ITINERARI

Percorrendo l'antica via rurale denominata "Serravecchia" che da Giuggianello porta a Quattromacine, Furtuciddhu della Vecchiadopo pochi chilometri, si giunge in contrada "Santu Vasili" zona dai secolari ulivi e dolmen, e poi nel fondo "Tenenti", nella cui area, giace uno dei monumenti più enigmatici del Salento : " FURTICIDDHU TE LA VECCHIA". La denominazione è medioevale ed indica una grande pietra circolare e lenticolare posta su un basamento. Sempre nelle vicinanze si può ammirare " LU LETTU TE LA VECCHIA" altro monolito dal fascino un po' magico perché legato alle antiche credenze popolari legate alla presenza di forze magiche che governavano lo svolgersi degli eventi nelle campagne. La leggenda "dotta" fa risalire la sua origine ad Ercole che, sbarcando sulle coste salentine, scaglio' contro le popolazioni locali ostili alcuni massi staccati dalla scogliera. Altri massi degni di nota Letto della Vecchia sono: il "Letto della vecchia" e il "Piede di Achille". In realtà, "Lu furticiddhu de la vecchia e de lu Nanni" e' un blocco monolitico di pietra calcarea che, ergendosi fra ulivi e lecci, ha suggestionato per secoli le genti di queste zone. Si tratta di blocchi calcarei di età miocenica la cui composizione ( calcarenite marnosa nella parte superiore e calcarenite nell'inferiore) ha offerto un diverso grado di di resistenza all'azione degli agenti atmosferici, che hanno prodotto queste strane forme.

I Dolmen, pietre senza un nome, sono le più antiche architetture preistoriche che l'uomo abbia costruito. Questa forma di architettura, conosciuta con il nome di "megalitismo" è caratterizza-ta dall'impiego di enormi blocchi o lastre lifiche, per edificare sepolcri individuali o collettivi e colonne di pietra. Dolmen StabileLe prime manifestazioni megalitiche compaiono in Puglia probabilmente già all'inizio del secondo millennio a.C., e il territorio di Giuggianello, con quello di Giurdignano e di Minervino ne è molto ricco. Questi dolmen sono tutti piuttosto piccoli e la pianta, spesso poligonale, non è mai molto regolare.Menhir Nel territorio di Giuggianello importanti testimonianze del periodo megalitico, oltre al "Lufurticiddhu te la Vecchia" e " u lettu te la Vecchia", sono il dolmen "Stabile" o "Quattromacine". E situato su un altopiano a 102 metri slm ed ha una forma quadrangolare con una lastra di copertura che misura metri 2,60x1,80 e poggia su due ortostati ed una serie di blocchi. Questa tecnica dei sostegni è una caratteristica anche dei dolmen maltesi. Fu individuato nel 1893 dal Maggiulli ed è uno dei più belli e meglio conservati nel Salento. I menhir o pietre fitte sono costituiti da un masso monolitico a forma di parallelepipedo infisso nel terreno a scopo religioso forse religioso o funerario. In contrada "Quattromacine", si trova anche il menhir "Crocecaduta" così chiamato dal toponimo della campagna in cui si trova. E costituito da un monolite a forma di parallelepipedo lungo circa 4 metri, largo 55 cm e uno spessore di 17 centimetri. E stato scoperto dal Centro di Cultura Sociale e di Ricerche nel 1979 in seguito allo studio del catasto Onciario di Giuggianello. Il menhir "Polisano", sito in contrada San Giovanni-Polisano, costruito in pietra leccese è alto m. 3,50 la cui base misura 30x40. E crollato nel 1977 e attualmente una parte di esso si trova nei laboratori della Soprintendenza di Taranto per il restauro.

Nel territorio di Giuggianello l'ulivo, così diffuso da formare un meraviglioso paesaggio, ha sempre costituito la coltura più sviluppata e più redditizia occupando il 70% della superficie dell'intero territorio. I più antichi ulivi furono ricavati con innesti su ceppaie antiche forse di età greca, romana e classica: gli olivastri "TERMES" ( oggi, invece, si piantano prima i "curmuni", ciocchi tagliati dal ramo di un vecchio albero, da cui germoglia la "mazzaredda" , arbusto giovane dell'ulivo).  Entrata del ' Trappeto 'Con il diffondersi della coltivazione dell'olivo di paripasso aumentò la costruzione di frantoi ipogei, i cosiddetti "TRAPPETI". In Giuggianello il numero dei "trappeti" che nei tempi andati funzionava era, secondo la tradizione, consistente. Persino l'Università ( il Comune ) ne possedeva uno. Però sono stati tutti distrutti, ad eccezione di uno che è in discreto stato di conservazione.Entrata del ' Trappeto ' Su di un'antica strada esterna al centro abitato orientata a levante del paese, denominata " Serravecchia " all'angolo con Via Leopardi, esiste ancora una struttura ricca di storia "LU TRAPPETO". Nel 1753 era di proprietà della vedova Donna Saveria Riccio, ricca proprietaria terriera; successivamente passò ai Bozzi - Colonna e da questi ai Rollo in comproprietà con Gigante Raffaele. Con una superficie di circa 850 mq. e situato ad una profondità di 3 metri circa e si accede attraverso una scala di 15 scalini. È allo stato di abbandono e degrado, e, perciò, é urgente il suo recupero e la susseguente salvaguardia e valorizzazione. La conoscenza o la fruizione di questo antico impianto produttivo permette di comprendere, scoprire e rivalutare un antico mestiere di Giuggianello: "LU TRAPPITARU". In una società eminentemente agricola come quella del sette-cento, anche la popolazione di Giuggianello, ricavava i mezzi per la sopravvivenza dalla lavorazione della terra. Macina con vasca L'ingente quantità di olive veniva trasportata nel frantoio e qui lavorata per la trasformazione in olio. La frangiatura avveniva nella VASCA avente un diametro di 320 cm. E sollevata dal terreno di 75 cm. Su di essa ruota la MACINA Schiavecostruita in pietra e ricavata da rocce locali. Con la pasta ottenuta in seguito a questa prima operazione si riempivano i " fiscoli " trasferiti, poi, sotto il torchio. Lungo la perimetrazione interna, scavate nella roccia troviamo le SCHIAVE o CAMINI nelle quali venivano ammassate le olive in attesa di essere macerate nella vasca. Il frantoio è costituito da 14 SCIAVE di cui sette intorno alla vasca e sette dietro i torchi piccoli. Nel vano scala ne troviamo altre tre. L'areazione avveniva attraverso tre botole sulla volta. Oltre a questo scopo, però, venivano usate anche per immettere le olive nell'interno ribaltate da traini e ancora per la fuoriuscita della sanza tirata su con l'ausilio di grosse carrucole ( le TROZZULE ) installate su cavalletti al di sopra del frantoio all'esterno.Locali - deposito Con tale importante struttura, ponendoci dinanzi al passato in una posizione di grande consapevolezza, possiamo creare, realizzare un progetto turistico - culturale collegato sia all'idea di civiltà ricca di segni e radici ancora vive dei nostri padri e sia alle possibilità di potere acquisire maggior benessere e sviluppo. Per far girare la ruota nella vasca ci si serviva di un m mulo o di un cavallo il quale con gli occhi bendati (per evitare il capogiro) faceva ruotare il verricello e la macina. Nella vasca si versavano al tempo stesso le olive in una quantità detta "vascata" composta da sei "tumuli". Si otteneva così una pasta densa che successivamente veniva torchiata. I torchi erano tutti di legno ed a vite. Per ogni frantoio ve n'era uno grande, per la prima pressione, con la piattaforma di almeno un metro e venti, e due piccoli per la seconda pressione. Quello grande veniva chiamato "LU CONZU" Lu conzumentre i piccoli "mammareddi". Frequentemente tutti e tre erano incassati nella roccia. La stretta veniva data per mezzo di una "STANGA" mobile che si infilava negli appositi fori della testa della vite. Dopo la macinatura, la pasta oleosa veniva posta nei "FISCULI" (dischi a tasca di giunchi) che, una volta riempiti, venivano sistemati nella base del torchio Torchioe sul canale e veniva quindi esercitata poco alla volta una pressione sui torchi dai quali scendeva l'olio e la "sintina" ( la morchia ). Alla base di ogni torchio era scavata una vaschetta rotonda dove si raccoglieva il liquido che colava dal torchio. L'olio e la morchia, ottenuti in questo modo, venivano raccolti in una vasca chiamata " ANCILU ", dal greco "aggelos", che significa messaggero, a pianta cilindrica, forata nella parte inferiore e comunicante con un'altra vasca detta "NFERNU"; succedeva in questo modo che la morchia si raccoglieva nell' "infernu" lasciando nell' "ancilu" l'olio che é più leggero. La forma cilindrica favoriva la "criscita" effettuata con due recipienti, prima con la "CRISCIULA", e quindi con "LU NAPPU" che era un disco di rame convesso. La molitura veniva fatta a fondo e la torchiatura veniva eseguita in due volte: ogni pressione durava 5 o 6 ore. Una torchiatura così prolungata sfruttava quasi bene la pasta, però ritardava la lavorazione. Si produceva, olio buono, e in piccoli quantitativi, specie ad uso dei ricchi proprietari terrieri. Allo scopo si destinavano olive fresche, magari "Spruate" (dal toscano brucate) cioè fatte cadere dall'albero con le mani e subito raccolte, cernite e spesso anche lavate usando, dopo la molitura, anche "fiscoli" nuovi o quasi. Perciò avveniva che, specie nelle annate di abbondante produzione, la lavorazione delle olive si prolungava sino ad aprile ed esse restavano per giorni e settimane nei depositi all'interno del frantoio ( le cosiddette SCIAVE o CAMIMI ) dove si alteravano ed ammuffivano, dando così luogo ad olio di pessima qualità che in gran parte veniva adibito per l'illuminazione.Schiave con torchio Grosse quantità di olio venivano poi vendute non solo in Italia ma anche all'estero esportate per via mare dal porto di Gallipoli. Da Gallipoli echeggiava la "voce" o il prezzo degli oli sulle piazze commerciali di Napoli, Venezia, Genova e Londra e in dipendenza dei traffici sostenuti con tutti i Paesi esteri nella città ionica ebbero sede i consolati dei principali Stati europei e tu creato il Consolato del Mare, il secondo dopo Napoli. Enorme tu la mole di lavoro nel porto di Gallipoli per il commercio oleario. Tale problema indusse Papa Gregorio XIII, il 18 aprile 1581 e Papa Sisto V, il 28 Febbraio 1590, ad accordare l'assoluzione collettiva a tutti coloro che impegnati nelle operazioni di caricamento dell'olio, non avessero potuto santificare la domenica. Un fervore di traffici, insomma, che andò crescendo nel XVII sec. fino a raggiungere in un solo giorno una presenza in rada, nel 1718, di 3° velieri e addirittura di 60 nel 1771.

Vincenzo Ruggeri - MEMORIE DI STORIA « IL TRAPPETO » - Aprile 1989



L'affascinante Cripta Bizantina di San Giovanni situata sul Monte San Giovanni, Grotta di San Giovannida cui prende il nome, è situata lungo una strada rurale che porta da Giuggianello a Palmariggi, è posta la, segno tangibile della cultura rupestre. All'interno sono stati rinvenuti lastroni dipinti ed affreschi con volti di santi che ne accrescono il suo valore culturale. Alle origini era adibita alle funzioni di rito greco ma in seguito divenne una cappelletta cristiana dove si continua a venerare San Giovanni Battista. La grotta è scavata nella roccia tufacea e per accedervi bisogna scendere tre scalini per trovarsi poi in un atrio-ingresso che è collegato con la grotta vera e propria da due scalini. La struttura è a tre navate, il pavimento in terra battuta, il soffitto pianeggiante, con un'altezza media di due metri. Intorno ai due pilastri centrali vi sono sedili a gradino, al di sopra dell'altare vi è un incavo quadrangolare dove forse vi alloggia l'icona. Anni fa in questo incavo vi era un lastrone sul quale era raffigurato San Giovanni Battista, realizzato per devozione di Miggiano Gaetano di Muro nel 1869. Distrutto dal moderno vandallsmo, è stato ristrutraato dal Centro di Cultura di Giuggianello. Recentemente sono stati rinvenuti su una parete laterale alcuni affreschi con volti di santi.

Quattro Macine ( Quattor Macinarum),casale mediovale menzionato per la prima volta in un diploma di Federico II del 1219, si è rivelato di fondazione bizantina. Una delle due chiese rinvenute durante gli scavi è databile al X-XI sec.: si tratta di una chiesa commemorativa per un defunto maschile di circa 35 anni di età, ben nutrito e senza evidenti patologie. La sua sepoltura inserita tra l’altare e l’iconostasi dell’edificio, occupa una posizione privilegiata. La chiesa, decorata con affreschi al momento della sua costruzione, viene ristrutturata e riaffrescata nel XIII secolo. Tomba di Quattro Macine Al di sotto del piano pavimentale di XIII secolo, in terra e tufina battuta, sono stati rinvenuti, per la prima volta in un contesto archeologico, gli strumenti liturgici relativi al rito greco. Davanti alla mensa laterale, all’interno del santuario, sono venuti alla luce due cucchiaini, un oggetto ancora di incerta identificazione, ed una "lancia" o coltello che, rappresentando simbolicamente la lancia del soldato che ha perforato il ventre di Cristo sulla croce sul Golgota, serviva a dividere il pane eucaristico durante la messa. In età normanna viene edificataCasale di Quattro Macine una seconda chiesa, a due navate e due absidi, che fa da nucleo ad un cimitero che perdura fino al periodo angioino. Dal cimitero provengono vari cippi tombali, compreso uno con data 1173/4 con iscrizione in greco, e sono stati recuperati i resti di 75 individui, il cui studio è in corso da parte dell’antropologo Trevor Anderson. Nel Basso Medioevo il casale risulta fra i feudi appartenenti all’Arcivescovo di Otranto. Nel XV secolo l’Arcivescovo è attestato ancora come proprietario del feudo che, nel corso dello stesso secolo, risulta abbandonato. E' uno dei pochi villaggi per il quale esiste evidenza che venne distrutto durante la presa di Otranto nel 1480-81, da parte delle truppe del Sultano Mehmet II. Al posto del casale viene costruita una torre che si sviluppa in masseria, per essere, a sua volta, abbandonata nel 1955. Chiesa di Quattro Macine