Essere nell’origine
Da Jerzy Grotowski a Thomas Richards:
riflessioni sul decondizionamento della
percezione
di Roberto Rini
"Manifestaci la nostra fine."
"Avete scoperto il principio che vi
interessate della fine?"
(estratti da i Testi di Nag Hammadi)
All'età di nove anni il giovane Jerzy scopre in Secret
India di Paul Brunton la figura di Ramana Maharsi che adolescente si ritira
dalla vita sociale per esplorare in solitudine, senza la guida di un guru, le
profondità della coscienza, pervenendo così alla scoperta del vero Sé.
A diciotto anni Grotowski, chiedendosi come
portare avanti una ricerca sull'interiorità che inglobasse gli aspetti vitali e
sensuali con ciò che vi è di più alto e luminoso, senza apparire però troppo
bizzarro agli occhi della società, fa la richiesta di accesso a tre scuole:
psichiatria, studi orientali e studi di arte drammatica. La scuola teatrale fu
la prima a dare l'esito positivo dell'esame.
Il rigido controllo della censura in Polonia non
riguardava l'ambito delle prove, che divenne così per Grotowski il momento
d'indagine sul processo creativo dell'attore. La sperimentazione rivelava che
l'attore, quando riusciva a scoprire un flusso organico d'impulsi che
conduceva la sua azione senza che questa decadesse nel caos, si avvicinava ad un
momento alto d'esperienza, scopriva una pienezza ed una integrazione
delle sue funzioni che raramente si manifesta nel quotidiano. Il processo
creativo funzionava cioè come tecnica personale, nel senso delle
discipline di lavoro su se stessi. Da quel momento l'attore come essere umano, e
non solo come artista in grado di esprimere, fu sempre al centro della sua
attenzione.
Ma la scoperta profonda, cioè la verità
che si manifestava nell'organismo vivo dell'attore, porterà Grotowski ad
esplorare le possibilità dell'arte fino a quel punto-limite in cui l'uomo si
riconnette con la sacralità. L'uomo in azione (attore o performer) che
attraverso l'arte ha accesso e manifesta una percezione più profonda del reale,
e il suo incontro con l'altro (spettatore, partecipante o testimone)
inteso come comunione di vita al di là dei limiti del quotidiano, costituirono
la ricerca di tutta una vita. In questo senso per Grotowski l'arte fu sempre un veicolo
.
"La domanda chiave è: qual è il tuo
processo?"1
L'indagine sugl'impulsi ha costituito il
nucleo di tutta la ricerca di Grotowski e divenne un immergersi in profondità
nelle possibilità dell'uomo, nello svelamento del suo essere. L'attore scopre
che attraverso improvvisazioni, stimoli ed esercizi qualcosa in lui comincia a
reagire internamente prima ancora
che si manifesti all'esterno, come uno slancio presente nel corpo che è sempre
in relazione a qualcuno, si muove verso un contatto nello spazio, come se
si riattualizzassero nel presente i momenti di profonda relazione vissuti con
gli altri. Per questo Grotowski chiamava
questo agire con interezza anche corpo-memoria o corpo-bisogno,
perché ciò che si è fatto e ha lasciato una traccia profonda o ciò che si
sarebbe voluto fare intensamente, sono inscritti nel proprio corpo-vita,
appartengono alla propria natura.
Questa corrente d'impulsi viene chiamata organicità
ed è paragonabile alla corporeità del bambino, a qualcosa di prossimo alla
natura, alla componente animale dell'essere umano (ma Grotowski parlerà in modo
più radicale di questo aspetto legato al corpo arcaico, al reptile brain).
L'attore doveva scoprire come non perdere questo aspetto rimanendo estremamente
vigile e allora ogni azione compiuta avrebbe avuto la concretezza e la precisione
con cui nello spazio si muove un animale selvaggio. Il che non significa lo
scatenamento della follia: se si osserva una gazzella che corre, dice Grotowski,
si potrà notare che ogni suo movimento è evidente, di una precisione
estrema, ma anche molto bello a vedersi, non espressivo nel senso
dell'articolazione dei segni per comunicare, ma espressivo in sé. Le persone,
continua Grotowski, in stato di organicità diventano estremamente belle,
luminose come le figure nei quadri di El Greco.
Scrive Thomas Richards su questa scoperta
dell'organicità: "A quel tempo una parte di me provava sempre a fare le
veci di un'altra. Non c'era ordine interiore [...].Ogni meccanismo cercava di
fare il lavoro dell'altro, senza farlo bene. Tutta questa confusione interiore,
come un grosso nodo, interrompeva il flusso creativo. Mi fu chiaro allora che
probabilmente esisteva la possibilità di sviluppare un funzionamento corretto,
in cui ogni meccanismo aiutasse la totalità stando al proprio posto. Per
esempio, il corpo doveva cercare di ricordare il proprio processo, la mente
doveva solo dire di sì, per incoraggiare il corpo, oppure evocare qualche
ricordo o qualche immagine precisa che potesse aiutare il corpo nella sua
ricerca. Le emozioni, allora lasciate sole avrebbero potuto avere meno paura di
reagire a quello che il corpo e la mente facevano [...]. La corrente organica
del corpo cominciò a parlare abbastanza forte, così che la mente non poté più
bloccarla o essere tanto facilmente un ostacolo sulla sua strada"2
Quando questo processo si era pienamente
manifestato arrivando da solo alla sua forma, doveva essere strutturato
attraverso un'opera di montaggio delle varie azioni organiche, eliminando il
superfluo e creando una partitura d'impulsi estremamente precisa nei dettagli,
al fine di poterlo rivivere evitando che potesse spegnersi o straripare
invadendo la coscienza. L'attore poteva così gestire artisticamente una
possibilità di scoperta interiore.
Si badi bene: ad essere strutturati erano gli
impulsi, cioè il processo vivente, non c'era quindi una forma che esistesse di
per sé a fini espressivi, neanche
ai tempi del Teatro Laboratorio. Da un certo momento in poi gli attori non
cercarono segni espressivi in relazione allo spettatore: la strutturazione era
costituita da punti fissi di contatto nello spazio e con i partners, che
permettevano alla corrente di impulsi di fluire. La componente artificiale
(cioè compositiva) e quella organica erano gli aspetti di un unico
processo che si rafforzavano a vicenda.
Quell'armonia tra le proprie funzioni, di cui
parla Richards, può far ricordare
lo sviluppo armonico dei centri - motore, istintivo, emozionale ed intellettivo
- nell'insegnamento di Georges Ivanovitch Gurdjieff, a cui più volte è stato
paragonato il lavoro di Grotowski. Questi sosteneva però, a differenza
dell'esoterismo iniziatico di Gurdjieff, che qualsiasi lavoro concreto e preciso
potesse diventare la chiave d'accesso alla reintegrazione di sé e poneva
l'accento sulla dimensione artigianale del lavoro: nelle comunità sufi, ad
esempio, il processo interiore può coincidere con attività pragmatiche come la
tessitura dei tappeti o addirittura con attività di affari e commercio.
L'azione che si fa da sé, il processo vivo che conduce l'attore, svelato
attraverso un'opera di spoliazione (la via negativa), ha riscontro invece
nella tradizione taoista dove il termine wu-wei, non-azione, indica un
agire non egoico legato alle leggi del Tao. Si posso-no riscontrare concordanze
anche col karma yoga: il cuore della Baghavad Gita, ad esempio, è
l'azione neces-saria ed impec-cabile che non si può non compiere. L'azione
del-l'attore di Grotowski era oggettiva, reale, non illustrazione di qualcosa o
imitazione ma hic et nunc, azione nel presente. L'attore tuttavia,
per risvegliare questo processo, doveva essere poco indulgente verso se stesso,
doveva cioè abbandonare nell'agire pratico le certezze solidificate a cui
facilmente ci si aggrappa nella vita quotidiana, che danno l'illusione di
stabilità, ma lasciano tiepidi e parziali.
Certe espressioni di Grotowski, del tipo che
l'attore non recita per se stesso né per lo spettatore, che ad alcuni
sembrarono vaghe o mistiche, erano invece scoperte, per così dire, tecniche:
l'attore riscopriva una vitalità che trascendeva la sua personalità cosciente
e si riconnetteva ad una corrente di vita che lo sosteneva. Entrava in uno stato
dove si è attivi e passivi allo stesso tempo. Non era il suo io ordinario che
agiva, ma sorgenti più profonde. Questa azione compiuta in presenza di un
osservatore-testimone, proprio perché oggettiva, poteva agire sulle sorgenti di
vita del testimone che giacciono sopite al di sotto delle sue sovrastrutture
psichiche. Questo fenomeno Grotowski lo chiamerà induzione: se due fili
elettrici sono vicini ed in uno passa la corrente, anche nel secondo filo se ne
potranno avere tracce.
Se leggiamo le memorie degli spadaccini del
Giappone feudale, come Miyamoto Musashi, vediamo che la loro grande priorità
non riguardava soltanto l'abilità tecnica, ma il raggiungimento di uno stato di
calma da cui far scaturire l'azione: questa non era un'esigenza spirituale, ma
un bisogno pragmatico legato alla sopravvivenza. Nel momento in cui
raggiungevano il limite estremo del lavoro tecnico diventavano coscienti della
propria mortalità, si rendevano conto che la tecnica da sola non garantiva
nessuna certezza. La loro ossessione decadeva, l'io si rilassava, e in
questa scoperta pragmatica realizzavano momenti intensi in cui il tempo veniva
percepito in modo dilatato e rallentato, l'azione scorreva fluida e rispondeva
ad una intuizione non quotidiana. È possibile verificare quest'esperienza nei
momenti di pericolo in cui qualcosa di sopito si risveglia e risponde con una
precisione che l'io ordinario non conosce. Il Performer "è qualcuno che è
cosciente della sua propria mortalità"3
Quando si è immersi nei propri fantasmi,
associazioni e ricordi che fanno sì che raramente si è là dove si è, cioè
non si è presenti, allora la vita diventa meccanica, racchiusa nei
limiti di ciò che già si conosce, e le proprie forze ed energie rimangono
bloccate in canali prestabiliti, in una routine, che come un disco incantato si
ripete sempre e in fine conduce al logorìo. Entrare nel presente, dice
Grotowski, non è niente di misterioso in fondo, è soltanto estremamente
difficile: significa uscire dal tempo, rinunciare al continuo oscillare della
coscienza tra il passato e il futuro, e quando ciò avviene, la realtà è come
se si manifestasse per la prima volta, ci si trova dinanzi all'ignoto, ogni
attimo è un cambiamento continuo, un fluire inarrestabile. Mircea Eliade
chiamava questi momenti ierofanie, manifestazioni del sacro: la realtà
quotidiana, gli oggetti di ogni giorno, tutto riappare inedito, vivente, persino
luminoso. Grotowski doveva avere ben presente questo stato, in cui si abbassano
i filtri percettivi e si mettono da parte le categorie con cui si interpreta il
mondo. Non che negasse l'importanza dell'aspetto culturale, dell'educazione, del
linguaggio, di ciò che chiamava mind-structure, ma sapeva che tutto
questo andava a discapito di un altro polo che doveva essere riscoperto.
Il condizionamento della percezione inizia quando
si è molto piccoli, è quasi un fatto organico poiché nella vibrazione sonora
della voce, nella struttura del linguaggio, nella gestualità dei genitori è
codificata una relazione col mondo, un modo di percepire la realtà frutto di
stratificazioni secolari a cui il bambino si conforma. "Tu sei figlio di
qualcuno"4
Può esistere un uomo puro? O uomo luce?
Erano queste utopie? Il modo di scoprirlo passava per Grotowski attraverso la
pratica e l'azione.
Esistono diverse vie che portano alla presenza,
riconducibili, secondo quanto egli afferma, a due atteggiamenti: quello per cui
con un duro training s'imparano delle tecniche e si controllano coscientemente
le proprie funzioni, per poi mettere da parte tutto recuperando una percezione
vergine, ed è la via del samurai o dello yoga in senso classico (quello di Patañjali);
oppure quello per cui ci si apre sin dall'inizio a questo essere nel presente,
abbandonandosi alle forze e fluendo con loro, mantenendo però la vigilanza,
come nello yoga tantrico. La predilezione di Grotowski andava per la seconda
strada: porsi dinanzi alla sfida del presente senza essere armati. Così, se
l'attore orientale si arma attraverso le tecniche della tradizione per
poi scoprire la propria individuazione con il tempo, gli attori di Grotowski
cercavano di trovare le proprie armi sin dall'inizio. La prima strada era
un training, un accumulo di abilità; la seconda era un de-condizionarsi,
un un-training, lasciare agire la propria natura profonda così com'è, e
scoprire che l'impossibile "si può scomporre in piccoli pezzi e rendere
possibile. In questo secondo approccio il corpo diventa obbediente senza sapere
che deve obbedire"6. L'attore imparava a scoprire nel presente i
propri strumenti e ad affinarli o costruirli non esitando al cospetto di una
sfida. Questa è "l'arte del debuttante"7, o "l'essere nel principio", in cui si
vedono le cose per la prima volta, si è in ogni momento vigili, non si è
condizionati dal conosciuto. Nello zen giapponese esiste l'espressione shoshin
che significa mente di principiante, uno stato privo di pensieri, aperto
a tutte le possibilità. "Viviamo in un'epoca in cui la vita interiore è
dominata dalla mente discorsiva[...]. È quella macchina in te che riduce quel
misterioso oggetto che oscilla e ondeggia,semplicemente a ‘un albero’",
scrive Richards8.
Si può, senza degradare in stati patologici, avere una percezione pura della
realtà, in cui ogni cosa stia al suo posto e faccia il suo compito, mantenendo
saldo ciò che sta in basso legato alla terra e ciò che sta sopra la testa
legato alla Coscienza? In definitiva per Grotowski la ricerca sull'attore
conduceva alla sorgente dell'azione, del percepire, e quindi dell'essere.
L'esperienza del Parateatro e quella del Teatro
delle fonti avevano mostrato a Grotowski le possibilità e la complessità
del lavoro con gli altri e su se stessi, nonché le potenzialità di un
risveglio sul piano vitale; la sua ricerca comunque non si fermerà qui e
procederà in modo rigoroso e coerente. “Essere nel principio” significava
tout-court affrontare la ricerca del sacro, di ciò che è legato alla Coscienza
e che può ricondurre all'Origine. Grotowski ha viaggiato molto
confrontandosi, sempre su una base pragmatica, anche attraverso la lettura di
testi sapienziali antichi e moderni, con le tecniche personali e rituali di
diverse tradizioni, riservandosi però una totale autonomia conoscitiva. Ecco
perché dinanzi alle diverse topografie dell'interiorità mantenne un
atteggiamento aperto, traendone notevoli spunti di
ricerca9.
Qual è considerato il centro del percepire nelle
varie culture?
C'è una frase di Wittgenstein in cui si dice che
gli uomini siano convinti di avere una sorta di omino in testa che li
guidi. Nella nostra cultura esiste una grande confusione a questo proposito:
mente, spirito, anima, intelletto, coscienza, tutti termini molto vaghi. Per i
giapponesi il centro è hara, il ventre, sede dell'equilibrio fisico e
interiore; nella cultura indù c'è la nozione dell'energia dormiente alla
radice dell'osso sacro, kundalini, che sale attraverso i centri di
coscienza situati lungo il corpo, i chakra, per affiorare alla sommità
del cranio, ma c'è anche la nozione di un centro vasto nel cuore, hridayam;
i cinesi considerano un sistema energetico circolatorio, ma simile a quello indù;
per i dervisci del Medio Oriente il cuore vasto è il centro profondo
dell'individuo, e lo è anche tra gli indios Pueblo; in Etiopia esiste una
nozione di energia paragonabile a quella indù.
Grotowski rilevava che certe nozioni, e quindi
certe esperienze, si potevano trovare anche nella nostra cultura, sebbene
fosse stata operata una grande rimozione: tra gli esicasti, per esempio, è
riscontrabile questa nozione di cuore profondo, e il
termine greco nous, l'intelletto, era utilizzato non ad indicare la ragione
pensante, ma una facoltà spirituale; in Teosofia pratica, un libro del
1696 del mistico tedesco Gichtel (vicino agli allievi di Jacob Bohme), si
riscontra l'esistenza di centri d'energia simili ai chakra; lo stato di
vigilanza, in cui si è attivi e passivi allo stesso tempo, era esistito anche
nel Cristianesimo ortodosso in pratiche di cui adesso rimane solo la liturgia,
l'aspetto formale.
Per Grotowski la coscienza non è la mente
discorsiva, che ha il compito di ordinare i dati ed è condizionata
culturalmente, ma è un'attenzione allargata, non identificata con i contenuti
che in genere costituiscono l'io, uno spazio intuitivo aperto e quieto
all'interno del quale si osserva l'agitazione di pensieri, emozioni e ricordi,
che può dilatarsi ad inglobare il corpo e gli oggetti circostanti:
"[...] la coscienza (nel senso di the conscience) è qualcosa che
appartiene all'essenza [...]"10.
L' Io-Io, di cui parla Grotowski ne Il
Performer,
rappresenta la coesistenza della vita con questo testimone interiore. È
l'antica immagine del Rg Veda: "Due uccelli dalle splendide ali amici e
compagni, sono posati sullo stesso ramo: uno mangia il dolce frutto, l'altro sta
a guardare e non mangia affatto" (I. 164. 20). Questa esperienza è la base
di molte pratiche meditative sia orientali, come la vipassana buddista o il raja
yoga induista, che più vicine alla nostra cultura: secondo la Cabala ebraica
nello stato meditativo, detto kavvanah, si distingue tra l'io ordinario, yesod,
e il testimone imparziale, tif'ereth; il distacco dalle passioni, apàtheia,
è la base della preghiera negli scrittori ascetici cristiani, come Evagrio o S.
Basilio il Grande (IV sec.), per i quali la mente deve svuotarsi da tutti i
pensieri e riscoprire la sua santità originaria.
Questa coscienza pura che lascia passare i
contenuti è un'esperienza riscontrabile anche nelle ricerche della psicologia
umanistica. Nella psicosintesi di Assagioli si cerca la disidentificazione da
idee, immagini e ricordi per meglio padroneggiarli, e ciò comporta una
espansione della coscienza. Nelle ricerche di Maslow l'espressione "plateau
experience" indica uno stato di ricezione della realtà interna ed esterna
non condizionato o identificato con qualcosa. Scrive Ken Wilber: "Si può
cominciare a lasciare andare le proprie paure [...] e cominciare a vederle con
la stessa chiarezza e imparzialità con cui si potrebbero guardare le nuvole che
passano nel cielo o l'acqua che scorre in un ruscello [...]. L'identità
comincia a sfiorare quell'interiore che va oltre [...]. Il testimone si limita a
osservare il flusso degli eventi sia interni che esterni al corpo-mente in modo
creativamente distaccato dato che in realtà non è esclusivamente identificato
né con gli uni né con gli altri"11. L'attenzione allargata è inoltre
considerata la chiave d'accesso ai valori transpersonali, agli archetipi
junghiani, e alle intuizioni più alte e spirituali. Per accedere a
questa esperienza esistono tecniche molto semplici, dice Grotowski, come
l'osservazione del respiro senza manipolazione, ma vi si può giungere anche
attraverso il lavoro dell'attore convenzionale quando la partitura è ben
fissata. Ciò che però interessava a Grotowski era come agire in questo
stato di coscienza trasparente incanalando gli impulsi e muovendosi verso quella
che Richards chiamerà “azione interiore”12. La sua ricerca si spostò quindi verso lo
studio e l'individuazione di strumenti di precisione - da usare come lo
yantra della cultura indù o l'organon di quella greca -
che, presenti in rituali ancora viventi, potessero avere un impatto oggettivo su
chi li praticasse pur non appartenendo a quella specifica tradizione. Si
trattava di scoprire quali azioni, quali elementi performativi, canti o danze o
movimenti strutturati e ritmati potessero permettere una ascesa interiore: si
cerca di entrare nella “higher connection”, l'esperienza diretta del sacro
rimanendo però vigili e in azione. Furono evitati quei rituali come lo zhar
etiope, le cui condizioni di attuazione erano troppo complesse e legate alla mind-structure
locale, ma la marcia yanvalou del rito vodu e i canti sacri
dell'area caraibica e africana potevano essere approcciati tecnicamente,
attraverso una competenza artistica che permettesse di appropriarsene. Era uno
studio che aveva le sue radici nella profonda ricerca sull'arte performativa che
Grotowski aveva condotto per decenni. La sua conoscenza del processo organico e
del processo artificiale gli consentì di rilevare la compresenza di questi due
aspetti nei rituali che banalmente si pensano caratterizzati dallo scatenamento
selvaggio. Grotowski riscontrava che ad Haiti, per esempio, ogni mistero
o loa - la divinità che attua la possessione - ha dei compiti che sono
sempre gli stessi e dei caratteri fissi come quelli di un personaggio, per cui
ogni membro che vi partecipa sin da bambino ha, in un certo senso,
interiorizzato una partitura, una struttura individuale e collettiva. Notava
anche che il fenomeno della possessione e della trance, termini da lui
contestati, coincideva con l'apparire di una forte organicità caratterizzata da
quella coscienza trasparente per
cui le azioni del posseduto erano estremamente precise.
Da questa ricerca ne emerse la sperimentazione
pratica sull'arte come veicolo che continua tutt'oggi nel lavoro del
"Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards".
Ci sono delle premesse da fare: in primo luogo il
Workcenter non è un ashram (ingenuo sogno giovanile di Grotowski
all'inizio dell'avventura teatrale) e nemmeno un centro esoterico, ma un sobrio
centro di lavoro inaccessibile quanto lo può essere qualsiasi centro di ricerca
scientifica o accademica; in secondo luogo Action, l'ultima struttura
performativa composta, ha accolto come testimoni migliaia di
persone. La ricerca sull'arte come veicolo non è un fatto privato come
qualcuno ha potuto credere.
Per coloro che vi partecipano Action
costituisce la possibilità di scoperta di un processo che Grotowski definiva
itinerario verso la verticalità e Richards di trasformazione e ascesa
dell'energia (o energie), dal denso al sottile, e di discesa del
sottile nell'organismo di base. Il processo è basato su un lavoro attorno ai
canti antichi che permette di realizzare questa scala di Giacobbe,
secondo la definizione che ne diede Grotowski.
Richards descrive il processo: "[...] nella
percezione di qualcuno tutto può essere connesso, come un fiume che scorre
dalla vitalità su fino a questa sottilissima energia che uno può percepire
dietro la testa e più su, ancora più su, fino a toccare qualcosa che non ha più
a che fare solamente con il quadro fisico, ma che è come al di sopra del quadro
fisico. Come se una certa sorgente, quando viene toccata, si attivasse, e
qualcosa come una pioggia leggerissima scendesse e lavasse ogni cellula del
corpo. Questo viaggio da una qualità di energia, densa e vitale, su e su verso
una qualità molto sottile di energia, e poi questo sottile qualcosa che
ridiscende nella fisicità di base...È come se questi canti fossero stati fatti
o scoperti centinaia o migliaia di anni fa per svegliare un certo tipo di
energia (o di energie) nell'essere umano e per trattarla"13.
Si possono trovare concordanze con esperienze
mistiche, yogiche, sciamaniche e iniziatiche di tutti i tempi e di diverse
culture, aprendo ampie possibilità di riflessione purché
non se ne faccia un gioco
intellettuale esotico e fascinoso. Si ricorda che il modo in cui al Workcenter
si è lavorato sui canti è stato autonomo rispetto all'uso che ne viene fatto
nei luoghi d'origine: Action non nasce come un rito vodu, non c'è alcun
riferimento alla trance e alla possessione e la ricerca non è ancorata a
nessuna dottrina precostituita. Appare chiaro che "l'essenza [...] non ha
niente di sociologico. È ciò che non si è ricevuto dagli altri [...]"14.
In relazione ad Action, si è fatto il parallelo con le Danze Sacre
di Gurdjieff, anch'esse mostrate pubblicamente in più occasioni. Ma c'è una
differenza: sia che fossero antiche o create da Gurdjieff, gli allievi
imparavano le Danze in modo codificato. Le strutture performative
sviluppate al Workcenter invece sono il frutto del lavoro di Thomas Richards,
attraverso strumenti antichi, prima sotto la guida diretta di Grotowski e poi in
modo autonomo, guidando a sua volta il processo creativo degli altri performers
con la stretta collaborazione di Mario Biagini. Ciò è molto significativo: ci
troviamo dinanzi alla nascita di una tradizione all'interno della nostra
cultura e come Grotowski ripeteva spesso la tradizione non è qualcosa di
monolitico, ma qualcosa di vivente, citando un proverbio buddista secondo cui la
nuova generazione deve fare sempre dei passi in più rispetto alla precedente.
"L'essenza sta dietro la memoria?"15 Il processo legato ai canti sembra
costituire un percorso a ritroso della coscienza. Si può conoscere tramite gli
impulsi il corpo di un antenato e ancora più indietro quello del perfomer del
rituale primario, e con uno sfondamento si può arrivare all'origine.
È un percorso che coinvolge la corporeità arcaica, legata a ciò che la
neurobiologia definisce reptile brain, con il rimanere vigili e
trasparenti (to stand, ricordava Grotowski). Sembra un attraversamento
della memoria, da quella biografica a quella collettiva, e poi ancora oltre,
verso un azzeramento della memoria. Il rapporto con il passato vissuto come
passaggio verticale è presente in molti rituali tradizionali16. Nei rituali haitiani ad esempio le forze
vengono chiamate secondo un ordine legato ad un asse verticale simboleggiato
nella pratica da un palo chiamato poteau-mitan, che Grotowski paragonava
alla scala di Giacobbe, necessario alla comunicazione con gli antenati, con il
passato e con l'origine. Grotowski raccontava che l'unico posto dove non aveva
avuto problemi a spiegare il senso della ricerca del Teatro delle fonti era
Haiti, dove è radicato nel linguaggio comune il senso di Guineè,
l'origine sia in senso storico (la Guinea, cioè tutta l'Africa) che mitico e
trascendente. "Iniziarsi vuol dire tornare all' 'inizio'. Vuol dire passare
per un insieme di riti che riporteranno il fedele agli inizi del mondo, alle
origini dell'essere"17.
Anche nel candomblè di Bahìa gli
orixà evocati provengono da Itù Agè, la terra di vita, che
rappresenta sia l'Africa che l'origine del mondo.
La simbologia di un Asse del Mondo è ricorrente
in molte religioni estatiche. "È il cammino degli spiriti, o se si
preferisce, la scala che essi prendono in prestito per scendere nel peristilio
quando sono invocati"18
scrive Metreaux. In Tibet, nella religione prebuddista bon, gli sciamani parlano
di un'antica fune sacra che permetteva loro un legame con la sede celeste degli
dei.
Mircea Eliade ricorda: "Il simbolismo della
corda, come quello della scala, implica necessariamente l'idea di una
comunicazione fra Cielo e Terra. Facendo da mezzo una corda o una scala [...],
gli dei scendono sulla terra e gli umani salgono in cielo"19.
Alce Nero, lo sciamano dei Sioux, rispose nelle
sue visioni al richiamo degli antenati e scoprì che essi erano anche i Poteri
del Mondo, iniziò così un percorso di ascensioni estatiche finché salì sulla
"più alta di tutte le montagne" per guardare "l'intero cerchio
del mondo e in quel luogo vidi più di quel che posso raccontare e capii
più di quel che vedevo, perché vedevo in maniera sacra la forma di
tutte le cose [...]"20. Le possibilità di riflessione e
d'indagine che le ricerche di Grotowski e Richards ci aprono sono molteplici e
permettono un’integrazione
tra diversi campi del sapere.
Per chi possa pensare che queste esperienze siano
una sorta di allucinazione da regressione narcisistica, vorrei riportare le
parole di un intellettuale europeo, Karlfried von Dürckheim, che si riferiscono
alla sua esperienza personale nello zen giapponese: "Risalire all'origine
non è un semplice tornare indietro. Il 'movimento a ritroso' fa invece parte
del progredire verso uno stadio in cui l'uomo può compiere liberamente e
coscientemente ciò verso cui la sua natura, senza che egli lo sappia, lo
sospinge: realizzare la propria vita non partendo dagli schemi dell' Io ma in
modo conforme al proprio essere"21. In molte tradizioni è presente l'idea che
l'Origine per emanazione si degradi sempre più sino alla materia più densa, e
che compito dell'uomo sia recuperare il legame perduto, attraversando in
verticale una gerarchia di mondi. È un'immagine presente anche nel
Cristianesimo, la si riscontra ad esempio nella Gerarchia celeste di
Dionigi Areopagita.
Perché vi è questo continuo rifarsi al passato
nei rituali? E perché Grotowski sostiene che in tale trasmissione del sapere
l'apprendista deve trovare il modo personale di ricordarsi22 e molte tradizioni, compresa quella
iniziata da Gurdjieff, chiamano quest'illuminazione ricordo di sé? C'è
forse una rimozione in atto? Freud dice che chi non ricorda è destinato a
ripetere, cioè a non essere creativo. La memoria non è forse fondante
l'identità? Non è essa il nostro punto di riferimento, ciò che costituisce il
nostro orientamento oppure è determinismo che spinge alla meccanicità, a
muoversi in canali prestabiliti non permettendo alla parte creativa di agire nel
presente? Sin dove arriva la nostra memoria? La nostra memoria cosciente è
molto selettiva, ma Grotowski ci ricorda che il corpo è memoria, porta con sé
la memoria di milioni di anni di determinismi, eppure c'è qualcosa di
sepolto che si muove per essere creativo e non ripetitivo. È lo stesso problema
dell'Universo: è meccanicistico o è
organico? L'uomo sicuramente è condizionato socialmente e
geneticamente, tuttavia ha possibilità creative ed evolutive. In quello stato
di coscienza trasparente di cui parla Grotowski, i contenuti dell'inconscio,
inteso in senso vasto, cominciano a muoversi e manifestarsi; li si può lasciare
scorrere o li si può incanalare in azioni ritmiche rimanendo trasparenti,
conservando cioè la quiete. In quello stato, secondo la psicologia
transpersonale e il pensiero buddista, ci si può imbattere in forze
archetipiche, e se si rimane vigili questo passaggio può allora sfociare in una
vacuità, che i buddisti chiamano sunyata, considerata il preludio
all'esperienza luminosa.
Si può notare che nei riti tradizionali le forze
che si sentono arrivare chiedono soddisfazione e poi vanno via. Biagini ha
raccontato che il canto è come se arrivasse da fuori e invece di lasciarsi
spingere verso determinate direzioni, attraverso un certo modo di fare, lo si può
trattare per avviare il processo di ascesa dell'energia verso l'alta
connessione. Nelle pratiche meditative i pensieri o le immagini a cui siamo
generalmente legati sono visti passare via. Questo porta ad interrogarsi su
quali siano i confini dell'io, il limite fra il nostro territorio e il fuori,
e a chiedersi fin dove è possibile allargare lo spettro della coscienza.
Si può dire che l'arte, quando non è stata
ridotta a gioco intellettuale o a puro compiacimento estetico, sia stata sempre
il modo in cui l'uomo ha cercato di uscire dalla sua separazione dal mondo e
dalla divisione tra io e realtà. "Il fatto che questa unità non possa
raggiungersi se non nell'arte, in quanto l'arte è appunto la realtà che si
crea dall'incontro dell'uomo col mondo, dimostra l'assoluta necessità dell'arte
in qualsiasi contesto sociale antico o moderno, nostrano o esotico. Una civiltà
senz'arte sarebbe priva della coscienza della continuità tra oggetto e
soggetto, della fondamentale unità del reale", scrive Argan23.
È attraverso l'arte che Grotowski ha affrontato
la sua sfida col mondo, rimanendo fedele al proprio processo, cercando, come
oggi fanno Richards e Biagini assieme agli altri performers, di affrontare
l'entropia che attanaglia la creatività e limita l'espansione di sé. Un vero
atto creativo ha, per chi lo fa, un valore religioso nel senso
etimologico della parola, religio in latino è il corrispettivo del
sanscrito yoga, unione, superamento delle fratture. Grotowski dice:
"Awarness, vuol dire la coscienza che non è legata al linguaggio (alla
macchina per pensare), ma alla Presenza"24. Quando si è creativi si è più presenti che
ordinariamente, ma cosa ci impedisce di esserlo sempre? Si tratta forse di
attraversare quella vastità di forze che costituisce la memoria? In quelle
società dove esiste una tradizione orale attraverso poesie, canti e racconti si
mantiene vivo un legame con gli antenati, s'impedisce di dimenticare al fine di
propiziarsi forze ancestrali che altrimenti invaderebbero l'esistenza. Grotowski
denunciava una grande rimozione del passato nella nostra cultura, sosteneva
infatti che nell'antico Egitto c'era un fertile scambio culturale con le civiltà
orientali, ricordando che Platone studiò in Egitto. Forse riusciamo a capire
perché questi canti afrocaraibici sono utilizzati facendo riferimento ad una ipotetica
culla del Mediterraneo. Ricordare significa essere liberi dalla memoria, non
essere condizionati dal passato. Ha tutto ciò a che fare col processo
energetico che si attua in Action?
Krishnamurti riteneva che le cellule cerebrali
fossero sempre in movimento condizionate dall'avere scopi, ma se si rinuncia
agli scopi, qualcos'altro può emergere, qualcosa che non si sposta dal passato
al futuro, ma qualcosa che è. Richards dice che quell'energia scende a
lavare tutte le cellule, e anche Sri Aurobindo percepiva il suo yoga come una
pulizia a livello cellulare. Esiste allora un'energia incondizionata che agisce solo
se si è presenti, non travolti dalle forze del passato in continuo movimento
finalistico? Per l'attore il problema di essere nel presente è
fondamentale: quando ha una partitura fissa sa che dopo A deve venire B, ma
proprio perché ciò che viene dopo è conosciuto allora la sua attenzione,
generalmente in movimento, può rilassarsi, e si apre tutto il mondo dei
frammenti infinitesimali di spazio e tempo tra A e B.
Richards afferma inoltre che quando agisce in
sintonia con Biagini tutto lo spazio fra di loro sembra partecipare di questa
trasformazione dell'energia. In che campo ci troviamo: arte? Scienza?
Occultismo? È evidente che un
fenomeno vivente non appartiene mai
ad un solo ambito.
Si potrà accusare tutto ciò di misticismo. È
significativo però che, al Collège de France, Grotowski (il cui fratello è
fisico nucleare) si sentisse più compreso dai fisici quantistici che dagli
studiosi umanisti; ed è significativo che alcuni fisici delle particelle
elementari, dinanzi alla inadeguatezza delle categorie ordinarie e newtoniane per
spiegare i paradossi del mondo subatomico e astrofisico, siano ricorsi alla
concordanza con certe esperienze tradizionalmente considerate mistiche e
religiose: si leggano Il Tao della fisica di Fritjof Capra o i dialoghi
tra il fisico David Bohm e Krishnamurti.
Il presupposto conoscitivo nella nostra cultura
è basato sulla distanza tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto. Nella
scienza dei quanti esiste però un edge-point in cui il conosciuto varia col variare del conoscente, cioè
tra elementi apparentemente separati vi è una relazione dinamica reale. Il che
significa che senza percepirlo siamo costantemente immersi in un oceano di
energie di cui siamo parte integrante: la nostra ricezione della realtà è
dunque limitata. L'arte è uno dei modi per creare un varco nei blocchi
percettivi dell'uomo, un allargamento della ricezione, una possibilità di
sfuggire all'entropia ed entrare nella presenza. Picasso sosteneva che il
suo processo creativo era un trovare, e Mozart che la musica gli
arrivasse tutta in una volta. A coloro che escono dalla routine, per
affermare la propria presenza nell'atto creativo, si manifesta un allargamento
dell'attenzione che può risultare anche terrificante, un venire inondati da un
flusso di stimoli a cui non si è abituati, contro cui forse si deve lottare per
non esserne sopraffatti trovando la forma che lo possa contenere.
Assistere ad Action non Assistere ad Action
non ha nulla a che fare con l'incontro borghese. Ha più il valore
dell'invito e del dono. Si richiede a coloro che vi assistono di condividere un
frammento di spazio e di tempo in cui avviene per gli attuanti un'esperienza
legata all'ignoto. Essere testimone di un atto oggettivo significa partecipare
ad un livello più sottile: è possibile avere la percezione di far parte di un campo
di energie dove qualcosa che in genere è sopito si può risvegliare,
partecipando ad un moto più vasto del nostro piccolo io. L'antica
immagine della Danza di Shiva sembra essere confermata dalla scienza e
dall'esperienza di chi fa arte.
Jerzy Grotowski ha lasciato in eredità una
ricerca unica al mondo, per quanto se ne sappia, che rappresenta una sfida alla
percezione ordinaria della realtà e che attraversa l'arte per arrivare alla
comprensione del reale.
Essendo stato testimone di Action, ho
avuto la sensazione, come altri quella sera, che tutto lo spazio stesse bruciando,
me compreso, e le parole di Artaud sulla crudeltà verso se stessi non
fossero solo il frutto di strane visioni. E poi tutto è finito, ma degli strani
deja-vù ed una strana familiarità con la situazione ci hanno accompagnato per
tutta la serata, come se una parte di noi stesse ricordando, come se ci
si sentisse stranamente a casa. "Per quanto sembri inconcepibile
alla ragione comune, voi e tutti gli altri esseri coscienti in quanto tali,
siete tutt'uno. E dunque la vita che ognuno di voi vive non è solo una porzione
dell'esistenza totale, ma in un certo senso è il tutto": a scrivere queste
parole non è un mistico del passato, ma Erwin Schroedinger, tra i fondatori
della fisica moderna. Ci si può riferire a tutto ciò con le categorie della
spiritualità o della scienza a seconda delle proprie preferenze, o forse anche
dell'arte, ma ad un livello che tocca tout-court l'uomo. A chi possa pensare che
questi individui non facciano altro che chiudersi in una stanza a cantare - ma
in questo caso dovremmo comunque fare i conti con la loro indiscutibile competenza
nel mestiere - vorrei dare quest'ultima citazione di Giulio Carlo Argan riferita
a Van Gogh: "E' tragico riconoscere il nostro limite nel limite delle cose
e non potersene liberare. E' tragico, di fronte alla realtà, non poterla
contemplare, ma dover fare e fare con passione e con furia: lottare per impedire
che la sua esistenza sopraffaccia e distrugga la nostra"25.
Jerzy Grotowski ha portato avanti la sua ricerca
sull'uomo, che era il fine dichiarato sin dall'inizio, ancorandola alla
corporeità e carnalità di una pratica, quella teatrale, che si esprimesse per
azioni evidenti capaci di segnare in profondità i testimoni e tracciare
solchi nella memoria collettiva.
È stato un Maestro, nel senso tradizionale, ma
tutto il suo percorso impedisce di inserirlo in un'altra storia: quella
dei maestri spirituali, che proprio per la loro alterità sono facilmente
rimovibili dalla cultura ufficiale. Nessuno può studiare il teatro del
Novecento senza confrontarsi con la sua esperienza. Tutta la sua esperienza!
Perché era l'esplorazione profonda di un territorio a condurre alla fase
successiva, nonostante ai coevi sembrassero cambi di rotta. Dall'arte come
presentazione all'arte come veicolo, passando per i livelli intermedi, erano gli
anelli della stessa catena: le performing arts.
L'eredità di Grotowski non è un museo da
accudire, ma qualcosa di vivo che scorre come un fiume nel lavoro di ricerca e
pedagogia condotto oggi da Thomas Richards e Mario Biagini. Una ricerca che può
aprire possibilità di comprensione profonda sulle potenzialità dell'atto
creativo.
Per gli esempi di libertà conoscitiva che ha
lasciato, Grotowski è stato molto di più che il rinnovatore del teatro del
Novecento, il professore al prestigioso Collège de France, o il maestro della
gnosi:
He was a man. Take
him for all in all,
I shall not look
upon his like again.
(Amleto, atto I,
scena II)
1
Jerzy Grotowski, Il Performer, in
Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale,Pontedera, 1987, p. 19.
2
Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Milano,
Ubulibri, 1993, pp. 77-78.
3
Jerzy Grotowski, Il Performer, cit., p. 18.
4
Jerzy Grotowski, Tu sei figlio di qualcuno, in "Linea d'ombra",
n.17, 1986.
5
Erich
Fromm, Daistz Teitaro Suzuki, Richard De Martino, Psicoanalisi e buddhismo
zen, Roma, Astrolabio, 1968, p.105.
6
Jerzy Grotowski, Dalla compagnia teatrale all'arte come veicolo,
in Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, cit.,
p. 136.
7
Jerzy Grotowski, L'arte del debuttante, in "Scena", n.2, 1979.
8
Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, cit., p.
17.
9
Cfr. Jerzy Grotowski, Tecniche originarie dell'attore, a
cura di Luisa Tinti, Istituto di Storia del Teatro, Roma,Università "La
Sapienza", 1982, pp. 177-192.
10
Jerzy Grotowski, Il Performer, cit., p. 18.
11
Ken Wilber, Psychologia perennis, in John Welwood, L'incontro delle
vie, cit., p. 36.
12
Thomas Richards, Il punto-limite della performance, Pontedera, Fondazione
Pontedera Teatro, 2000, p.21.
13
Ibidem.
14 Jerzy
Grotowski, Il Performer, cit., p. 18.
15
Ivi, p. 21.
16
Per i rif. antropologici cfr. Erika Scandone, La transe, Roma, Xenia, 1997.
17
Sergio Capone, Il doppio divino, in Erika Scandone, La transe,
cit., p. 85.
18
Alfred Metreaux, Il voudu haitiano, Torino, Einaudi, 1971, p. 75.
19
Mircea Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche arcaiche dell'estasi, Roma,
Ed. Mediterranee, 1992, p. 457.
20
John C.Neihardt, Alce Nero parla, Milano, Adelphi, 1968, p.47.
21 Kalfried von Durckeim, Hara,
Roma, Ed. Mediterranee, 1982, p. 141.
22
Cfr. Jerzy Grotowski, Il Performer, cit., p. 17.
23 Giulio
Carlo Argan, L'arte moderna, Firenze, Sansoni, 1988, p. 218.
24
Jerzy Grotowski, Dalla compagnia teatrale all'arte come veicolo, cit., p. 132.
25
Giulio Carlo Argan, L’arte moderna, cit., p. 218.