1959-1969:

Il Teatro è un Laboratorio

 

di Vanessa Polselli

 

Nel 1959 Jerzy Grotowski venne chiamato da Ludwik Flaszen, rispettato critico teatrale e letterario, a dirigere in qualità di regista il Teatro delle Tredici File. Flaszen aveva ricevuto da parte delle autorità di Opole l'incarico di rilevare il piccolo teatro ma, considerando adatto a sé il ruolo di direttore letterario, non si ritenne invece idoneo a quello di regista per il quale si mise in contatto con Grotowski. Grotowski aveva ventisei anni, alle spalle studi regolari ed una attività registica svolta in un teatro tradizionale, lo Stary Teatr. Fu proprio presso questo teatro durante il lavoro con i suoi collaboratori, tutti ex professori dell'accademia, che notò come, nonostante essi si sforzassero durante le prove di assecondare le sue richieste volte alla ricerca di un'azione compiuta con tutto il corpo, al momento dello spettacolo le abitudini recitative riemergessero, avendo così il sopravvento sulle scoperte fatte nel corso delle prove1 . Fu allora chiaro a Grotowski che vi era bisogno di un teatro dove fosse possibile condurre una ricerca autonoma sull'arte dell'attore nelle sue relazioni con il testo, con lo spazio e con lo spettatore: proprio questa esigenza di uno spazio dove poter rifondare il teatro trovò pienamente in accordo i due artisti. A distanza di anni (1966) Flaszen ricorda questo incontro: "Ad un incrocio di Cracovia si incontrarono due persone: Jerzy Grotowski e Ludwik Flaszen. Il primo era giunto a conclusione di averne abbastanza dello Stary Teatr e del teatro vecchio. Nemmeno Flaszen ne poteva più del teatro vecchio - l'arte teatrale era, tra tutte le discipline artistiche, proprio il fanalino di coda"2 .

Nel 1959 il Teatro delle Tredici File, con residenza ad Opole, avviò la prima stagione teatrale. "Grotowski said that in order for the theatre to function efficiently, he would need a number of full-time positions for actors, a literary director, a free hand in choosing the repertoire and members of the company, a steady income, and an operating budget that would enable the group to work without constant surprises"3 . Le autorità acconsentirono a tutto. Facevano parte del gruppo Rena Mirecka, Zygmunt Molik e Antony Jaholkowski. A questi si aggiunsero nel 1960 l’architetto Jerzy Gurawski, nel 1961 Zbigniew Cynkutis e Ryszard Cieslak e nel 1964 Stanislaw Scierski. Fu questo il gruppo con cui e attraverso cui Grotowski portò avanti la sua ricerca autonoma. Nel 1962 il Teatro delle Tredici File cambiò nome e divenne Teatro Laboratorio delle Tredici File. Nel 1965 la compagnia si trasferì da Opole a Wroclaw e nel corso dei suoi anni di attività cambiò più volte nome, ma Teatro Laboratorio fu la costante presente in tutte le successive denominazioni: per ragioni di ordine burocratico, certamente, ma anche perché caratteristica principale era l'essere un luogo di ricerca.

Cosa si ricercava?

Un'azione reale.

Non che il piano fosse chiaro sin dall'inizio e definito nelle modalità di svolgimento: fu un cammino di continua sperimentazione.

 

Dal 1959 al 1962 Grotowski realizzò otto spettacoli: Orfeo da Cocteau (1959), Caino da Byron (1960), Faust da Goethe (1960), Mistero Buffo da Majakovskij (1960), Sakuntala da Kalidasa (1960), Gli Avi da Mickiewicz (1961), Kordian da Slowacki (1962),  Akropolis da Wyspianski, prima versione (1962).

I testi scelti erano caratterizzati dall'essere incentrati su argomenti o temi appartenenti, in un certo senso, alla storia dell'umanità: archetipi che avevano in sé la possibilità di suscitare una reazione in ciascun partecipante all'evento teatrale, "cercavamo sempre l'immagine archetipica - per usare questa terminologia - nel senso dell'immagine mitica delle cose, o piuttosto la formula mitica, come ad esempio l'olocausto, il sacrificio dell'individuo per la collettività-Kordian; o la via crucis di Cristo, il mito del Golgolta, che fu usato nella Grande Improvvisazione de Gli Avi di Mickievicz"4 .

L'uso libero del testo era il risultato della ricerca di un reale rapporto con esso. Venivano eliminate le parti storicamente determinate, quelle sezioni o quei riferimenti circoscritti all'epoca della scrittura e che ad essa, quindi, facevano direttamente riferimento e si lasciava che emergesse il nucleo assoluto dell'opera, come la carne nuda, nodo mitico e denso con cui operare il confronto personale ed individuale: "Eliminavamo dal testo quelle sue parti che non conservavano questa forza e, per selezione, punto dopo punto, cercavamo quanto non fosse più opera drammatica, ma come un cristallo di provocazione, qualcosa di elementare, un'esperienza dei nostri antenati, una voce che parli dall'abisso, a cui noi possiamo trovare la nostra risposta"5.

Su questa base comune, costituita dall'energia sprigionata dall'archetipo contenuto in un testo, ovvero da un Tema condivisibile quale comune terreno di fede, Grotowski riteneva possibile ricostituire l'antica unità del  rituale. Lo spettatore veniva inserito in uno spazio ed in una struttura drammaturgica in cui gli era richiesto di prendere parte attiva: veniva cioè sollecitata una risposta fisica e vocale e tale risposta, in un certo senso, era prevista nel testo scenico elaborato dal regista. Grazie a questa reazione sarebbe stato possibile, secondo una dialettica di "apoteosi e derisione", un riconoscimento, uno scontro-confronto ed in fine un andare oltre le radici che sono alla base di ogni condizionamento. Il desiderio di rigenerare il rituale nasceva dalle possibilità che in esso sono insite: il confronto con i propri miti (che sono ciò che influenza e dirige in modo inconsapevole la vita di ciascuno) significava esorcizzarli, viverli fino in fondo con serietà ed ironia per poi superarli e con essi superare anche ciò che Freud definisce la coercizione a ripetere6.

 

Poiché furono le cerimonie primitive a far nascere il teatro attraverso il rituale - al quale partecipano le due parti, gli attori, ossia i coreuti, e gli spettatori, ossia i veri partecipanti - pensai che fosse possibile ritrovare questo cerimoniale di partecipazione diretta, viva, una particolare forma di reciprocità (fenomeno piuttosto raro ai nostri tempi), una reazione immediata,aperta, liberata, autentica [...] Pensavo dunque che se l'attore attraverso la sua interpretazione avesse stimolato lo spettatore, lo avesse provocato alla collaborazione, al movimento, al canto, a repliche verbali, ecc., si sarebbe resa possibile la ricostruzione, la restituzione dell'originaria unità rituale.7

 

Dal punto di vista strettamente teatrale vi era un elaborato e ben attento piano di regia che disarticolava i tradizionali rapporti fra attori e spettatori, fra spettatori e spazio scenico, fra attori spettatori e testo. Lo spettacolo nasceva dal punto di vista pratico in modo tradizionale: Grotowski aveva un progetto e cominciava le prove sapendo esattamente cosa volesse ottenere e quindi quale sarebbe stato il risultato finale. Gli attori erano gli strumenti attraverso cui realizzare le proprie idee8, costituivano uno degli elementi per la composizione del rituale. Erano studiate in fase di prove le possibili reazioni degli partecipanti, così da poter strutturare preventivamente delle risposte di base da parte degli attori:

 

Abbiamo fatto molte esperienze di messa in ruolo attivo dello spettatore. Non è affatto difficile. È molto triste che non sia difficile. Gli esseri umani sono così pieni di paure e si imbarazzano a tal punto, che è sufficiente creare una certa circostanza di pressione, perché essi diventino ubbidienti [... ]. In un dramma di Mickievicz, Gli Avi, c'è un rito di rievocazione dei morti, e arrivano diversi morti. Allora abbiamo tirato fuori morti fra gli spettatori. C'era lo stregone, che era il capo del rito [...]. Da noi, nel nostro spettacolo, lo Stregone ha trovato una ragazza fra gli spettatori, le si è avvicinato ed ha cominciato ad osservarla. Allora, immediatamente la ragazza ha cominciato a sentirsi a disagio [...] ha cominciato a muoversi, ma nel testo di Mickievicz si dice a questo proposito - Perché sei imbarazzata? -. E poi si dice - Ma perché sorridi? - E inevitabilmente prima che venissero dette queste parole, la ragazza per imbarazzo, per difendersi, ha sorriso. In quel momento era il testo di Mickievicz a rispondere, e in quel momento lei si è persa completamente, e in quel momento con il testo di Mickievicz lo stregone ha detto - Si è persa -. Bisognava prenderla in braccio e portarla fuori e si è fatto questo.9

 

Proseguendo la ricerca in questa direzione, ossia verso la costituzione di un terreno comune su cui rendere possibile l'incontro, Grotowski, in occasione dell'allestimento di Sakuntala, facendo riferimento ai teatri orientali caratterizzati da una recitazione rituale dovuta ad un sistema di segni codificato dalla tradizione, perfetta-mente riconoscibili e condivisibili dagli spettatori, tenta di far percorrere al teatro occidentale la mede-sima strada, facendo elaborare agli attori una sorta di codice gestuale. Il risultato non andò verso la direzione sperata: l'azione dell'attore era costituita da ciò che Stanislavskij chiama “stampi gestuali”.

Il lavoro su questo spettacolo fu comunque proficuo per il gruppo. La necessità di elaborare un codice fisico pose gli attori dinanzi al bisogno di allenarsi fisicamente alla realizzazione del compito: venne così introdotto il training. Grotowski inoltre cominciò a pensare "quali fossero le possibilità del segno; forse non bisogna cercare i segni una volta per sempre per tutte le rappresentazioni, forse bisogna ricercare un determinato sistema che possa agire per ciascuna in particolare [...] d'altra parte per evitare il pericolo degli stereotipi, bisogna ricercare ciò in modo diverso, liberando i segni dal processo organico dell'organismo umano"10.

 

Con il tempo cominciarono ad insinuarsi due pericoli: la manipolazione dello spettatore e l'imitazione dell'immagine mitica da parte dell'attore. Il pericolo era la caduta nella ripetizione del proprio lavoro. La consapevolezza di tale momento di crisi pose nuovi e pressanti interrogativi sul ruolo dello spettatore, sulla funzione dell'attore e sul senso del teatro. "Un giorno (era più o meno il 1963) abbiamo detto di no a tutto questo. La partecipazione attiva degli spettatori non è possibile in queste condizioni. Che fare allora? [...] Rinunciare a qualsiasi nozione di partecipazione attiva degli spettatori e cercare qualcosa che è reale prima"11 . Grotowski, circa nello stesso periodo, si recò in Inghilterra per guidare in collaborazione con Cieslak un seminario di natura pratica rivolto agli attori della Royal Shakespeare Company di Brook. Qui vide un documentario sul Vietnam; una scena mostrava un monaco buddista che compiva un autodafè: al centro del cortile il monaco e ai lati, silenziosi, gli altri compagni. La cinepresa registra il grande silenzio, la variazione della respirazione di coloro che assistono ed il crepitio del fuoco. "Quando ho visto questo", ha detto Grotowski, "ho pensato: ecco, il danno peggiore con la partecipazione attiva della gente è che da parte nostra non si ha un vero atto; non c'è qualcosa di estremo, qualcosa che superi i limiti dell'umano, qualcosa che sia veramente come entrare nel fuoco, come la morte, come il sangue. E poi se cerchiamo la partecipazione attiva degli spettatori siamo condannati o a violarli, a opprimerli, oppure gli spettatori stessi sono ben contenti di recitare come clown [...]. In quel momento credo che tutti gli spettatori hanno partecipato direttamente [...]: quello che hanno voluto fare è essere testimoni, non dimenticare nessun particolare, per poter dare la loro testimonianza. Questa presenza è stata veramente totale [...]. Senza dubbio quegli spettatori hanno partecipato totalmente, ma non è esistita nessuna messa in scena della loro partecipazione diretta. Hanno partecipato in quanto l'atto davanti a loro è stato totale"12.

Il regista abbandonò perciò la manipolazione dello spettatore e con essa anche quella dell'attore, inserito fino ad allora all'interno del suo piano registico. Se la funzione dello spettatore è quella di testimoniare, da qualche parte o anche a se stesso, fu chiaro che, perché ci fosse una testimonianza, c'era bisogno di quel qualcosa che meritasse di essere osservato: l'atto totale dell'attore.

Ma cos'è l'atto totale? Non certo la morte dell'attore sulla scena, anche se in un certo senso si potrebbe parlare di morte come morte di tutti gli stereotipi, di tutte le difese, le finzioni o le maschere a cui il vivere quotidiano condanna. L'individuo che compie questo autodafè si rivolge alla propria vita, non si serve del testo o della propria sapienza tecnica per nascondersi ed evitare in tal modo di fare veramente qualcosa, si rivolge a ciò che è stato per lui importante, un evento avvenuto, atteso, sperato o temuto e quando giunge a questo luogo così nascosto dentro di sé è come se abbattesse una diga ed il fiume del suo segreto cominciasse a scorrere. Lo scorrere è impetuoso, ma l'attore non rischia alcuno straripamento perché è cosciente, guarda e allo stesso tempo vive il suo segreto, è consapevole di esso e da esso si lascia attraversare: il suo corpo rinuncia ad opporre qualsiasi resistenza ed allora è come se il suo corpo fosse il suo segreto. La sua confessione è letterale ed è quindi crudele e dolorosa, come qualsiasi atto di verità: "Questo atto deve essere come la rivelazione di sé - preferisco una definizione antiquata, ma qui esatta - deve essere un atto di confessione. È un atto che si può ottenere solo in riferimento alla propria vita, è un atto che spoglia, denuda, scopre, rivela, svela. L'attore non deve recitare, ma penetrare gli spazi della propria esperienza, come analizzandola con il corpo e con la voce. Deve ricercare gli impulsi che fluiscono dal profondo del proprio corpo"13.

 

Dal 1962 al 1969 Grotowski realizza cinque spettacoli: Akropolis da Wyspianski, seconda versione (1962; a questa seguirono altre tre versioni, 1964, 1965, 1967), La tragica storia del dottor Faust da Marlowe (1963), Lo studio su Amleto da Shakespeare/Wyspianski (1964), Il Principe costante da Calderon/Slowacki (tre versioni: aprile 1965, novembre 1965, 1968), Apocalypsis cum figuris, elaborazione collettiva con passi dalla Bibbia, Dostoevskij, Eliot, Weil (1968).

La ricerca di questo periodo ed il suo risultato espressivo sono conosciuti come teatro povero, formula che riassume il principio di un teatro fondato unicamente sull'attore o meglio sull'incontro fra l'attore che compie l'atto totale e lo spettatore che ne è testimone.

Attraverso quale processo si perviene allo spettacolo?

Il lavoro divenne più lungo e si articolò in diverse fasi. L'azione di Grotowski cambiò radicalmente. Portava alle prove un montaggio del testo da lui composto, dopodiché lasciava che gli attori cercassero il modo grazie a cui la parte potesse agire come un bisturi pronto ad aprire il loro luogo più intimo. In questa fase l'attore compie degli studi o schizzi, di fatto delle improvvisazioni, un viaggio verso e attraverso la memoria personale, verso ciò che appartiene segretamente all'essere: ricordi, desideri, paure, finzioni. L'attuante lascia che il proprio corpo reagisca agli stimoli offertigli dal tema-trampolino fino a quando non arrivi alla sorgente, cioè a scoprire l'ignoto, vale dire ciò di cui egli stesso non è consapevole. Importante in tale fase è il partner di lavoro su cui egli proietta le forme della propria vita (si è sempre in relazione a). "These sketches are the direct opposite of improvisation - which protect me from the act of truth, from the act which really abolishes the frontier between life and theatre - [...] I am obliged to be conscious not in words, but in acts and facts. I am obliged to be precise in my work. Now, what reveals the presence of a consciousness is tructure, clarity, the precise line of the work. The absence of precision in work, the lack of structure in a work, are so many sins against consciousness"14. Se da una parte si cerca l'organicità, ovvero l'impulso che si origina dalla parte più intima dell'attore, dall'altra questa corrente, questo segreto per usare la terminologia adoperata più su, necessita di una grande precisione: sono i due poli tra cui si muove l'azione reale. Grotowski spiega esattamente il processo attraverso cui si elaborano gli argini del fiume, dice infatti: "Se si desidera tracciare come una specie di pista bisogna possedere i morfemi di questa partitura (la pista, n.d.r.), così come le note sono i morfemi della partitura musicale". Il lettore presti ora una particolare attenzione a quanto segue, "non si tratta di gesti, né nulla di quanto si può vedere dal di fuori: in questo caso sarebbe sempre un fallimento". La partitura allora non è la serie di azioni che compie l'attore, "non le note vocali, i gesti esteriori costituiscono i morfemi della partitura attorica, ma qualcosa di diverso [...] Riteniamo che i morfemi siano impulsi che salgono dall'interno del corpo a incontrare l'esterno. Ho detto: interno del corpo [...] l'impulso comincia nell'interno del corpo e solo nell'ultima fase appare il gesto che ne è il punto finale; è una linea che corre dall'interno all'esterno". A questo punto diventa evidente quale parte giochi la precisione, ovvero la struttura: "Quando tale abbozzo è infine vivo, vi si ricercano i punti fondamentali, gli impulsi, che bisogna annotare, non a matita naturalmente, ma nel corpo. Quando sono stati annotati, l'attore può ripetere ciò più volte, eliminando quanto non è essenziale; così nasce il riflesso condizionato, basato sui punti annotati, e questo bozzetto costituisce ormai un piccolo frammento dell'opera". È proprio grazie a questa partitura di impulsi che all'attore è possibile rinnovare e non semplicemente ripetere l'atto totale, la confessione, infatti "possiede ormai quella linea, la partitura di vivi impulsi, fortemente radicata nel suo arrière-être; ha raggiunto il punto di partenza, l'inizio; su questo terreno ora, qui, oggi, deve compiere la confessione personale"15. Durante la fase di creazione da parte dell'attore, Grotowski attendeva e osservava, non bloccava o tagliava la sua azione prima che questi potesse giungere a qualcosa di vero. Solo alla fine, quando gli studi erano stati fissati, costruiva lo spettacolo montando le partiture, abilmente attento a non uccidere il processo legato a ciascuna di esse16. La storia ed il testo prendevano forma e vita come se fossero state inghiottite, assorbite dalla corrente di impulsi. Non c'erano una storia ed un testo eppure erano realmente presenti.

 

L'attore simbolo di questo lavoro è Ryszard Cieslak in Il Principe costante. Egli aveva elaborato una partitura di impulsi legata alla sua memoria personale, ad un evento della sua vita: la prima esperienza amorosa. Niente torture, né dolori, né agonia, come invece nel testo di Calderon. Eppure tutto questo c'era nello spettacolo e fu percepibile dai testimoni.

 

Dice un vecchio proverbio russo: se vai nell'aia, alzi lo sguardo al cielo e spicchi un salto verso le stelle, cascherai solo nel fango. Spesso ci si dimentica dei gradini. Ma i gradini devono essere costruiti. Questo, Grotowski non lo ha mai dimenticato. Ci si può perdere facilmente pensando al profondo aspetto metafisico del lavoro di Grotowski, e dimenticare la somma di sacrifici e sforzi pratici che sta dietro ai suoi risultati. Grotowski è stato prima di tutto un maestro nell'arte della regia.17

 

 

 

1 Cfr. Ugo Volli (a cura di), Grotowski: vent'anni di attività, in "Sipario", n. 404, 1980, p. 33.

2 La citazione è riportata in Jennifer Kumiega, Jerzy Grotowski. La ricerca nel teatro e dopo il teatro 1959-1984, Firenza, la casa USHER, 1989, p. 17.

3 Zbigniew Osinski, Grotowski and His Laboratory, New York, PAJ Publications, 1986, p. 36.

4 Jerzy Grotowski, Teatro e rituale, in "Il Dramma", III quadrimestre, 1969, p. 78.

5 Ivi, p. 81.

6 Cfr. più avanti l'articolo di Francesco Di Giovanni, Ecce Agnus Dei: alle origini del Principe costante.

7 Jerzy Grotowski, Teatro e rituale, cit., pp. 74-75.

8 Cfr. Jennifer Kumiega, Jerzy Grotowski..., cit., pp. 100-102.

9 Renata Molinari (a cura di), Jerzy Grotowski e il Teatr Laboratorium, in "Sipario", cit., pp.7-8.

10 Jerzy Grotowski, Teatro e rituale, cit., p. 81.

11 Ugo Volli (a cura di), Grotowski: vent'anni di attività, cit., p. 8.

12 Jerzy Grotowski, Il teatro è una tigre che ci assale, brani raccolti da Franco Quadri, in "Sipario", n. 284, 1969, p. 17.

13 Jerzy Grotowski, Teatro e rituale, cit., p. 82.

14 Marc Fumaroli (a cura di), External Order, Internal Intimacy: Interview with Grotowski, in Lisa Wolford-Richard Schechner (a cura di), The Grotowski Sourcebook, Londra, Routledge, 1998, p. 107.

15 Jerzy Grotowski, Teatro e rituale, cit., pp. 83-84.

16  Cfr. Jerzy Grotowski, Il regista come spettatore di professione, in “Teatro festival”, 3, 1986.

17 Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Milano, Ubulibri, 1993, p.19.

 

La foto (Sakuntala) è tratta da Jennifer Kumiega, Jerzy Grotowski. La ricerca nel teatro e dopo il teatro 1959-1984, Firenze, la casa USHER, 1989, foto 4.