1959-1969:
Il Teatro è un Laboratorio
di Vanessa Polselli
Nel 1959 Jerzy Grotowski venne chiamato da Ludwik
Flaszen, rispettato critico teatrale e letterario, a dirigere in qualità di
regista il Teatro delle Tredici File. Flaszen aveva ricevuto da parte delle
autorità di Opole l'incarico di rilevare il piccolo teatro ma, considerando
adatto a sé il ruolo di direttore letterario, non si ritenne invece idoneo a
quello di regista per il quale si mise in contatto con Grotowski. Grotowski
aveva ventisei anni, alle spalle studi regolari ed una attività registica
svolta in un teatro tradizionale, lo Stary Teatr. Fu proprio presso questo
teatro durante il lavoro con i suoi collaboratori, tutti ex professori
dell'accademia, che notò come, nonostante essi si sforzassero durante le prove
di assecondare le sue richieste volte alla ricerca di un'azione compiuta con
tutto il corpo, al momento dello spettacolo le abitudini recitative
riemergessero, avendo così il sopravvento sulle scoperte fatte nel corso delle
prove1
Nel 1959 il Teatro delle Tredici File, con
residenza ad Opole, avviò la prima stagione teatrale. "Grotowski said that in order for the theatre
to function efficiently, he would need a number of full-time positions for
actors, a literary director, a free hand in choosing the repertoire and members
of the company, a steady income, and an operating budget that would enable the
group to work without constant surprises"3
Cosa si ricercava?
Un'azione reale.
Non che il piano fosse chiaro sin dall'inizio e
definito nelle modalità di svolgimento: fu un cammino di continua
sperimentazione.
Dal 1959 al 1962 Grotowski realizzò otto
spettacoli: Orfeo da Cocteau (1959), Caino da Byron (1960), Faust
da Goethe (1960), Mistero Buffo da Majakovskij (1960), Sakuntala
da Kalidasa (1960), Gli Avi da Mickiewicz (1961), Kordian da
Slowacki (1962), Akropolis
da Wyspianski, prima versione (1962).
I testi scelti erano caratterizzati dall'essere
incentrati su argomenti o temi appartenenti, in un certo senso, alla storia
dell'umanità: archetipi che avevano in sé la possibilità di suscitare una
reazione in ciascun partecipante all'evento teatrale, "cercavamo sempre
l'immagine archetipica - per usare questa terminologia - nel senso dell'immagine
mitica delle cose, o piuttosto la formula mitica, come ad esempio l'olocausto,
il sacrificio dell'individuo per la collettività-Kordian; o la via
crucis di Cristo, il mito del Golgolta, che fu usato nella Grande
Improvvisazione de Gli Avi di Mickievicz"4
L'uso libero del testo era il risultato della
ricerca di un reale rapporto con esso. Venivano eliminate le parti storicamente
determinate, quelle sezioni o quei riferimenti circoscritti all'epoca della
scrittura e che ad essa, quindi, facevano direttamente riferimento e si lasciava
che emergesse il nucleo assoluto dell'opera, come la carne nuda, nodo mitico e
denso con cui operare il confronto personale ed individuale: "Eliminavamo
dal testo quelle sue parti che non conservavano questa forza e, per selezione,
punto dopo punto, cercavamo quanto non fosse più opera drammatica, ma come un
cristallo di provocazione, qualcosa di elementare, un'esperienza dei nostri
antenati, una voce che parli dall'abisso, a cui noi possiamo trovare la nostra
risposta"5.
Su questa base comune, costituita dall'energia
sprigionata dall'archetipo contenuto in un testo, ovvero da un Tema
condivisibile quale comune terreno di fede, Grotowski riteneva possibile
ricostituire l'antica unità del rituale.
Lo spettatore veniva inserito in uno spazio ed in una struttura drammaturgica in
cui gli era richiesto di prendere parte attiva: veniva cioè sollecitata una
risposta fisica e vocale e tale risposta, in un certo senso, era prevista nel
testo scenico elaborato dal regista. Grazie a questa reazione sarebbe stato
possibile, secondo una dialettica di "apoteosi e derisione", un
riconoscimento, uno scontro-confronto ed in fine un andare oltre le radici che
sono alla base di ogni condizionamento. Il desiderio di rigenerare il rituale
nasceva dalle possibilità che in esso sono insite: il confronto con i propri
miti (che sono ciò che influenza e dirige in modo inconsapevole la vita di
ciascuno) significava esorcizzarli, viverli fino in fondo con serietà ed ironia
per poi superarli e con essi superare anche ciò che Freud definisce la
coercizione a ripetere6.
Poiché furono le cerimonie primitive a far
nascere il teatro attraverso il rituale - al quale partecipano le due parti, gli
attori, ossia i coreuti, e gli spettatori, ossia i veri partecipanti - pensai
che fosse possibile ritrovare questo cerimoniale di partecipazione diretta,
viva, una particolare forma di reciprocità (fenomeno piuttosto raro ai nostri
tempi), una reazione immediata,aperta, liberata, autentica [...] Pensavo dunque
che se l'attore attraverso la sua interpretazione avesse stimolato lo
spettatore, lo avesse provocato alla collaborazione, al movimento, al canto, a
repliche verbali, ecc., si sarebbe resa possibile la ricostruzione, la
restituzione dell'originaria unità rituale.7
Dal punto di vista strettamente teatrale vi era
un elaborato e ben attento piano di regia che disarticolava i tradizionali
rapporti fra attori e spettatori, fra spettatori e spazio scenico, fra attori
spettatori e testo. Lo spettacolo nasceva dal punto di vista pratico in modo
tradizionale: Grotowski aveva un progetto e cominciava le prove sapendo
esattamente cosa volesse ottenere e quindi quale sarebbe stato il risultato
finale. Gli attori erano gli strumenti attraverso cui realizzare le proprie idee8, costituivano uno
degli elementi per la composizione del rituale. Erano studiate in fase di prove
le possibili reazioni degli partecipanti, così da poter strutturare
preventivamente delle risposte di base da parte degli attori:
Abbiamo fatto molte esperienze di messa in ruolo
attivo dello spettatore. Non è affatto difficile. È molto triste che non sia
difficile. Gli esseri umani sono così pieni di paure e si imbarazzano a tal
punto, che è sufficiente creare una certa circostanza di pressione, perché
essi diventino ubbidienti [... ]. In un dramma di Mickievicz, Gli
Avi, c'è un rito di rievocazione dei morti, e arrivano diversi morti. Allora
abbiamo tirato fuori morti fra gli spettatori. C'era lo stregone, che era il
capo del rito [...]. Da noi, nel nostro spettacolo, lo Stregone ha trovato una
ragazza fra gli spettatori, le si è avvicinato ed ha cominciato ad osservarla.
Allora, immediatamente la ragazza ha cominciato a sentirsi a disagio [...] ha
cominciato a muoversi, ma nel testo di Mickievicz si dice a questo proposito -
Perché sei imbarazzata? -. E poi si dice - Ma perché sorridi? - E
inevitabilmente prima che venissero dette queste parole, la ragazza per
imbarazzo, per difendersi, ha sorriso. In quel momento era il testo di
Mickievicz a rispondere, e in quel momento lei si è persa completamente, e in
quel momento con il testo di Mickievicz lo stregone ha detto - Si è persa -.
Bisognava prenderla in braccio e portarla fuori e si è fatto questo.9
Proseguendo la ricerca in questa direzione, ossia
verso la costituzione di un terreno comune su cui rendere possibile l'incontro,
Grotowski, in occasione dell'allestimento di Sakuntala, facendo
riferimento ai teatri orientali caratterizzati da una recitazione rituale dovuta
ad un sistema di segni codificato dalla tradizione, perfetta-mente riconoscibili
e condivisibili dagli spettatori, tenta di far percorrere al teatro occidentale
la mede-sima strada, facendo elaborare agli attori una sorta di codice gestuale.
Il risultato non andò verso la direzione sperata: l'azione dell'attore era
costituita da ciò che Stanislavskij chiama “stampi gestuali”.
Il lavoro su questo spettacolo fu comunque
proficuo per il gruppo. La necessità di elaborare un codice fisico pose gli
attori dinanzi al bisogno di allenarsi fisicamente alla realizzazione del
compito: venne così introdotto il training. Grotowski inoltre cominciò a
pensare "quali fossero le possibilità del segno; forse non bisogna cercare
i segni una volta per sempre per tutte le rappresentazioni, forse bisogna
ricercare un determinato sistema che possa agire per ciascuna in particolare
[...] d'altra parte per evitare il pericolo degli stereotipi, bisogna ricercare
ciò in modo diverso, liberando i segni dal processo organico dell'organismo
umano"10.
Con il tempo cominciarono ad insinuarsi due
pericoli: la manipolazione dello spettatore e l'imitazione dell'immagine mitica
da parte dell'attore. Il pericolo era la caduta nella ripetizione del proprio
lavoro. La consapevolezza di tale momento di crisi pose nuovi e pressanti
interrogativi sul ruolo dello spettatore, sulla funzione dell'attore e sul senso
del teatro. "Un giorno (era più o meno il 1963) abbiamo detto di no a
tutto questo. La partecipazione attiva degli spettatori non è possibile in
queste condizioni. Che fare allora? [...] Rinunciare a qualsiasi nozione di
partecipazione attiva degli spettatori e cercare qualcosa che è reale
prima"11
Il regista abbandonò perciò la manipolazione
dello spettatore e con essa anche quella dell'attore, inserito fino ad allora
all'interno del suo piano registico. Se la funzione dello spettatore è quella
di testimoniare, da qualche parte o anche a se stesso, fu chiaro che, perché ci
fosse una testimonianza, c'era bisogno di quel qualcosa che meritasse di essere
osservato: l'atto totale dell'attore.
Ma cos'è l'atto totale? Non certo la morte
dell'attore sulla scena, anche se in un certo senso si potrebbe parlare di morte
come morte di tutti gli stereotipi, di tutte le difese, le finzioni o le
maschere a cui il vivere quotidiano condanna. L'individuo che compie questo
autodafè si rivolge alla propria vita, non si serve del testo o della propria
sapienza tecnica per nascondersi ed evitare in tal modo di fare veramente
qualcosa, si rivolge a ciò che è stato per lui importante, un evento avvenuto,
atteso, sperato o temuto e quando giunge a questo luogo così nascosto dentro di
sé è come se abbattesse una diga ed il fiume del suo segreto cominciasse a
scorrere. Lo scorrere è impetuoso, ma l'attore non rischia alcuno straripamento
perché è cosciente, guarda e allo stesso tempo vive il suo segreto, è
consapevole di esso e da esso si lascia attraversare: il suo corpo rinuncia ad
opporre qualsiasi resistenza ed allora è come se il suo corpo fosse il suo
segreto. La sua confessione è letterale ed è quindi crudele e dolorosa, come
qualsiasi atto di verità: "Questo atto deve essere come la rivelazione di
sé - preferisco una definizione antiquata, ma qui esatta - deve essere un atto
di confessione. È un atto che si può ottenere solo in riferimento alla propria
vita, è un atto che spoglia, denuda, scopre, rivela, svela. L'attore non deve
recitare, ma penetrare gli spazi della propria esperienza, come analizzandola
con il corpo e con la voce. Deve ricercare gli impulsi che fluiscono dal
profondo del proprio corpo"13.
Dal 1962 al 1969 Grotowski realizza cinque
spettacoli: Akropolis da Wyspianski, seconda versione (1962; a questa
seguirono altre tre versioni, 1964, 1965, 1967), La tragica storia del dottor
Faust da Marlowe (1963), Lo studio su Amleto da
Shakespeare/Wyspianski (1964), Il Principe costante da Calderon/Slowacki
(tre versioni: aprile 1965, novembre 1965, 1968), Apocalypsis cum figuris,
elaborazione collettiva con passi dalla Bibbia, Dostoevskij, Eliot, Weil (1968).
La ricerca di questo periodo ed il suo risultato
espressivo sono conosciuti come teatro povero, formula che riassume il
principio di un teatro fondato unicamente sull'attore o meglio sull'incontro fra
l'attore che compie l'atto totale e lo spettatore che ne è testimone.
Attraverso quale processo si perviene allo
spettacolo?
Il lavoro divenne più lungo e si articolò in
diverse fasi. L'azione di Grotowski cambiò radicalmente. Portava alle prove un
montaggio del testo da lui composto, dopodiché lasciava che gli attori
cercassero il modo grazie a cui la parte potesse agire come un bisturi
pronto ad aprire il loro luogo più intimo. In questa fase l'attore compie degli
studi o schizzi, di fatto delle improvvisazioni, un viaggio verso
e attraverso la memoria personale, verso ciò che appartiene segretamente
all'essere: ricordi, desideri, paure, finzioni. L'attuante lascia che il proprio
corpo reagisca agli stimoli offertigli dal tema-trampolino fino a quando
non arrivi alla sorgente, cioè a scoprire l'ignoto, vale dire ciò di cui egli
stesso non è consapevole. Importante in tale fase è il partner di lavoro su
cui egli proietta le forme della propria vita (si è sempre in relazione a).
"These sketches
are the direct opposite of improvisation - which protect me from the act of
truth, from the act which really abolishes the frontier between life and theatre
- [...] I am obliged to be conscious not in words, but in acts and facts. I am
obliged to be precise in my work. Now, what reveals the presence of a
consciousness is tructure, clarity, the precise line of the work. The absence of
precision in work, the lack of structure in a work, are so many sins against
consciousness"14.
Se da una parte si cerca l'organicità, ovvero l'impulso che si
origina dalla parte più intima dell'attore, dall'altra questa corrente, questo
segreto per usare la terminologia adoperata più su, necessita di una grande
precisione: sono i due poli tra cui si muove l'azione reale. Grotowski spiega
esattamente il processo attraverso cui si elaborano gli argini del fiume, dice
infatti: "Se si desidera tracciare come una specie di pista bisogna
possedere i morfemi di questa partitura (la pista, n.d.r.), così
come le note sono i morfemi della partitura musicale". Il lettore presti
ora una particolare attenzione a quanto segue, "non si tratta di gesti, né
nulla di quanto si può vedere dal di fuori: in questo caso sarebbe sempre un
fallimento". La partitura allora non è la serie di azioni che compie
l'attore, "non le note vocali, i gesti esteriori costituiscono i morfemi
della partitura attorica, ma qualcosa di diverso [...] Riteniamo che i morfemi
siano impulsi che salgono dall'interno del corpo a incontrare l'esterno. Ho
detto: interno del corpo [...] l'impulso comincia nell'interno del corpo e solo
nell'ultima fase appare il gesto che ne è il punto finale; è una linea che
corre dall'interno all'esterno". A questo punto diventa evidente quale
parte giochi la precisione, ovvero la struttura: "Quando tale abbozzo è
infine vivo, vi si ricercano i punti fondamentali, gli impulsi, che bisogna
annotare, non a matita naturalmente, ma nel corpo. Quando sono stati annotati,
l'attore può ripetere ciò più volte, eliminando quanto non è essenziale; così
nasce il riflesso condizionato, basato sui punti annotati, e questo bozzetto
costituisce ormai un piccolo frammento dell'opera". È proprio grazie a
questa partitura di impulsi che all'attore è possibile rinnovare e non
semplicemente ripetere l'atto totale, la confessione, infatti "possiede
ormai quella linea, la partitura di vivi impulsi, fortemente radicata nel
suo arrière-être; ha raggiunto il punto di partenza, l'inizio; su questo
terreno ora, qui, oggi, deve compiere la confessione personale"15. Durante la fase di creazione da parte
dell'attore, Grotowski attendeva e osservava, non bloccava o tagliava la sua
azione prima che questi potesse giungere a qualcosa di vero. Solo alla fine,
quando gli studi erano stati fissati, costruiva lo spettacolo montando le
partiture, abilmente attento a non uccidere il processo legato a ciascuna di
esse16. La storia ed il testo
prendevano forma e vita come se fossero state inghiottite, assorbite dalla
corrente di impulsi. Non c'erano una storia ed un testo eppure erano realmente
presenti.
L'attore simbolo di questo lavoro è Ryszard
Cieslak in Il Principe costante. Egli aveva elaborato una partitura di
impulsi legata alla sua memoria personale, ad un evento della sua vita: la prima
esperienza amorosa. Niente torture, né dolori, né agonia, come invece nel
testo di Calderon. Eppure tutto questo c'era nello spettacolo e fu percepibile
dai testimoni.
Dice un vecchio proverbio russo: se vai nell'aia, alzi lo sguardo al cielo e spicchi un salto verso le stelle, cascherai solo nel fango. Spesso ci si dimentica dei gradini. Ma i gradini devono essere costruiti. Questo, Grotowski non lo ha mai dimenticato. Ci si può perdere facilmente pensando al profondo aspetto metafisico del lavoro di Grotowski, e dimenticare la somma di sacrifici e sforzi pratici che sta dietro ai suoi risultati. Grotowski è stato prima di tutto un maestro nell'arte della regia.17
1
Cfr. Ugo Volli (a cura di), Grotowski: vent'anni di attività, in
"Sipario", n. 404, 1980, p. 33.
2
La citazione è riportata in Jennifer Kumiega, Jerzy Grotowski. La ricerca
nel teatro e dopo il teatro 1959-1984, Firenza, la casa USHER, 1989, p. 17.
3 Zbigniew Osinski, Grotowski
and His Laboratory, New York, PAJ Publications, 1986, p. 36.
4
Jerzy Grotowski, Teatro e rituale, in "Il Dramma", III
quadrimestre, 1969, p. 78.
5
Ivi, p. 81.
6
Cfr. più avanti l'articolo di Francesco Di Giovanni, Ecce Agnus Dei: alle
origini del Principe costante.
7
Jerzy Grotowski, Teatro e rituale, cit., pp. 74-75.
8
Cfr. Jennifer Kumiega, Jerzy Grotowski..., cit., pp. 100-102.
9
Renata Molinari (a cura di), Jerzy Grotowski e il Teatr Laboratorium, in
"Sipario", cit., pp.7-8.
10
Jerzy Grotowski, Teatro e rituale, cit., p. 81.
11
Ugo Volli (a cura di), Grotowski: vent'anni di attività, cit., p. 8.
12
Jerzy Grotowski, Il teatro è una tigre che ci assale, brani raccolti da
Franco Quadri, in "Sipario", n. 284, 1969, p. 17.
13
Jerzy Grotowski, Teatro e rituale, cit., p. 82.
14 Marc Fumaroli (a
cura di), External Order, Internal Intimacy: Interview with Grotowski, in
Lisa Wolford-Richard Schechner (a cura di), The Grotowski Sourcebook,
Londra, Routledge, 1998, p. 107.
15
Jerzy Grotowski, Teatro e rituale, cit., pp. 83-84.
16
Cfr. Jerzy Grotowski, Il
regista come spettatore di professione, in “Teatro festival”, 3,
1986.
17 Thomas
Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Milano, Ubulibri,
1993, p.19.
La foto (Sakuntala) è tratta da Jennifer Kumiega, Jerzy Grotowski. La ricerca nel teatro e dopo il teatro 1959-1984, Firenze, la casa USHER, 1989, foto 4.