La Capretta Biancaneve

All'inizio degli anni sessanta, mio zio Marsel Marsun possedeva uno degli ultimi "1100 coloniale" dai cilindri lappati da tanta sabbia del deserto da respirare, senza danni, la rarefatta aria dell'alta Valle Melaira.

Il camioncino era stracolmo di damigiane di quel vinaccio che nella nostra provincia definiamo "fatto col bastone", ovvero polverina sciolta in acqua di fonte, materiale genuino (l'acqua) e disponibile a iosa, altrettanto come i rami di pioppo, ideali per rimestolare l'intruglio una volta sfrondati.

Le tortuose curve, quelle stesse che fortunatamente tenevano lontano gli spocchiosi merenderi torinesi, provvedevano a mantenere in sospensione l'intruglio, che come un fallout sarebbe inesorabilmente ricaduto sul fondo, però non prima di un paio di giorni.

Lo zio fidava nel fatto che i montagnini si sarebbero scolati tutto il beverone all'indomani, nel giorno della "Baïo", ovvero la festa commemorante la liberazione dai saraceni avvenuta all'inizio del secondo millennio.

Arrivammo alla locanda della Guinta all'imbrunire e decidemmo di fermarci lì.

Scaricammo un paio di damigiane che la padrona ci avrebbe pagato con vitto e alloggio, più alcune decine di pelli di coniglio impagliate e qualche miriagrammo di farina di segala che li abbondava. (... scarseggiando la figala)

La figlia, appena più che sedicenne, appariva sprecata per un simile avamposto da lupi. Era veramente bella. Lo zio la teneva d'occhio da un paio di stagioni in attesa della legale maggior età e quella sera a cena non lesinò lusinghe, allusioni, doppi sensi fino a giungere a esibire il suo capiente portafogli a fisarmonica, suonante banco...note!

La Guinta, avida e taccagna peggio di un genovese nato in Scozia, si rese conto che avrebbe potuto risparmiare parecchie pelli di coniglio se avesse favorito i desideri dello zio.

La megera si accordò col mio perverso parente ponendo una sola condizione: tutto avrebbe dovuto svolgersi nel buio più totale, poiché avrebbe raccontato alla piccola che ad appartarsi con lei sarebbe stato il giovane, ovvero io.

Tutto questo avrebbe dovuto svolgersi a mia insaputa, perché i due dialogavano nel dialetto occitano del posto, ma io qualche dubbio già lo nutrivo, poiché la fama di puttaniere e la fame di donne di mio zio era proverbiale in valle.

Fu così che dopo cena lui non si trattenne con me a fumarsi il solito sigaro e ad istruirmi sulle frodi in commercio, ma con una scusa qualunque sparì. Rimasto solo ad annoiarmi al tavolo, decisi di farmi un giretto nella borgata. Con mia gran sorpresa trovai la ragazzina a giocare con altre bambine. Mi venne un dubbio e tornai nei pressi dell'osteria, appena in tempo per vedere lo zio scendere dal solaio abbottonandosi la patta. Rimasi nascosto ed attesi. Poco dopo un'ombra più scura della notte dei gatti neri scese anch'essa la scala a pioli: era la fattucchiera.

Dunque lo zio era stato abbindolato, eppure mi raccontò esaltato:

- Marcelin Picin! Ah! Le giovani d'oggi! Stacci attento, quella ha l'aria così santarellina, ma é più esperta d'una di città.

Quella notte compresi che il mio venerato precettore non aveva più niente da insegnarmi, anzi, forse era il giunto il momento che io badassi a lui. **

Alla fine degli anni settanta non ero più il mingherlino "Marcelin" e tutti mi chiamavano "Marcelun". Un bel giorno risalii in valle con un paio di amici altrettanto nerboruti. Sotto al culo avevamo tre splendide Montesa 250 che si mangiavano quei pendii come un orco inghiotte un'intera famiglia di gnomi, Biancaneve compresa.

Ed eccola Biancaneve! Una capretta eburnea molto invadente, che si brucò il cavo della mia candela!

Eravamo nel cortile della taverna della Guinta da cui mancavo da almeno 15 anni.

Decisi di pernottare lì, mentre i miei compari sarebbero tornati a valle e, all'indomani, mi avrebbero inviato un nuovo cavo con la corriera del mattino.

A servirmi la cena venne la figlia. La riconobbi subito. Adesso era sulla trentina e, se possibile, ancor più bella. La Guinta invece, ruga più ruga meno, era rimasta tal quale: orribile.

Memore delle lezioni di vita del defunto zio, considerai che se del padre si può sempre dubitare, della madre mai, anche perché allora si partoriva in casa. Dunque quel fiorellino, paradossalmente, non poteva essere altro che figlia sua e qualcuno dei geni taccagni e lubrici della madre doveva pur averlo ereditato.

Forte di questa conclusione e della certezza che non c'erano uomini in casa, decisi di impressionarla consumando una cena da nababbo, pur nei limiti dello scarso approvvigionamento del locale e del mio portafogli per niente a fisarmonica.

Per fortuna il vino non era più quello di sintesi che forniva mio zio, bensì genuina Barbera albese, e mi lasciai andare un po'. Quando l'alcool lusingò a sufficienza quella parte del fegato dove risiede il coraggio, le mie avances si fecero più esplicite, pur trascurando l'apparente ritrosia della figliola. In fondo, almeno virtualmente, ero già stato in solaio con lei. Adesso mi sarebbe piaciuto riscattare lo zio, che di lassù, su di una nuvola rosso rubino come il Barolo che amava tanto, certamente mi stava seguendo e benedicendo.

Come mi attendevo, verso la fine del pasto la vecchia venne a offrirmi il digestivo e attaccò bottone.

- Eh, tempi duri! Tutti qui se ne vanno e pochi turisti vengono. Effettivamente i pochi rimasti in alta valle se la passavano magra. Ero l'unico cliente e non mi sarei sorpreso se avessi scoperto che aveva addestrato la capra a sabotare le poche moto di passaggio.

- Guardate la mia figliola, così bella, eppure priva di speranze quassù ...

- Già ... già ...

Per farla breve: come un remake della sera di quindici anni prima, cambiato soltanto il vecchio con l'attor giovane, ci mettemmo d'accordo sulla pecunia, anche se la mia richiesta ulteriore sconcertò la navigatissima donna dei monti, nonostante fosse priva del concetto di barca.

- Come, con tutte e due?

- Tutte e due, sì.

Ero abbastanza sbronzo per non potermi fidare né di me, né della megera. Il mio ragionamento era semplice: in casa c'erano soltanto due donne e una delle due sarebbe stata per forza la figlia. Non potevano fregarmi ... eh! eh! come insegnava lo zio, i giovani d'oggi hanno studiato e non sono scemi.

- Che gioventù depravata! Comunque d'accordo: se due volete, due avrete.

Dopo d'essermi fatto un ulteriore bottiglia, salii verso il buio solaio; per fortuna adesso la scala a pioli era stata sostituita da una gradinata.

La scala mi sembrava doppia, cercai di camminarci in mezzo ... dunque secondo una logica alcolica, così sbronzo, di donne avrei dovuto vederne quattro.

Così avvenne. Tranquillizzato, imposi alle due vecchie di starmi alle spalle e sostenermi mentre mi accingevo ad assumere la posizione della carriola con le figlie.

Come da copione, mi abbrancai alle maniglie dell'amore pur senza vederle: ne toccai ben quattro!

La cosa non mi sorprese più di tanto: se vedevo doppio toccavo pure doppio, conseguente corollario al teorema alcolico.

Quattro tette ziooooooohhhhhhhhh!!!!!!!!Da morireeeeeeeeeeee!!!!!!!!!!!

**

Mi risvegliai al suono del clacson della corriera, verso mezzogiorno.

Ero ancora piuttosto intontito e, per un attimo, credetti che il morbido corpicino cui ero abbracciato fosse ancora la mia fatina.

Biancaneve salutò il mio risveglio con un belato, sballottolandomi sotto al naso le sue quattro poppe gonfie di latte.

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