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Così, per vie tangenti, talvolta
insospettabili, il vento di un’arte rinnovata soffia anche su
Rossano e genera improvvisi guizzi nei ritratti ad olio dei conoscenti
che Luigi dipinge per vivere (ha cinque figli da mantenere), così
come nei gerani rossi di certe nature morte, in alcune scene di genere,
nell’incarnato delle Madonnine (la Chiesa, si sa, è un
buon committente, ma l’artista ci crede, conosce i Testi Sacri,
la sua fede ha basi salde anche nei quadri). Cos’è che
fa, quasi da subito, di Gigi Bizzotto da Rossano un piccolo maestro?
L’interrogativo non generi equivoci: non si tratta qui di un maestro
minore, piuttosto di un autore indipendente, con una visione propria,
capace di osservare la realtà senza vestirsi di panni altrui,
ma con idee precise, una posizione netta. Quanto inconsapevolmente,
poi, è terreno aperto di discussione.
Per capire, è necessario tornare un po’ indietro,
agli anni in cui Bizzotto, classe 1903, frequenta i corsi di Ettore
Tito all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Il bambino che già
a tre anni feva li cavallini con la forbice, come raccontano i familiari,
è divenuto un allievo volonteroso e sensibile, che saprà
prendere dal grande maestro ciò che più gli serve: il
taglio degli scorci, la scioltezza della pennellata, i tipici effetti
luminosi. Gli anni Venti, tuttavia, rappresentano un periodo complesso
anche per l’arte italiana: un nuovo ordine s’impone dopo
la stagione esaltante delle scoperte ed i ripensamenti della Grande
Guerra. A Venezia, sono ormai trascorsi i fuochi di Ca’ Pesaro,
con la loro purissima fiamma di avanguardia tra Ugo Valeri (fratello
del poeta Diego, precocemente scomparso) ed Umberto Boccioni. Bizzotto
è distante dagli esordi di De Luigi, non fa a tempo a conoscere
il vago disfacimento tonale dell’insegnamento di Guidi (che subentrerà
a Tito nel ’27). Piuttosto, lo immaginiamo intento a carpire il
segreto, la misura tiepolesca del maestro quando Ettore sostituisce
il soffitto della chiesa degli Scalzi o esegue il plafond del salone
da ballo a palazzo Volpi, sul Canal Grande. Del suo insegnamento severo,
antimodernista, Gigi Bizzotto salva il rigore, il mestiere (che poi,
nobile ed umile al tempo stesso, farà proprio per tutta la vita).
Lo sguardo va a Ciardi, a Milesi, ma per istinto – forse già
da subito – con l’istinto potente delle cose vere, l’artista
di Rossano compie un passo in più. Ce ne accorgeremo poi, in
certi ritratti più tardi (anni Quaranta e Cinquanta) che non
condividono la marezzatura, il lume nebbioso che va tanto di moda in
Laguna nel secondo dopoguerra. Balza agli occhi nei disegni dei familiari
e degli amici, con quel tratto rapido e sicuro, come incisorio, che
spiega la realtà più che suggerirla. La differenza, che
è poi la forza di questo piccolo grande maestro, mi pare stia
tutta nella sua costante volontà costruttrice, si tratti di pala
d’altare o di scena quotidiana.
Costruire in profumo di Cézanne, ma senza intenti
programmatici: l’accostamento viene naturale, ma si compie anch’esso
per vie singolari (e tipicamente venete), come chi abbia di fronte un
colore esaltato dalla lucentezza della materia stessa. Nelle pieghe
dell’abito della signora Pec, l’inglese – giunta in
quest’angolo della pianura tra Castelfranco e Bassano -, sono
le linee a restituire la luce e lo spazio, così come i rapporti
tonali: nella forma, gli impulsi cromatici sono analizzati e temperati,
trasposti come il cuore nel battito del polso. L’artista giunge
a cristallizzare il colore e, per leggerissime variazioni di spessore,
suggerisce la plasticità dell’opera. Gigi da Rossano costruisce
per blocchi materici, ma senza meccanicismi (per questo è un
outsider in epoca di Valori Plastici); a differenza di altri –
penso al veronese Albano Vitturi, che pure gli assomiglia per misura
– non rifiuta la soggettività. Le sue Madonne hanno tutto
il calore delle contadine di casa, sono Madonne di fatica quotidiana:
raccontano una storia di fede e lavoro, come i devoti che rendono grazie
ai piedi della pala, con gli abiti della domenica e le tute della fabbrica.
Quella di Bizzotto – dipinga un pollaio, i ciclisti in volata
o il volto di Cristo – è sempre una fede incarnata nel
dipingere, è (come per Manzù) un pregare con le mani.
Forse per questo le sue opere sono percorse da una sorta d’incantata
freschezza, da una calma sovrana espressa senza sforzo. La capacità
artigiana, che lo sosterrà per tutta la vita, è palese
anche nelle splendide vetrate – quasi tutte realizzate con le
Vetrerie Marconi di Bassano – che Gigi, ad esempio, compie per
il Tempio Ossario bassanese, per la chiesa dell’Ospedale Vecchio
o per quella dei Frati (l’elenco, come per tutte le prove di arte
sacra di Bizzotto, è lungo ed abbraccia un orizzonte vasto, non
solo locale); ciò che conta, tuttavia, è evidenziarne
ancora una volta la brillante tecnica costruttiva, che qui plasma con
il colore e racchiude nella linea, come un tesoro nel forziere.
Ecco perché Luigi Bizzotto da Rossano, pittore
d’affreschi e di pale d’altare, di ritratti corposi e di
nature morte, prolifico commentatore della vita della sua terra, si
merita molto più di un fuggevole ricordo nel centenario della
nascita. Ci auguriamo che questa mostra, voluta con forza dalla sua
famiglia e dall’Amministrazione Comunale di Rossano Veneto, rappresenti
solo l’inizio di un ponderato – e completo – lavoro
di riscoperta.
Francesca Brandes |