Paolo Condò (Prefazione al libro "Un tiro mancino"di Nanni Boi): "Per chi aveva 12 anni quando il Cagliari vinse lo scudetto, e non vivendo sull'isola mancava di quella dimensione umana che può dare soltanto l'incrocio casuale con l'idolo in un bar, Gigi Riva era la personificazione di Tex Willer. Le avventure del ranger e quelle del campione appartenevano infatti alla stessa sfera, il mito filtrato da un mass media: un albo che papà ti comprava in edicola il primo, un'immagine televisiva in bianco e nero il secondo. Comprendere il senso di un lavoro collettivo è il segnale che sei diventato un adulto, mentre ciò che ti entusiasma da bambino - perché più semplice e diretto, perché è più facile immedesimarsi - è l'impresa dell'eroe solitario. Così Gigi Riva, che pure confusamente percepivo come un'entità più reale del cowboy dei fumetti, mi sembrava Tex al punto da notare una somiglianza anche fisica tra i due; e il gioco di squadra del Cagliari, ovviamente necessario per la conquista del titolo (cosa che all'epoca mi sfuggiva), era la traslazione dell'aiuto che il ranger riceveva dai suoi amici. Sempre decisivo quando lo chiamavi in causa, Albertosi era un ottimo Kit Carson; giovane, sveglio e legatissimo a Gigi, Bobo Gori pareva il figlio di Tex, Kit; e il talento distante e lunatico di Domenghini ne faceva un diverso esattamente come Tiger Jack, l'indiano che aggiungeva al gruppo di ranger la sua sensibilità altra. Non tutti i bambini sono uguali. Per quanto Riva fosse generalmente amato, grazie soprattutto ai suoi gol in nazionale, ricordo che nella mia lontana (dal grande calcio) Trieste il tifo in classe era equamente diviso fra le grandi storiche, e che le mie simpatie per il Cagliari (e il Bologna) venivano vissute dagli amici come un'estrosità misteriosa ma in qualche modo coerente: se quando si andava al cinema per un western ero l'unico a parteggiare per gli indiani, ci stava che la frequenza dei successi di Juve, Milan e Inter non mi commuovesse. Si vede che una convinzione forte che avrei maturato nel tempo, il rifiuto del concetto di vincente inteso come uno che vuole arrivare primo non importa come, era dentro di me già all'epoca. Non scherziamo: il come non solo importa, è fondamentale. Diversi anni dopo, quando la Gazzetta mi ha destinato a seguire la nazionale, ho conosciuto Gigi Riva. Di solito una delle peggiori sfortune che ti possano capitare nella vita è incontrare i tuoi miti d'infanzia, perché raramente l'uomo in carne e ossa riesce a non offendere l'immagine senza difetti che da bambino ti eri creato di lui. Riva, invece, si dimostrò (e continua a dimostrarsi) perfettamente identico alla sua icona; talmente identico da farmi venire la tremarella alle gambe al momento di stringergli la mano. Malgrado l'età della ragione mi avesse raggiunto da un pezzo, non avrei trovato nulla di strano se, dopo avermi salutato, fosse montato sul cavallo Dinamite e, andandosene, avesse scaricato in aria le sue colt. Generalmente i giornalisti sono brutta gente, refrattaria alle emozioni avendone viste tante e un po' cinica nel contatto con i grandi personaggi, quelli che fanno delirare le masse e, dunque, a noi eletti non devono fare un baffo. La regola è sempre stata valida anche per me tranne che in un caso, l'incontro con Gigi. Avrei mantenuto immacolata la mia fedina emotiva se lui si fosse rivelato un uomo banale, o modesto, o anche normale; bastò invece parlarci assieme qualche minuto - di cosa, onestamente, non ricordo - per capire da quali profondità arrivassero le ispirazioni, calcistiche e umane, che tanto avevano affascinato quel bambino di Trieste. Oggi come allora Riva è solitario per scelta, pulito per intima necessità, leale per carattere. E' un eroe inconsapevole di questi tempi drogati di apparenza, malinconico come tutte le persone intelligenti e crepuscolare per l'impossibilità di lasciare eredi. Non è neanche lontanamente pensabile che un fuoriclasse di oggi rinunci a un ingaggio triplicato pur di rimanere nella squadra, o meglio nella terra, alla quale si è legato; verrebbe preso per pazzo, o magari per un Che Guevara anti-sistema da abbattere per la salvezza del business. Questo bel libro di Nanni Boi, una specie di romanzo storico che ti tiene avvinto anche se fin dalla prima pagina ne conosci la conclusione, contiene un elemento classico delle tragedie greche: il coro. In realtà qui di tragico non c'è nulla, anzi, da Giulio Andreotti a Graziano Mesina le molte voci che prendono la parola hanno tutte una loro originale allegria da comunicare, perché il vento delle imprese del vecchio Cagliari faceva sbattere le finestre del Parlamento esattamente come quelle delle prigioni. E' quando l'ultima nota del coro si spegne, che assapori il retrogusto amaro di questo romanzo: ovvero l'eccezionalità di un'avventura sportiva che, come tale, dovrebbe essere più frequente. E invece se un tempo era rarissima, oggi è del tutto impossibile. Lo stesso immutato magnetismo della figura di Riva, la sostanziale sparizione dei suoi compagni di allora dal calcio post-moderno, la dolorosa scomparsa di un maestro di vita come Scopigno, sono elementi mitologici proprio in quanto ultimi: dopo di loro, in Sardegna e nel resto d'Italia, la fantasia non ha mai più raggiunto il potere. E forse non è casuale che sia successo nel 1970, in un'epoca in cui cambiare il mondo sembrava possibile, e persino i Lo Bello parevano strizzare l'occhio alla rivoluzione. Quello scudetto è rimasto un pezzo unico, il virtuosismo finale e beffardo di un pallone che presto sarebbe stato costretto a rimbalzare secondo le leggi del denaro e dell'audience. Se a distanza di trent'anni siamo ancora così legati a quel Cagliari e a Gigi Riva, è perché ci ricordano i tempi nei quali sapevamo ancora sognare. Tutti. Protetti da Tex Willer, di cosa potevamo aver paura?"