Gil Botulino

The German Observer
dal 2001

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Badolato, Pasqua 2003

di Francesca Viscone

Badolato. Sono le 13.30 di sabato 19 Aprile. Arrivo in ritardo. La processione è appena partita, così non mi resta che osservarne l’inizio da lontano. A qualche km di distanza, di fronte al vecchio paese incartapecorito sui suoi vicoli, ho la visuale aperta a 180 gradi. L’occhio si muove così da sud est, dove si trova la Chiesa dell’Immacolata da cui escono i figuranti, verso il lato opposto, a nord ovest. Ma quando quasi per caso si ferma, all’improvviso il precipizio irrompe e si staglia all’orizzonte tra gradoni e larghi filàri di curve inanellate una sotto l’altra. Dal cielo e dai tetti è un unico vorticoso precipitare verso il basso. Accarezzando la rientranza concava della parete rocciosa, fino al ponte di Granèle.

Inizia la Pasqua dei miracoli. E a volerli raccontare tutti, sono proprio tanti. A cominciare dal sole sferzante. Per finire con la Resurrezione. Di Gesù, domani. Ma anche di un paese che sembra davvero percosso e flagellato come un Cristo. Portoni di legno mangiato dal vento e dalla pioggia. Case vuote. Imposte serrate. Tetti sfondati. Vicoli vuoti e muti lungo i quali risuonano oggi canti processionali, tamburi lontani, voci isolate o passi di bambini che sfrecciano lungo le pendìne. Una bellezza e un fascino indiscutibili e arcani. Nonostante tutto.

Quando arrivo all’inizio del paese, dopo un’affannata corsa a piedi tra scorciatoie ripide tra i campi e discese a rompicollo, la croce processionale del XIX secolo è già al Girone, circondata dai cantori. Indossano la mantellina celeste della Confraternita dell’Immacolata e i loro canti narrativi, forse del secolo XVIII, già da alcuni anni vengono puntualmente registrati da studiosi francesi di musica popolare.

Avanti, al giròne più basso, si trovano uno dietro l’altro i due ladroni, legati ad un ceppo di legno massiccio e controllati a vista da due soldati romani; quindi il Cristo sotto la croce penitenziale. Lunghi capelli neri scendono sulle spalle e sul petto, impedendo di riconoscere il volto dei tre penitenti. Cristo indossa una tunica viola, è circondato dai Giudei, vestiti di giallo e scalzi. Infieriscono con urla selvagge, correndo avanti e indietro verso il condannato e facendo scorrere tra le dita funicelle bianche, legate alla sua vita, simbolo del martirio.

Davanti ai nostri occhi si svolge una rappresentazione scenica tra il realistico e l’allucinatorio, dove il succedersi cronologico del tempo non esiste, ma i ricordi vengono conservati e mescolati nella stessa dimensione di contemporaneità. Solo la diversa collocazione dei personaggi nello spazio sostituisce la distanza temporale tra un evento e l’altro: avanti il Cristo vivo, da perseguitare e crocifiggere. Dietro il Cristo morto, disteso su un giaciglio e coperto da un velo bianco. Agli angoli del letto di morte bamboline vestite di viola con le ali dorate, i lunghi capelli neri disordinati sul viso, gli occhi sgranati e increduli fissi sul defunto. Tra l’uno e l’altro i cantori, che sembrano svolgere il ruolo del coro delle tragedie greche: la coscienza collettiva che, pagando il prezzo più alto per l’errore del singolo, ha diritto di parola e quindi commenta, giudica e allo stesso tempo trasmette memoria e senso del destino.

Petta degli Angeli 19/4/2003 ore 16 - foto: F. VisconeL’Addolorata vestita di nero. L’abito ricamato in oro. Lungo i fianchi sono appuntate le banconote. Il profano incede e contamina il sacro. I disciplinari. Ragazzini incappucciati vestiti di bianco, solo due fori agli occhi per vedere. Una corona di spine sul capo. Un cuscino sottile legato dietro le spalle, su cui si compie l’atto della penitenza, battendovi le fruste di metallo tintinnante. Le Addoloratine. Giovinette vestite di nero e con il capo coperto. Incedono lente e silenziose, le mani giunte in segno di preghiera. Un sospiro di impazienza, ogni tanto, e lo sgurado rivolto al Convento degli AngeIi, sulla collina dirimpetto al paese, dove avverrà la prima sosta per rifocillarsi. Gli alabardieri con l’alabarda e lo scudo. Il petto ricoperto dalla lorica in lamine di zinco. Sulle spalle un mantello rosso. Hanno un elmetto di latta, merletti, pizzi, ricami, una sottana ricamata, da cui spuntano i calzoni corti a balza, la mano rivestita da guanti.

Al tintinnìo ossessivo delle fruste, ai canti narrativi che alternano toni alti e bassi, si affiancano i tamburi e il rullante. Ritmi saraceni insieme ai canti sacri, miti magnogreci e liturgia cattolica, l’atmosfera è quella della contaminazione tra culture ed epoche diverse miracolosamente dilatate e sopravvissute fino ad oggi.

Il percorso è lunghissimo e alterna ripide salite a discese scoscese. Sono le 16.00 quando il corteo raggiunge il Convento di Santa Maria degli Angeli. Pochi, pochissimi, riescono a seguirlo dall’inizio alla fine. La maggior parte del pubblico si ferma ai piedi della Petta degli Angeli, la ripida scalinata in pietra che le nostre nonne usavano percorrere in ginocchio. I profumi della primavera però stordiscono ancora e le grasse foglie di fichidindia ancora invadono il campo visivo frapponendosi tra il convento e il paese, lontano ma non molto, sveglio e attento a quest’oggi, sprezzante e aristocratico verso i suoi stessi figli, rèi di averlo colto in fallo e abbandonato.

l'Addolarata e la Varetta nelal Chiesa del Convento degli AngeliUn tempo, giunti al convento, venivano svuotate le damigiane di vino e i canestri con le cuzzupe. Si beveva l’acqua di Pascasìa e i ragazzi portavano la ciambella di pane con un numero dispari di uova. Nella chiesa che di anno in anno appare sempre più spoglia e cadente, c’è poca gente. La folla è rimasta giù in strada, accanto alle macchine lucenti. Non c’è più fiato, nemmeno per una salitina con vista sul mare. Qualcuno intona una preghiera, altri rispondono. I figuranti scompaiono dietro l’altare e tornano bevendo dalle loro lattine e stringendo panini ripieni. Niente vino, o almeno non si vede. Niente ciambelle, né cuzzupe. E la fontana di Pascasìa scorre ancora, ma resta a scorrere da sola. Quando ci offrono una bevanda gassata o una bibita al caffè da un’Ape ricoperta con tanto di telo, non stiamo lì a farci domande. Fa caldo e la strada è ancora lunga.

La processione ridiscende e si ferma a metà del ponte Granèle. L’Addolorata viene consegnata da una confraternita all’altra. Un tempo era questo lo scenario privilegiato di risse famose: la Statua doveva essere consegnata esattamente al centro del ponte, non un metro prima, non un metro dopo. Oggi nessuno si formalizza più per queste cose. Il cammino verso il paese è ancora lungo. Si va di chiesa in chiesa, ad onorare ogni singolo altare addobbato con i germogli di grano. E via, ma chi ce la fa, verso Santa Caterina, una cella basiliana costruita intorno all’anno Mille. E ancora avanti, ma temiamo di non arrivare mai, verso quella famosa del Convento dei Domenicani, fondato nel 1558. Non fu qui che Kurdi e Badolatesi festeggiarono il Natale del 1998? Altra storia. il Cristo riposa inginocchiato sotto la CroceMentre il Cristo riposa (!) inginocchiato sotto la Croce e i Giudei evitano di camminare (da quante ore battono le strade a piedi nudi sotto il sole cocente?), aspettiamo che arrivi il resto del corteo. Breve pausa, nella navata di un biancore accecante. Poi si riprende verso la Chiesa dell’Annunziata, minuscola celletta davanti alla quale un uomo urla "entrate, entrate, o volete abbandonare pure questa?". Quando poi usciamo dalla Chiesa Matrice, al centro del paese, sono già 20.30. E’ buio e si scende veloci verso la periferia del paese. La discesa è ripida e la vista incerta, ma insieme a Imelda Bonato, regista veneta che ha già realizzato un documentario sulla storia sociale di Badolato, riusciamo a trovare persino una scorciatoia tra i vicoli bui e deserti. Bisogna arrivare all’Immacolata per primi, per riprendere meglio l’arrivo. Ma restiamo bloccati davanti alla Chiesa di San Nicola. Anche questa piccolissima. Minuscolo ventre nel cuore immenso del paese. Sorpassiamo tutti, approfittando del fatto che la strettezza dei vicoli rallenta l’andatura della processione.

Sorprendiamo la Chiesa dell’Immacolata immersa nel silenzio. Austera, ci accoglie girata di spalle. L’entrata è rivolta alla pianura, al mare. Inaccessibile e scura, illuminata appena e circondata dal baluginìo di luci lontane, non riceve più niente e nessuno. La navata è invasa dalle impalcature già da qualche anno. Chissà se rivedremo i vecchi stucchi. Chissà la Croce Angelica in lettere latine. Andiamo via ponendoci queste ed altre domande, dopo aver assistito ad una scena curiosa, una chicca di tutto rispetto: da sotto il giaciglio del Cristo morto un signore prende due limoni e li regala a qualcuno che sta accanto.

La Madonnna (quasi) svelataDomenica di Pasqua. Non è una banale processione quella a cui andiamo incontro. E dopo le sorprese di ieri, per quanto spossati e insonnoliti, siamo tutt’altro che incerti sul da farsi. Quando lo stendardo scatta all’improvviso per rincorrere i tamburi diretti al Convento degli Angeli, non gli andiamo dietro, ma restiamo sulla terrazza della piazza a guardarli da lontano. Entrambi sono diretti da San Giovanni, al quale dovranno annunciare la Resurrezione. Ma il tamburo non deve farsi prendere dallo stendardo, il quale altrimenti lo distruggerà. Quest’anno non assistiamo a ques’atto di umiliazione, e lo stendardo se ne torna a mani vuote. Tra la folla radunata a piazza Santa Barbara, l’Immacolata in corsa verso Gesù risorto è stata svelata e ora, in abito bianco, sta al fianco del figlio. Una donna avvolge intorno al suo braccio una collana di pelle mentre gli uomini soccorrono uno dei portantini che, nel tirare la funicella a cui era legato l’abito nero, è finito capitombolando per terra. Ricompaiono i due stendardi a rappresentare le confraternite. Hanno circa sei centimetri di diametro, sono alti circa cinque metri. Il peso, con tutti i paramenti, oscilla tra i dieci e i quindici kg., ci racconta l’anziano "mastro" chiamato a rispondere alle nostre domande.

Mentre la folla applaude la riuscita dello "svelamento" della Vergine, gli stendardi vengono ballati sulla bocca o sulla fronte, senza essere mai nemmeno sfiorati con le mani.

ballo dello stendardo ballo dello stendardo ballo dello stendardo ballo dello stendardo

Vecchi e ragazzi si alternano saltando sulle gambe in questo rito di abilità ed equilibrio. Giuseppe, 18 anni, di professione gommista, racconta che è un’usanza che si trasmette di generazione in generazione. Ma lui non ha imparato dal padre. Questi ballava lo stendardo alla cintola, così era più facile. Un amico gli ha insegnato a ballarlo sui denti. No, non fa male, ci dice ancora il "mastro". Al massimo fa un po’ male la mandibola. Sottolinea: per un po’.

Forse questo rito riproduce gli antichi antagonismi tra i quartieri. Forse questa processione è un po’ barocca. Possibile che il ballo dello stendardo sia di origine spagnola. E che i germogli di grano davanti agli altari ricordino i giardini coltivati da Venere per il suo defunto Adone. Probabile che la madre che cerca il proprio figlio sia Demetra. E che la Resurrezione significhi anche l’inizio della primavera, o il ritrovamento di Proserpina. O che esorcizzi la morte. O, come crediamo noi cristiani, che celebri semplicemente la morte e la resurrezione di Gesù.

Certamente si tratta di una processione molto bella ma complessa. Suggestiva e commovente. Riesce a rappresentare la persecuzione senza mai diventare essa stessa violenta. Un po’ fuorimoda? Non scorre sangue, ma si sentono suoni armoniosi e stridenti, si respirano i profumi della primavera, si cammina, si corre, si suda. E’ fisicamente faticosa e mentalmente impegnativa. Forse è per questo che c’erano meno giornalisti e più studiosi. Molti videoamatori e nessuna grande troupe televisiva. Un vero miracolo, anche questo.

Nelle foto di Francesca Viscone,
l'Addolorata alla petta degli Angeli, nella processione del sabato Santo. Sullo sfondo il borgo di Badolato
l'Addolorata e la Varetta nella Chiesa del convento degli Angeli
Il Cristo vivente si riposa inginocchiato sotto la Croce.
domenica di Pasqua, La Madonna quasi svelata

Il ballo dello stendardo

Francesca Viscone, lunedì 21 aprile 2003