gruppo teatrale,
di un regista o di un attore, cerca di essere uno spettatore vergine, qualcuno
che si lascia, in qualche modo, travolgere da ciò che vede. Fottitene della
pretesa "oggettività" dello studioso, se è solo un pretesto per non
correre rischi. E non pensare, prima di vedere, o immediatamente dopo: "Ah,
già so". Questo è un problema che un regista, da parte sua, deve
affrontare ogni giorno: vede il materiale degli attori, tutti i giorni osserva
quella stessa struttura; dopo tre mesi la conosce a memoria, sa che dopo questo
dettaglio c'è quello e poi quello e quest'altro. Potrebbe indicarne i ritmi
senza vedere. Però tutti i giorni deve fare uno sforzo cosciente per vedere da
capo, di nuovo. In questo Grotowski era incredibile. Uno sforzo cosciente come
di azzeramento della memoria: vedere per la prima volta. È difficile. Vedere
per la prima volta, vedere senza preconcetti: come una specie di passività
all'erta, di passività attiva, sei attento a quello che succede di fronte a te,
non vi proietti quello che vorresti succedesse, i tuoi fantasmi o i tuoi
desideri, ma semplicemente vedi quello che ti sta di fronte. È una questione
d'esperienza, non conosco nessun tipo di tecnica che ti può aiutare. Come non
c'è nessun tipo di tecnica o di formula per essere capaci di riconoscere quando
un attore è vivo in ciò che fa. Col tempo, piano piano, cominci ad accorgerti
che c'è come una sostanza che fluisce intorno a lui.
In seguito, domandati se hai degli strumenti che
sono atti ad analizzare, a descrivere, ad avvicinarti in maniera teorica a ciò
che hai visto. Vedi quali sono gli strumenti che possiedi e, anche riguardo agli
strumenti, rimani critico. Forse te li devi creare, gli strumenti, i linguaggi.
A questo punto si pone anche il problema di una terminologia condivisa. La
parola "energia", per esempio: come abbiamo visto ieri, la si può
utilizzare in ambiti diversi, con significati diversi. Anche il termine
"azione fisica" è passato nel linguaggio di numerosi registi ed
attori, ed è diventato un termine condiviso in molti ambienti teatrali.
Nondimeno sono convinto, per quello che vedo e leggo, che gran parte delle
persone che utilizzano la formula "azione fisica" nel loro lavoro,
pratico o teorico, non comprendono che "azione fisica" non vuol dire
movimento, lavoro fisico. In certi casi, se vedono una persona che fa un
movimento e una che fa un'azione fisica non percepiscono la differenza. Allora,
c'è la questione della percezione. È necessario o no per uno storico essere
capace di distinguere, non sulla pagina ma in quello che succede di fronte a
lui, nei fatti, tra un movimento e un'azione fisica? Se è necessario, vuol dire
che deve avere un certo tipo di allenamento, osservare molto, veder lavorare
attori e registi, senza fare finta di essere un attore o un regista, né
guardando dal punto di vista dell'esperto - ma semplicemente guardare, e cercare
di comprendere perché il regista dice all'attore in quel momento che quello che
fa non va bene. Per percepire la differenza tra movimento e azione, devi
sviluppare una certa capacità. Come non si nasce bravi attori, così neanche si
nasce fini percettori. Alcune persone forse si, altre no. Mi ricordo che, con
Grotowski, spesso non capivo che cosa intendesse quando diceva che un frammento
era vivo e un altro, invece, morto. Solo con gli anni ho cominciato a vedere.
Non è che capisci, ma vedi, è come se tu percepissi. È qualcosa che va
nutrito. Ci vuole una certa ricettività e qualcuno che ti aiuta. Il che è un
problema effettivo, anche di tempo: uno studioso ha bisogno di passare molte ore
leggendo, studiando. Anche qui è necessario un apprendistato: alla lettura
reale, critica, attenta, per capire quando un autore sta facendo il giocoliere
con le parole e quando sta realmente dicendo qualcosa. Spesso un saggio è
importante perché contiene una pagina importante: in quella pagina
l'autore è riuscito a dire qualcosa di reale e concreto, qualcosa che fa
avanzare la tua comprensione, o che ti pone una domanda che non puoi eludere
facilmente. Ma le pagine importanti sono rare, non solo quelle scritte dagli
storici: rari sono anche gli spettacoli in cui c'è una pagina importante, o i
romanzi.
© Mario Biagini 2000
1
Il seminario è stato organizzato dalla cattedra di Metodologia e Critica dello
Spettacolo III, prof. Roberto Ciancarelli.
2
Thomas Richards, Il punto limite della performance,
Documentation Series of the Workcenter of Jerzy Grotowski, pubblicato da:
Fondazione Pontedera Teatro, Pontedera, giugno 2000, p. 8 (n.d.c.).
3
Ibidem (n.d.c.).
4
Jerzy Grotowski, Prefazione a Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle
azioni fisiche, Milano, Ubulibri, 1993, p. 10 e Jerzy Grotowski, "Testo
senza titolo", in "Teatro e Storia", Annali 5-6, XIII-XIV,
1998-1999, p. 443 (n.d.c.).
5
Nel 1986, su invito di Roberto Bacci e Carla Pollastrelli, "Centro per la
Sperimentazione e la Ricerca Teatrale" (ora: "Fondazione Pontedera
Teatro") (n.d.c.).
6
Jerzy Grotowski, Dalla compagnia teatrale all'arte come veicolo, in
appendice a Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche,
cit., p. 128 (n.d.c.).
7
Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, cit., p.
106 (n.d.c.).
8
Franco Ruffini, La Stanza vuota. Uno studio sul libro di Jerzy Grotowski,
in "Teatro e Storia", Annali 5-6, XIII-XIV, 1998-1999 (n.d.c.).
9
Ivi, p. 470 (n.d.c.).
10
Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, cit., p.
106 (n.d.c.).
11
Ivi, pp. 39-40 e p. 85 (n.d.c.).
12
Ivi, pp. 104-109 (n.d.c.).
13
Si veda, per esempio: L'arte segreta dell'attore. Un dizionario di
antropologia teatrale, a cura di Eugenio Barba e Nicola Savarese, Lecce,
Argo, 1996, pp. 52-72 (n.d.c.).
14
Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche,
cit., p. 33 (n.d.c.).
15
Vedi Jerzy Grotowski, Anthropologie théâtrale, Leçon Inaugurale, Théâtre
des Bouffes du Nord, (cassetta audio della Lezione inaugurale della cattedra di
Antropologia teatrale del Collège de France, 24 Marzo 1997), Collection Collège
de France, Le livre qui parle; e Jerzy Grotowski, La "Lignée
organique" au théâtre et dans le rituel, Collection Collège de
France, Le livre qui parle (6 cassette audio contenenti il primo ciclo di
lezioni di Antropologia Teatrale al Collège de France: sessioni del 2, 16 e 23
Giugno 1997 al Théâtre de l'Odéon). Le cassette del secondo ciclo, al Théâtre
du Conservatoire, e del terzo, al Théâtre du Rond-Point, sono in preparazione.
Le cassette sono ottenibili presso il Collège de France
(www.college-de-france.fr) oppure presso Le livre qui parle
(lelivrequiparle@wanadoo.fr) (n.d.c.).
La foto che ritrae Mario Biagini, di Giordano Acquaviva (1999), è stata gentilmente concessa dal Workcenter.