Gil Botulino (The German Observer)

News di Domenica 14 Luglio 2002

GERHARD ROHLFS, QUESTO SCONOSCIUTO

Oggi c'è stata la cerimonia di intitolazione della piazza-parco-giardino a Rohlfs di cui spero di informarvi un altro giorno. Per dare un contributo alla giornata, ed essendo convinto che un autore si conosce soprattutto attraverso le sue opere, vi riporto un paio di pezzi del suo lavoro giusto per sapere qualcosa di più su Rohlfs.

Un pezzo rappresenta molto bene la tesi di Rohlfs sulle origini del dialetto della nostra zona, sostenuta più ampiamante in molte altre sue opere. E fa anche un riferimento a Badolato.

L'altro - il discorso in occasione del premio di forte dei marmi - è significativo del pensiero di Rohlfs sui dialetti di tutta italia.

Inoltre un breve ricordo di uno che Rohlfs l'ha conosciuto. Anche alla conferenza di oggi c'era gente che ha conosciuto Rohlfs e che ha portato la propria testimonianza spero di recuperare i testi degli interventi un giorno o l'altro.

 

ANTICA LATINITÀ E NEOLATINO IN CALABRIA (di Gerhard Rohlfs)

(un piccolo estratto da "Calabria Sconosciuta" RC 1981, n. 14-15, pp.9-12)

Era a Pavia l'anno 1368 quando a Francesco Petrarca si presentò un giovane filologo, assunto da qualche anno dal Petrarca in funzione di segretario e scrivano, pregandolo di accordargli un lungo congedo, avendo intenzione di recarsi a Costantinopoli per studiare praticamente la lingua greca. Dallo stesso Petrarca sappiamo che egli fece tutto il suo possibile per distogliere il giovine dal suo fantastico progetto, consigliandogli invece di recarsi nella più vicina Calabria, dove egli più agevolmente troverebbe ogni occasione per imparare e studiare a fondo la lingua greca. A tale consiglio il giovane non fu sordo e ancora nello stesso anno partì  per il Mezzogiorno d'Italia.

Da questo particolare ci risulta che nel XIV secolo nell'Italia settentrionale si sapeva che in Calbria il greco era ancora lingua viva e lingua comune. Che fosse proprio così ci viene confermato da una notizia che si legge già verso la fine del secolo XII in una versione francese del romanzo troiano, dove l'ignoto autore, con accenno alla Magna Grecia fa la seguente osservazione: "Et par toute Calabre li païsan ne parlent se grizois non", vuol dire che per tutta la Calabria il volgo /"i contadini") non parlano altro che greco. Bisogna sapere che che in questi secoli con Calabria  non si intendeva ancora tutta la Calabria di oggi, ma piuttosto e principalmente la parte meridionale che per secoli era rimasta sotto la dominazione bizantina.

Troviamo una perfetta conferma di tale situazione nella lingua degli atti notarili (testamenti, atti di vendita e di donazione) di quei secoli, redatti nella Calabria meridionale unicamente in lingua greca. Ne do alcuni asempi. Tali atti per Gerace, Grotteria, Nicòtera appartengono ancora alla prima metà del XII secolo. Arrivano alla seconda metà del XII secolo per Badolato, Briatico, Squillace e Reggio. E ancora agli albori del secolo XIV gli atti notarili di Catanzaro si fanno ion lingua greca. Qui certamente non si può trattare di una lingua ufficiale, prescritta dall'amministrazione bizantina. Nel XII e XIII secolo la Calabria si trova sotto i Normanni e sotto gli Svevi. Eppure in quei secoli la grecità non sembra aver perduto nulla della sua autorità nella parte meridionale della Calabria. Sembra essere lingua di una maggioranza del popolo, lingua almeno del volgo, lingua viva e lingua comune. Dobbiamo dunque ammettere per quei secoli una Calabria greca e una Calabria latinizzata (romanizzata).

Per i secoli passati e più remoti dobbimao dunque contare con una Calabria latinizzata già in tempi antichi e una Calabria di lingua grecanica, la quale dopo alcuni secoli bilingui passò all'italiano in fase neolatina. Il contrasto tra la Calbria di Cosenza e la Calbria meridionale in realtà è enorme, non solo nella mentalità, ma soprattutto nel linguaggio comune, cioè nell'opposizione dei dialetti, come tutti i settentrionali si rendono conto, quando hanno occasione di visitare le due Calabrie. Ma se ne rendono conto anche gli stessi cosentini che si trasferiscono i quell'altra Calabria, piena di reminiscenze e sopravvivenze della Magna Grecia.

Venendo dalla provincia di Cosenza, appena passato la zona di Nicastro e Tiriolo, i cosentini s'imbattono in uno stranissimo idiotismo che riguarda il modo come si esprime una azione passata. Sparisce di colpo il passato prossimo, essendo sostituito dal passato remoto, anche trattandosi del più recente passato: oggi comu mangisti?, comu dormistivu, ora arrivàu u ferribottu, sta matina chiuvìu 'ha piovuto', capiscisti 'hai capito' in perfetto accordo con il grecanico dell'Aspromonte: sìmero ri éfaje 'oggi cosa mangiasti?', come dunque nel neogreco della Grecia, dove ugualmente per qualsiasei tempo passato non si conosce altro che l'antico aoristo.

Ancora più strano e più bizzarro in questa Calabria meridionale è la sostituzione dell'infinito che si effettua per mezzo di una congiunzione in una frase personale, specialmente dopo i verbi che esprimono volontà o intenzione: 'voglio sapere' si trasforma in vogghiu mu sacciu, o vogghiu mi sacciu o vogghiu ma sacciu (a Catanzaro). Per 'andiamo a vedere' non si sente altro che jamu mu vidimu, jamu mi vidimu, jamu ma vidimu. Ma rimane intatto l'uso dell'infinito dopo il verbo 'potere'. Si direbbe dunque vugghiu mu (mi, ma) dormu, ma nu pozzu durmire, tutto ciò nuovamente in piena concordanza con il dialetto grecanico dell'Aspromonte, dove si direbbe thélo na pào = vogghiu mu vaju ma e' ssonno pài 'non ci posso andare'. Vuol dire che la sostituzione e la perdita dell'infinito che nel neogreco della Grecia è un fenomeno assoluto, in Calabria si è fermata a mezza strada.

Vi presento ancora un altro problema che ha la stessa importanza. Mentre in italiano, come nelle altre lingue neolatine (francese, spagnolo, catalano, portoghese), per introdurre una proposizione subordinata si usa una sola e unica congiunzione (che, que), nella calabria meridionale si fa una rigida distinzione tra i verbi che esprimono un pensiero e i verbi che esprimono una volontà eo intenzione, distinzione che si fa con due congiunzioni che non si confondono, per es. in zona di Vibo Valentia (a Briatico) "penso che pioverà'; pensu ca chiovi, ma 'vorrei che piovesse': vorrìa mu chiovi. E la stessa distinzione viene rigidamente osservata nel dialetto grecanico dell'Aspromonte, in pieno accordo con il neogreco, in continuazione del greco antico, dove in tali casi si faceva la distinzione tra le congiunzioni oti e ina.

Bastano questi tre esempi per comprendere che si tratta di tipici calchi linguistici che nella Calabria meridionale si sono perpetuati attraverso un secolare periodo di popolazione bilingue, conservandosi certi denomeni linguistici che risultano da una anteriore grecità.

 

DISCORSO DEL VINCITORE DEL PREMIO FORTE DEI MARMI 1964 PROF. GERHARD ROHLFS

Forte dei Marmi, ottobre 1964

rohlfs_legge.jpg (6035 byte)Fra le nazioni europee l’Italia gode il privilegio di essere, certamente, il paese più frazionato nei suoi dialetti*.
Questo fenomeno ha senza dubbio delle origini etniche e storiche, ma non sarà indipendente da certe proprietà e qualità del popolo italiano. Questo frazionamento mi sembra l’espressione linguistica di un individualismo nazionale e di un alto sentimento per l’importanza culturale della piccola patria. L’intero significato di tale situazione si rileva subito, quando confrontiamo l’Italia con quel paese europeo che nei suoi immensi territori ci presenta proprio il caso contrario, cioè un minimo di divergenze dialettali: la Russia.
Questa ricchezza dell’Italia dialettale fu già per Dante Alighieri cagione e motivo di esaminare e giudicare i vari dialetti sul loro valore poetico e artistico, in cerca di un volgare illustre, il quale per il sommo poeta doveva essere piuttosto un ideale che una realtà.
E questa ricchezza dialettale esiste ancor oggi come fenomeno sociale e come fenomeno linguistico.
Ogni viaggiatore che, cominciando col Piemonte, traversando poi la Liguria, la Toscana, il Lazio e le province napoletane, si reca in Sicilia, si può rendere conto di questa situazione.
Non posso entrare qui in dettagli: mi contento di far risaltare alcuni importanti confini linguistici o piuttosto confini dialettali; perché in questi confini si rispecchiano certe antiche barriere storiche e etniche (1).

Appena passato l’Appennino tra Bologna e Firenze, spariscono di colpo i cosiddetti fenomeni galloromanzi: la lüna e piöve vengono sostituiti con luna e piove. Il fögu e la röa dei Genovesi si trasformano in fuoco e ruota. Sparisce la nasalizzazione dei settentrionali: karhûn, savûn, visîn. Invece delle consonanti scempie appaiono le antiche geminate latine: terra invece di tera, gatta invece di gata, bella invece di bela. Spariscono anche, almeno in gran parte, quei riflessi sonori che ricordano le lingue romanze occidentali: l’amiga diventa amica, la cadena diventa catena, savüdo o savudo diventa saputo. Il bagio dei Genovesi si trasforma in bacio; la camisa dei Lombardi diventa camicia.

Entrato poi in Toscana il viaggiatore s’imbatte in uno stranissimo fenomeno: la cosiddetta ‘gorgia’ toscana: la hòha hanta una hanzone, nelle hase si spegne ogni fòho; ma anche il dito diventa ditho, il sapone si trasforma in saphone. Illustri glottologi italiani e stranieri tendono a vedere in questa aspirazione l’effetto fonetico di un sostrato etrusco. Ciò che rende problematica tale interpretazione è il fatto che le più antiche manifestazioni del fenomeno non vanno oltre il sedicesimo secolo. Anche le circostanze nelle quali si presentano le aspirate in etrusco sono tutte diverse (2).

Non abbiamo qui il tempo di occuparci del posto linguistico di Roma per la formazione della lingua nazionale. Si sa che la lingua della Roma di oggi non corrisponde più a quel dialetto romanesco del Cinquecento, cioè dialetto di tipo prevalentemente meridionale, ma oggi non è altro che (come si suol dire) lingua toscana in bocca romana. Non è nemmeno più il caso di accettare l’opinione di Giulio Bertoni, formulata nell’apogeo del fascismo e espressa nella fiera affermazione: ‘Mentre la pronunzia di Firenze ha per sé il passato, quella di Roma ha per sé l’avvenire’.

Un altro importante confine dialettale è quello che divide l’Italia Centrale dai dialetti del Mezzogiorno. Questo confine, il quale non è un confine assoluto, segue, press’a poco, una linea che si può tirare da Ancona, passando per Rieti, ai monti Albani sotto Roma (3). Sorpassata questa linea, entriamo in una zona di una più antica romanità. Qui, di fronte all’italiano di tipo toscano si sono conservati vecchi latinismi: frate invece di fratello, soru invece di sorella, agno (aino, auno) invece di agnello, fago invece di faggio (arbor fageus). Qui si trovano gli ultimi residui della quarta declinazione latina: la manu col plurale le manu, la ficu - le ficu. Qui solo sopravvive il neutro latino nella classe dei sostantivi, che esprimono una sostanza (materia inanimata), riconoscibile nella forma speciale dell’articolo illud, il quale produce la gemmazione della consonante iniziale: lo llatte, lo mmèle, lo ssale, lo bbino (4). Qui l’aggettivo possessivo si aggiunge in forma enclitica al sostantivo, come in rumeno: fràtemo, sòruta, màmmata, mugghièrema. Qui la donna è chiamata fèmmina. Qui ritroviamo in piena vita antichissimi avverbi come cras (crai) e nudiustertius (nustierzu). Solo in questa zona si è mantenuta una arcaica forma del condizionale: avèra ‘io avrei’, cantèra ‘io canterei’, putèramu ‘noi potremmo’, forme che corrispondono al latino potùeram, pronunziato nel lat. volg. potuèra(m), forme che noi ritroviamo in spagnolo: pudiera, vendiera.

Voglio accennare ancora ad un’altra particolarità dei dialetti meridionali, la quale colpisce chi è abituato alle forme di espressione della lingua nazionale ovvero del francese e dello spagnolo. E’ la totale assenza dell’avverbio che si forma con la desinenza -mente. Cito per la Calabria i seguenti esempi: sugnu veru malatu ‘sono veramente malato’, parlavamu segretu cioè ‘in modo segreto’, la figghiola era bella vestuta, la fimmina era brutta vestuta. Ma in queste terre meridionali non esistono neanche avverbi bene e male. Si dice p.e. facisti bònu ‘hai fatto bene’, un sacciu lèggiri bònu ‘non so leggere bene’, staju boniciellu ‘sto benino’, cántanu biellu ‘cantano bene’. Il saluto ‘benvenuto’ diventa bomminutu, ossia bono venuto. Invece di male si usa l’aggettivo malo, p.e. fui malu cunsigghiatu, tu canti malu. Il fenomeno merita un certo interesse, perché appartiene a quel gruppo di concordanze linguistiche che esistono tra i dialetti del Mezzogiorno d’Italia e la lingua rumena. Anche il rumeno non conosce per niente la formazione dell’avverbio con la desinenza -mente. Cito i seguenti esempi: am mîncat splendid ‘ho mangiato splendidamente’ am suferit teribil ‘ho sofferto terribilmente’, soruta cânta frumos ‘tua sorella canta bene’ (‘formoso’). Sembra che qui ci troviamo di fronte ad una fase della latinità anteriore allo sviluppo della forma avverbiale la quale vale per le altre lingue neo-latine.

E continuando il nostro viaggio attraverso l’antico regno delle Due Sicilie, passata la provincia di Cosenza, all’altezza del golfo di Sant’Eufemia, ci troviamo di fronte a una nuova sorpresa.
Da qui in giù la romanità dei dialetti si presenta più moderna e quasi ringiovanita. Sparisce l’antico condizionale: cantèra diventa cantaría, potèra si trasforma in putiría (putarría). Vuol dire che il condizionale prende quella forma neo-latina che fu usata nella lingua aulica dei poeti trecentisti: vorría, saría, credería (5). Sparisce cras e nudistertius: crai diventa dumani, nustierzu diventa avantèri. E mentre ci avviciniamo al Faro di Messina, sparisce anche marìtuma, fìgghiama e sòruta, e non si sente che mè maritu, mè figghia e tò sòru. E con tali forme si presentano in questa Calabria meridionale (generalmente d’accordo con la Sicilia) molti altri vocaboli e forme dialettali che sembrano allacciarsi piuttosto alla comune lingua nazionale o addirittura alle condizioni dell’Italia settentrionale.
Per determinare questa strana posizione linguistica, cioè l’intimo contatto della Calabria meridionale (e della Sicilia) col linguaggio dei settentrionali, scelgo un interessante esempio nel campo delle relazioni sociali e familiari.
Nei dialetti meridionali del continente, a nord del golfo di S. Eufemia, cioè a nord di Catanzaro, l’idea di sposarsi, seguendo la antica tradizione latina, viene rispettivamente espressa con due verbi distinti, cioè ‘ammogliarsi’ e ‘maritarsi’ secondo che si tratti di uomo o di donna, cioè me nsúru = latino me inuxoro (‘mi reco nella dipendenza della moglie’) detto dell’uomo, e mé maritu detto della donna, distinzione osservata anche in Lucania, Campania e nelle Puglie e fino in Toscana. Viceversa nella Calabria meridionale, come anche in Sicilia, questa distinzione non è per niente conosciuta: l’òmu si marita, la fimmina si marita. La perdita di questa antica distinzione ci porta ai paesi settentrionali, tanto in Francia, dove je me marie si dice indistintamente dell’uomo e della donna, quanto nell’alta Italia, dove la formula me marido (nelle Venezie) si usa ugualmente per l’uomo e per la donna; similmente in Piemonte e in Liguria: gen. maiáse ‘sposarsi’ (si dice tanto dell’uomo quanto della donna).

D’altra parte in questa Calabria meridionale si presentano curiosissimi fenomeni. - E’ quasi sconosciuto l’uso del passato prossimo, il quale viene sostituito dal passato remoto, anche in riferimento all’ultimo passato: invece di dire: hai dormito bene? si domanda: dormisti bònu? Invece di dire come avete mangiato? si domanda: come mangiástivu?; capiscístivu?, ki ddicístivu? - Dopo certi verbi è escluso e non ammesso l’infinito. Non si dice ‘voglio mangiare’, ma si dice vògghiu mu (mi) mángiu, cioè ‘voglio che mangio’; ‘sono passato senza vederti’ diventa passai senza mu (mi,) ti viju; ‘andiamo a mangiare’ diventa jamu mu (mi) mangiamu.  - Per chi conosce il greco moderno, questi due fenomeni si rivelano come manifesti riflessi di una lunga bilinguità greco-latina.

E arriviamo in Sicilia. E qui nuove sorprese ci aspettano.
Invece di trovare in questa più antica colonia latina un baluardo di un’antica latinità con fisionomia individuale al pari della Sardegna, notiamo dei dialetti che sembrano appartenere ad una più recente romanità, come stidda, viteddu, bedda matri, pronunzia che la Sicilia ha in comune con la Sardegna e con molti altri dialetti del Mezzogiorno. E la stessa impressione riporterà uno studioso il quale, lontano dalla Sicilia, in una biblioteca di Parigi o di Londra, per scopi folkloristici, consulti le raccolte di fiabe e di canti popolari delle varie province d’Italia. Confrontati col piemontese, col genovese, col lombardo, col napoletano, col barese e col calabrese della provincia di Cosenza, i testi siciliani si presentano allo studioso straniero molto più lisci, più accessibili e quasi senza difficoltà. E questa è veramente una situazione paradossale: il siciliano che è il dialetto più meridionale dell’Italia, si mostra essere il dialetto meno meridionale del Mezzogiorno.
Le ragioni di questa situazione sono complesse, ma sono oggi essenzialmente conosciute. La posizione linguistica della Sicilia rassomiglia in molti aspetti alla posizione dell’Andalusia in Ispagna, terra per il 90% nuovamente romanizzata dopo la riconquista cristiana. Anche in Sicilia la liberazione dalla dominazione dei Saraceni e la loro scacciata ha portato ai noti fenomeni della riconquista: fenomeni sociali, fenomeni di ripopolazione, fenomeni linguistici.
E questa situazione non è limitata alla Sicilia, ma comprende anche, come già è stato detto, la Calabria meridionale fino al golfo di Sant’Eufemia, dove non hanno dominato i Saraceni, ma dove fino al dodicesimo secolo si è mantenuto il greco come lingua del popolo (6). Quello che distingue la Calabria meridionale dalla situazione linguistica in Sicilia, è unicamente una altissima percentuale di grecismi, di fronte ai moltissimi arabismi della Sicilia (7). Per il resto si può dire che la Calabria meridionale, linguisticamente (almeno in molti aspetti), non è altro che un avamposto della Sicilia, un balcone della Sicilia.

Il tempo non ci permette di entrare in particolarità. Basta ricordare, per la Sicilia, i numerosissimi gallicismi come avantèri ‘l’altroieri’, accattare ‘comprare’, giugnettu ‘luglio’, racina ‘uva’, vuccèri ‘macellaio’, custureri ‘sarto’. A questi elementi settentrionali si aggiungono gli influssi che per via di massima immigrazione sono emanati dall’Italia padana. - Ecco perché troviamo in Sicilia testa invece di capu, agúgghia invece di acu, òrbu nel senso di ‘cieco’, tròja invece di ‘scrofa’, tuma nel senso di ‘formaggio’ - tutti termini tipici dei dialetti dell’Italia padana (8). Da queste e altre correnti è nata in Sicilia una specie di koiné, una romanità più giovane, una romanità avanzata, ma anche meno indigena. Questa riforma linguistica che sta in diretta connessione colla conquista dei Normanni e col regno di Federico II, ha avuto per effetto di collegare la Sicilia più intimamente colla madre-patria Italia e colla lingua nazionale, in sorprendente e stranissimo contrasto colla Sardegna, rimasta in una posizione arcaica e linguisticamente isolata, nel complesso assai più vicina all’antica latinità.

* L’Italia dialettale fu intitolato un articolo in cui G. I. Ascoli nell’VIII volume dell’Archivio glottologico italiano (1882, pp. 98-128) tracciò la prima classificazione scientifica dei dialetti italiani, messi a confronto col tipo toscano, articolo che due anni prima era già apparso in versione inglese nell’Encyclopaedia Britannica (IX edizione), New York vol. XIII, p. 491-498. - Italia dialettale fu anche il titolo di un interessante Manuale Hoepli (1916) in cui Giulio Bertoni si propose di fissare i principali caratteri dei dialetti italiani. Fu fondata più tardi (1924) da Clemente Merlo la rivista L’Italia Dialettale che fino ad oggi (attualmente diretta da Tristano Bolelli) rappresenta il maggiore centro scientifico per i lavori che riguardano la dialettologia italiana.
Il discorso è stato pubblicato nella Rivista "Nuovi Argomenti", 1967, pp. 22-27.

(1) Cerco di dare in alcune rapidissime linee una veduta generale della situazione dialettale in Italia. In questo ‘panorama’, visto lo speciale interesse dell’autore, sarà data una maggiore importanza a certi fenomeni del Mezzogiorno, anche perché essi sono meno conosciuti.

(2) Si veda ora la presentazione del problema nella mia Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti (Torino ed. Einaudi, vol. I, 1966, §196).

(3) Questa linea, in una parte importante del suo tracciato, corrisponde approssimativamente al confine storico che separava il ducato di Spoleto dalla Pentapolis e dal Patrimonium Petri.

(4) Si confrontino d’altra parte nelle stesse zone dialettali i seguenti esempi coll’articolo maschile illu ( =illum): lo cane, lo patre, lo frate, lo lupo. - In altre zone si usa lo come articolo per il neutro, lu come articolo per il maschile: lo latte, lu cane.

(5) Fa eccezione l’estrema parte della provincia di Reggio (zone dell’Aspromonte) dove la grecità si è mantenuta più a lungo e dove ancora oggi (intorno alla cittadina di Bova) il greco continua a sopravvivere in alcuni villaggi. In questa estrema Calabria il condizionale si esprime (come una volta in greco antico) per mezzo dell’imperfetto indicativo p. e, partiva ‘ io partirei’, lu facìa ‘lo farei’, si putiva iva ‘se potessi andrei’, si avìa fami lu mangiava ‘se avessi fame lo mangerei’.

(6) Per la continuità (residui e influssi) della lingua greca nel Mezzogiorno d’Italia, v. G. ROHLFS, Scavi linguistici nella Magna Grecia (Roma 1933) e l’edizione anteriore Griechen und Romanen in Unteritalien (Ginevra 1924).

(7) Si veda G. ROHLFS, Lexicon Graecanicum Ltaliae Inferioris, Etymologisches Wörterbuch der unteritalienischen Gräzität (Tübingen 1964).

(8) Va qui ricordata anche la tipica opposizione che riguarda l’uso dei verbi ‘avere’ e ‘tenere’. Mentre invece del verbo ‘avere’ (per esprimere un possesso, una qualità o uno stato di cose) da Roma e dalle Marche in giù, d’accordo con la Sardegna (tengo duos frades) e con lo spagnolo (tengo dos hermanos) si usa il verbo tenere, p. e. (prov. Cosenza) illu tène dui frati, quant’anni tieni?, nella Calabria meridionale e per tutta la Sicilia non si conosce altro che il verbo avere della lingua nazionale e dei settentrionali: aju la frèvi ‘ho la febbre’, iddu avi dui frati, quant’anni ai?

 

IN RICORDO DI GERHARD ROHLFS (di Domenico Caruso)

Sono trascorsi più di quattordici anni dal giorno in cui a Tubinga, in Germania, concludeva la sua laboriosa esistenza l'illustre studioso che, più di ogni altro, amò la nostra Terra: Gerhard Rohlfs. Era il 12 settembre 1986 ed in tutto il mondo si parlò della scomparsa del grande "maestro di grecanico", che dal 1921 non tralasciò d'interessarsi del nostro glorioso passato. Lo conferma la dedica apposta dallo stesso nel "Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria" - (Longo Editore - Ravenna), che qui riportiamo:

A VOI
FIERI CALABRESI
CHE ACCOGLIESTE OSPITALI ME STRANIERO
NELLE RICERCHE E INDAGINI
INFATICABILMENTE COOPERANDO
ALLA RACCOLTA DI QUESTI MATERIALI
DEDICO QUESTO LIBRO
CHE CHIUDE NELLE PAGINE
IL TESORO DI VITA
DEL VOSTRO NOBILE LINGUAGGIO.

Tutti gli anni, ad eccezione della parentesi bellica, Rohlfs raggiungeva i nostri paesi per approfondire la conoscenza delle nostre tradizioni. Fu così che l'8 aprile 1979, presso la Biblioteca Comunale di Polistena, avvenne il nostro primo incontro. D'allora gli amichevoli rapporti epistolari col celebre glottologo, che aveva già incluso il nostro nome nel suo "Dizionario", non vennero mai meno e tante volte c'interpellò nei riguardi dei suoi studi sul dialetto della nostra zona. In seguito per ogni opera pubblicata ci ha fatto dono di pregevoli bozze di stampa.

Per meglio comprendere lo scrittore sono indispensabili alcuni cenni biografici. Nato il 14 luglio 1892 a Berlino, giorno della festa nazionale francese, Rohlfs interpretò questa data come una predestinazione fatidica "per una futura carriera romanistica". Dal genitore, che possedeva uno dei più vasti vivai di Berlino, Gerhard apprese la vocazione per le piante prima che per le lingue straniere, avvenuta verso i 17 anni. Il corso di studi medi a Coburgo fino a detta età non era stato esemplare. L'improvviso e rapido mutamento fu una vera fortuna per i popoli di lingua neolatina: ormai "primus omnium", compiva splendidamente la sua formazione universitaria. Dal 1914 ebbero inizio i grandi viaggi di studio e furono cinquanta le giornate che il ricercatore allora consumò nel visitare 170 paesi fra Svizzera e Puglia: "Viaggiando per tre quarti a piedi, con lo zaino sulle spalle, frequentando le strade battute dall'umile gente, soffermandosi e familiarizzando nelle osterie e nelle trattorie di piccoli paesi interni, dormendo in piccoli alberghi, sempre interessato alle parlate locali di tutta l'Italia visitata". Nascevano le sue prime scoperte e si formavano i suoi primi convincimenti. Come lo stesso Gerhard ha annotato: "Conversando con i contadini, fui sorpreso dall'incredibile varietà dei dialetti italiani".

Nei suoi viaggi in Calabria, avvenuti a distanza di tempo, Rohlfs ha individuato come motivo essenziale "la necessità che la Regione venisse redenta attraverso la riconquistata dignità di popolo a seguito della riscoperta dei valori culturali regionali da parte dei suoi abitanti. E lui, Gerhard Rohlfs, era felice di sentirsi il corifeo di una tale rinascita". Sono in molti, specialmente fra gli anziani, a ricordare i giorni in cui il professore tedesco a dorso di mulo raggiungeva i centri sperduti calabresi - come Roghudi e Bova - per non fare disperdere le antiche usanze e la parlata di quella gente.

Rohlfs difese sempre il prestigio della nostra Regione. Nel 1921, ad esempio, dopo essere giunto nei pressi di Cosenza, avendo potuto constatare il contrasto tra la pessima fama e la reale situazione del vivere civile dei calabresi, così ha scritto in un articolo apparso in Germania: "Calabria! Quali foschi e raccapriccianti ricordi non si destano in Germania al pronunziare del nome di questo estremo ed inaccessibile nido del brigantaggio! Quale ripugnanza ed orrore non persistono tuttavia, anche a Milano e a Roma, per questa terra famosa, dolorante e malnata; così miseramente ed ingiustamente dallo Stato negletta… In questa Terra infiltrata della cultura di parecchi secoli, e in cui tante nazioni si avvicendarono l'una dopo l'altra, ogni fiume, ogni pietra, ogni paesello annidato su di una rupe rappresenta qualche cosa piena di memorie storiche; e da tutta la superficie sua spira come un soffio di antico e venerabile tempo". La generosità di Rohlfs non ha mai avuto limiti; prima di morire - infatti - aveva così pregato il dott. Salvatore Gemelli di Anoia Sup. (dalle cui memorie abbiamo tratto alcune testimonianze): "Mi saluti l'Italia. Mi saluti gli amici della Calabria. Addio!". E l'affezionato dottore, scomparso a Locri qualche anno dopo il professore, ha voluto ricordare l'amico con un'opera organica e carica di umanità.

BIBLIOGRAFIA: S. Gemelli - GERHARD ROHLFS - Una vita per l'Italia dei dialetti - Gangemi Editore.

 

DA NON PERDERE, BADOLATO OMAGGIO A ROHLFS

Badolato oggi rende omaggio ad un grande glottologo e dialettologo tedesco, Gerhard Rohlfs. Oggi pomeriggio alle 18.30 ci sarà la cerimonia ufficiale di intitolazione di una piazza all'illustre amico della Calabria. (Il Domani, 14.7.2002)