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Hanno detto..

RACCOLTA “DIGRESSIONI DI UN AEDO”

 

INDICE:  

Dedica

Prefazione di Lia Fava Guzzetta

Un tributo alla poesia... di Bianca Mastrominico 

Incipit

Immaginazione

Paese

La mia leggenda

Antitesi

Naufrago

Gott mitt uns

Cantastorie

Eredità

Vaticinio

Anima di creta

Caporabballo

Strofe

Salvastrella

Terra mia

Refrain

Quattro trovieri

Orizzonte

Malakhim

Corale

Sensi

Mediterraneo

Il filo della vita

Alla guerra

Diaspore

Un canto ribelle

Via Crucis

Sentieri

Miraggi

Oltre le parole

Cicale umane

Terzo millennio

Essere  

A chi, come me cicala di vita, accorda versi e
note e si strugge l'anima nell'incerta durata
della sua stagione.

 

A Leontina, Rina ed Annalisa, radice
innesto e gemmazione della mia pianta.

 

A Stefano e Michele, anelli di congiunzione
del nome avito.

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Prefazione

La Raccolta poetica di Giuseppe Iuliano rivela fin da subito nello spazio paratestuale del titolo, e quindi in posizione anche esponenziale, un orizzonte autoriflessivo, destinato a riproporsi variamente nei diversi componimenti, tanto che, a lettura ultimata, il lettore stesso si ritrova coinvolto in una pensosità interrogante che riguarda proprio il ruolo del poeta nel mondo. Viene investito in pieno il senso del poetare nella modernità dell’oggi, in questa Storia degradata che sempre più, potremmo dire leopardianamente, perde il contatto con la Natura e con le Illusioni. Poesia dunque come interrogazione e come nostalgia di un mondo più armonico e più umano, nel quale la fantasia e il libero canto abbiano diritto di cittadinanza e di vita, e nel quale la poesia possa realmente creare le condizioni per “conoscere i sogni”.
Nel contesto storico umiliato di un tempo di “incerta fede” e mentre avvampa quasimodianamente “il furore del giorno / prodigo di torti”, le ragioni della poesia e dell’immaginario continuano a chiedere di essere affermate e cercate per il tramite dell’aedo, sconsolato e girovago, ma il costo e la sofferenza di una vita asfittica e in continua lotta con la “convenienza del tempo” rendono dolorose e incerte, anche se eroiche, le vie impervie del poetare.
Il destino del poeta, dunque, in questa globale post-modernità, è un destino ormai di confine e di frontiera, e la tentazione della fuga si ripresenta puntuale e angosciosa.
Nell’ “aria stagnante” sotto “l’immensa cupola” di un cielo che “non lascia respirare”, il poeta cerca ancora un “miracolo d’inebriante natura” con la sua disperazione di essere “confinato” al di qua di una soglia che invece vorrebbe varcare come chiunque sappia di dover fuggire per “provare la sorte”.
Nelle parole di Iuliano si avverte il desiderio di denunciare una condizione di prigionia, di “soggiorno obbligato”, dal quale meno che mai, la storia dell’oggi indica un punto di fuga. E’ la ricerca dell’improbabile ‘varco’ montaliano, attraverso il racconto, o il tentativo di racconto, di un impossibile ritorno verso una Itaca non più certa, non più chiaramente percepibile, forse, addirittura, inesistente: un racconto che non può più nascere nemmeno dalla consapevolezza di melodiose cadenze, ma che piuttosto procede per “approssimazioni” e imitazioni.
Il poeta non più vate, “senza serti di ulivo / né segni di gloria”, senza più epopee da narrare, né chansons de geste da evocare, è ridotto alla condizione ungarettiana di “naufrago” che può alzare solo “squarci di vela”, verso un’isola/mondo/luogo di misfatti, che fra le più vergognose atrocità – Auschwitz, Dachau, Treblinka – presenta lo scenario della sua stessa imminente fine.
Così questa poesia esibisce progressivamente, e come al rallentatore, l’affresco doloroso di un mondo in decomposizione che prepotentemente si accampa, con tutta la sua violenza di realtà e di immagine, come oggetto ineludibile di analisi – perché sempre più unico, incombente, uniforme e totalitario – sotto l’occhio stupefatto del poeta. Egli, ormai ferito, vorrebbe essere capace di cancellare le atrocità quotidiane della Storia, mentre riesce solo a cantare la propria precarietà e l’impotenza stessa del canto.
Il poeta che rivive, nel ricordo e nel fluire delle sue “digressioni”, tutte le proprie metamorfosi – pellegrino, guascone, bohemien, trobador – ha sfidato e continua a sfidare “i confini della parola” per scoprirne i suoi stessi angusti limiti, simili ormai a quelli della stessa natura che sempre più diviene simbolo di perdita e di estinzione. “Appassite è la vigna / ara votiva degli avi / benedetta da zolfo e verderame / ora malata e lebbrosa di tigna. / Mele scarfate / annurche o cotogne / pere butire / sorbe amare e selvatiche /  disertano l’orgoglio dei campi / selvaggi e sterili / per mancati generanti innesti”. E’ una vicenda di “mancati innesti”, dunque, di desertica sterilità, quella che sta invadendo il mondo, e che il poeta tenta di indicare, dal suo confino di rassegnato spettatore, mentre, d’altro canto, non può che avvertire la propria progressiva pietrificazione, percependo se stesso simile all’ “unico bastione” del “diruto castello” che “solo” osserva “l’informe rovina”.
Questa condizione di pietrificato osservatore ricollega l’io poetante di Iuliano alla situazione interiore del Tristano leopardiano, che si sente ormai inattuale rispetto al proprio tempo, e che anticipa la posizione di impassibile e muto registratore della tragedia, che caratterizzerà il “silenzio di cosa” raggiunto dal personaggio pirandelliano di Serafino Gubbio operatore, irrimediabilmente ormai destinato alla totale afasia.
Un lento processo, dunque, verso la perdita della parola caratterizza la contemporaneità, e invade anche la vita del poeta che sulla parola dovrebbe essere costruita e che invece rischia di perdersi “generando morta poesia / orfano cicaleccio prigioniero / esaltante il nulla”.
E il qui e l’ora del poeta Iuliano solo apparentemente sembra riferirsi, o può essere riferito, ad una specifica condizione di esilio – la quale storicamente potrebbe avere i suoi singoli connotati in un Sud problematico e stanco, sfruttato e defraudato – mentre piuttosto si configura come il riferimento a un qui più generale e metaforico, riportabile alla situazione dell’umanità di oggi, dolorante e marginale, in ogni caso e a qualunque latitudine: “Qui / ognuno è un margine d’umanità / che si contenta di girare / a vuoto con fisso cammino / nei suoi confini”.
Non Itaca, dunque, né un approdo sicuro, né un traguardo, quale che sia, di possesso, è quello che servirebbe all’uomo di oggi, quanto, forse, piuttosto, una possibilità di protezione, una difesa, un angelo custode, che proprio con la sua reale esistenza di tenero appoggio, potesse rendere testimonianza alla verità. Un angelo “vero”, che con la sua verità, e in forza di questa, fosse attendibile difensore dell’uomo sofferente.
Invece lo scenario del mondo, nella specola di un Mediterraneo che assomma “sorrisi e gemiti di popoli, / isole alla deriva / clandestini vittime sacrificali / subbuglio di rivoluzioni in ritardo / carovane di miserie”, e che è divenuto ormai preda dei nuovi “signori della terra” e simbolo di un ‘Europa che cinicamente ospita “il nuovo mercato degli schiavi”, non offre visioni di angeli per la nostra improbabile fede, quanto piuttosto “gratuiti spettacoli di dolore / ed una muta disperazione”, in un moderno “punto di non ritorno” in cui “la morte conserva a grappoli i suoi misteri”.
Il poeta con rabbiosa disperazione e con voce sempre più flebile e inascoltata, tenterà ancora (fino a quando?) di render conto, di tramandare, ciò che avviene sotto i suoi occhi, registrando i vari livelli di una progressiva e contraddittoria mortificazione dello spirito che diviene “sottile diaframma”: / vuole la pace e propone la guerra / e poi indossa per anni / strascichi di lutto”:
Ma forse ancora, come il passato, la Storia stessa, la storia degli uomini, la storia d’Italia, la storia del Nord e del Sud del mondo, la storia delle lotte, delle violenze, dei razzismi, la storia dell’intreccio perenne del bene e del male, della confusa ricerca dell’umanità, sarà tramandata essenzialmente dalla parola poetica che, sia pure in un margine estremo, si presenta ancora come l’unica salvezza possibile: “Se questo parlare / … / ti infastidisce / lascia che tutto affoghi / e sprofondi nel nulla”.
La parola poetica, dunque, contro il nulla! Quasi una disperata scommessa! La voce del poeta, “desiderio di parole vere”, fragile forse come “fragilità di donna”, ma anche estrema possibilità per comunicare ancora ciò che gli occhi riescono a scrutare nei “labirinti di tenebre”, “fondali distanti secoli di storia / e di storie minime / che nel ricordo scampano all’oblio”.
Poesia e memoria, dunque, poesia e conoscenza, poesia e visione, ipotetica profezia: “E noi voce arrochita / diversamente ciechi alla luce / straniti da ridondanze di miti / promiscuità di numi e di eroi / ripetiamo con incerto mestiere / l’avvenire dei giorni”.
Ecco il guardare oltre del poeta, per “intendere / il senso della vita. / Per continuare ad essere”.
Un accorato inno alla poesia, dunque, questa Raccolta di versi, ma senza autoesaltazione, senza illusori trionfalismi, anzi, piuttosto col doloroso senso di una labilità imminente, di una marginalità in lotta, non si sa ancora fino a quando, contro i miti di una modernità prepotente, autosufficiente e orgogliosa del suo “progresso / enfasi di civiltà globale”.
Un inno che ci consegna dall’inizio alla fine del libro la figura di questo aedo, che con cadenze da cantastorie, “voce di antiche leggende”, ancora, instancabilmente e contro qualunque prospettiva di gloria, propone al mondo “fantasie di libertà”.

Lia Fava Guzzetta

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Un tributo alla poesia di Giuseppe 
Iuliano, per me solo Peppino

Quando Garcia Lorca fu portato alla fucilazione dai soldati dell’esercito franchista, la gente del paese dove si era rifugiato assisteva alla sbrigativa processione e guardava come un poeta va a morire. Garcia Lorca “llorava como un niño”, invece di chiedere cartine e tabacco, per mostrare in punto di morte il proprio disprezzo per gli oppressori e gli assassini, e risolutezza nei confronti della morte, come facevano i militari antifranchisti.
Lorca piangeva, ma non per vigliaccheria. L’ultimo pianto di un poeta è come l’ultimo istante di agonia di una farfalla, di un insetto schiacciato, è il pianto spezzato dopo il canto, è dolore per la bellezza perseguitata e sopraffatta.
Questa è, personalmente, l’immagine più reale che io ho di un poeta, anche se è solo testimonianza forse un po’ romanzata. Questa, in fin dei conti, è l’immagine più umana di un poeta che piange per la vita, dopo che si è consumato le dita per anni e giorni pazienti a riempire fogli, ad ammansire con un verso il disagio di vivere.
E di Peppino, ho questa sua immagine: il suo matrimonio. Capelli nerissimi, magro, nella semplicità di una festa, sempre in ascolto. Immaginate un uomo che molto presto, al mattino, si metta a guardare da una collina la bruma che sale verso il cielo, e scopre valli, campi, gente che lavora, case, il tempo orizzontale della terra che si perde all’infinito verso il Sud.
Dal matrimonio ai figli, un radicato sradicato. Quando Peppino telefona pare sempre più in alto di noi, sulle montagne irpine, immerso nel verde, con la sua magrezza da ragazzo, fisicamente e spiritualmente con il naso ed il cuore protesi a respirare freneticamente l’odore delle cose sensibili.
Il suo decentramento è diventato la sua centralità: Non rinnegando le sue radici, ha messo radici più salde nello spirito e nella riflessione.
E così la stanca, matura ricognizione di quel “…margine di umanità / che si contenta di girare / a vuoto con fisso cammino / nei suoi confini”, (Orizzonte), sposa in un antico e resistente matrimonio, dove Peppino ha ancora capelli neri, la “libertà di fantasia” dei Miraggi.
Sì Peppino, perché, come tu scrivi, “l’adozione di un sogno” è ancora la forza straripante della poesia.

Bianca Mastrominico

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Incipit

Alla virtù delle Moire

mistero di verità oltre l’Olimpo

malvagio capriccio

di una scommessa del destino

affido pegno di vita

questi miei anni.

Polloni e gemme avventizie

di acerba primavera

contavano giorni amari

le prime sofferte rinunce

incanto di sole e di neve

nella forza del vento

che solleva a sussulti

il corpo-aliante.

Era un mondo di poveri.

S’allungavano serpi

di radica e rami

per sollevare la terra gravida

ed inalberarsi

a ideali di giusta follia

sacra religione

poi morta al primo compromesso

ma convincente

più di ogni altra ragione.

Tanti i sassi duri

rimasti nel cuore

senza sgretolarsi.

Ecco le altre stagioni

a seguire la vita,

somme di tempo nel tempo

che m’appartiene a frammenti

e mi svena la resistenza

nella poca incerta fede.

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Immaginazione

Essere poeta

senza serti di ulivo

né segni di gloria

umane lusinghe vanesie/

Libero di evadere

e di sciogliere il canto/

è vivere l’illusione.

E conoscere i sogni.

 

Fantasia sei conforto

al qualunque

quando avvampi

il furore del giorno

prodigo di torti

e assecondi agli umori

istinti pazienza e virtù

scelte mute o ribelli

alla convenienza del tempo.

Sei manto di neve

ad ogni lingua di fuoco,

nascondi il verde la terra

la linfa immortale

da sempre generatrice di vita.

Così mi consumi in lacrime

di cera

e riempi di terraglia

i vuoti dell’anima.

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Paese

Lasciatemi andar via!

Troppe volte ho gridato

con voce maledetta,

lasciatemi fuggire.

Qui c’è aria stagnante.

L’immensa cupola

del cielo non lascia respirare.

Tanta luce

all’estraneo gratuita poesia

miracolo d’inebriante natura

acceca e non illumina

e agli occhi confusi/

trincee di palpebre/

aggiunge altro buio.

Questi monti mi spiano

in soggiorno obbligato

dimentichi

del vecchio abbandono

e con la loro pesantezza

sfibrano insolenti

la stanca monotona esistenza.

 

Non parlate di ricordi

per farmi restare!

Il silenzio dei più

incoraggia la fuga

di chi confinato

vorrebbe varcare la soglia

per provare la sorte.

 

Lasciate

che io pianga altrove

i miei morti,

mai “prodigo” d’un ritorno

per l’estremo segno di croce,

la pietà di chiudere gli occhi

e la bocca.

 

Lasciatemi vivere

di ricordi.

Ma lasciatemi vivere.

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La mia leggenda

Aedo

sfiacchito su strade e sentieri/

nastri bianchi sottili

per cruna d’ago di selce e polvere

o impiastri di creta/

percorro segmenti di Grecia.

Estraneo alle corti

ho mani ed orecchi incapaci

ad accordare la cetra e la lira

per fare melodia.

Approssimo l’arte

cocciuto apprendista

di un maestro cantore senza licenza

stretto di borsa al tintinnio del soldo.

E provo con fiato sommesso

ad imitare la voce

ispirazione divina di Femio

araldo mai complice

di creste e morioni dei Proci

gelosi nelle voglie d

ella virtù di Penelope.

Mi trastullo senza malizie

nuovo Odisseo

indifferente ad ogni dio

e naufrago

alzo squarci di vela.

Ma ci sarà una mia Itaca?

 

Sandali di gomma/

modelli di griffe/

non trovano l’equilibrio

tra ciottoli sparsi a cumulo

mentre fatico

con ali di farfalla

a sopportare

le mie metamorfosi.

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Antitesi

Domina

irraggiungibile come una Madonna

non sei Czestochowa.

Sogni la lauda

cortigiana di fiabe

inseguendo prima troni

poi cadetti

referenti del nobile blu

in un mondo dove il sangue

è eternamente rosso

da concimare le zolle del Golgota.

Ballate canzoni e lasse

evocano la chanson de geste

Romanzo della Rosa

di prodi cavalieri senza macchia

per te sacramento di fede

negli anni e fino alla morte.

 

Viados

e farfalle di colore

formiche operaie della notte

riempiono sterili rassegnate tane

e saziano nell’ansimo i digiuni.

Frammenti

scarti d’umanità

pret à porter d’amore

alla luce di scrutanti fanali

aiutano gli occhi ed ogni senso

a recuperare il sogno

con poco prezzo.

Su animali in pennacchi a fiera

per striglia di sterco

sensali esattori ruffiani

fissano il patto.

E’ il loro codice d’onore.

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Naufrago

Vate

con esperienze di mondo,

faville d’incandescenza

o fredda lava

calco e coagulo del tempo,

racconto le mie invenzioni.

Concerto rapsodie rusticane

di terra insolente ed insonne,

isola per nuovi approdi

ma sempre isola.

Qui ho fissato l’ancora.

Il chiarore

è luce solare

d’inebriante natura.

L’oscuro

spesso è mistero degli uomini

oltre la stessa matrigna natura.

Innocenza

è il grido di vita

soffocato al tramonto

per il giorno che muore.

Il rosso, illusione di un’idea,

è un fiore secco

orfano in poche stagioni

di ogni profumo e colore.

A nuove albe

rimando in eterne riparazioni

i miei esami.

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Gott mitt uns

Un coro di lamenti

soffoca verbi di morte

foglie secche stipate o sparse

dal vento dell’abisso.

Alberi ramagliati e curvi

lacerti di sevizie

larve appiattite

condominio di pidocchi,

invocate nella liberante disperazione

la fine. Ogni fine

con o senza squillo di tromba

del Giudizio.

L’eco delle tenebre,

oggi ragnatele squarciate,

rompe i silenzi

insegue le colpe uncinate

ed accompagna pellegrini del mondo

al sangue innocente rappreso

su scarde malate di pietà.

Treblinka, Dachau, Auschwitz

siete la vergogna del mondo

caina specie eletta

nell’odio padrone di Sion.

Incarnate, per intervallo di umori,

ogni maschera-sembianza

anche chi alla vita affidò

attimi d’amore

semi più duri della pietra

concimi i fiocchi artificiali

polvere di ciminiera.

In una fossa comune

è sprofondato il Golgota

senza uno straccio di sudario

con vermi nudi tra vermi di terra.

La voce si secca

rintrona il silenzio

immenso lugubre

e schioda assi di una croce

che sembrava l’unica

eterna maledizione.

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Cantastorie

Troviero,

con la mandola a tracolla

oggetto del mestiere

che conta scorticature

di noia

con punta di coltello,

sono cittadino del mondo.

Al repertorio di piazza

programma sempre uguale

accordo giochi di memoria

 in voce e suoni/ chiavi d’armonia/

per stornelli di cieca protesta.

 

Potenti prepotenti

cacciatori d’affari

sanno irretire a frodo

gente e lor pari.

Papaveri di ogni terra/

semenza di stravizi/

capitano/ ipnosi del soldo/

donne di sola bellezza

da sempre vera virtù

nella conta dell’uomo.

Perfidi

all’occasione mostrano

sorrisi bavosi

e misurate catene

come i loro cani.

Quando l’amore vince

e il turpe sprofonda nel nulla

la storia è contro la storia.

 

Come vorrei cancellare

certe pagine

ed imparare altre partiture!

Canterei nuove canzoni.

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Eredità

Rondine

non ho lasciato all’avidità del tempo

e alla sorda natura

arbitri di rassegnazione

le mie stagioni.

Le ho ipotecate

per cambiali scadute

non truffando, ma truffato

dall’ingenuo sogno ingannatore

conoscitore del morbo del gioco

della verità dei tarocchi

della sfera magica,

per veggenza di illusioni.

Ho visto partire le gru

e gli altri migratori

stormi gracchianti nel cielo

pattuglie acrobatiche

per assicurarsi l’inverno.

Pagliuzze e fuscelli

misture d’impasto

non sbarrano il freddo e i suoi stupri

violenza di morta natura

al fissato destino.

 

Un giudice presbitero della spada di Temi

borbottando codici

ha messo all’asta un nido vuoto

e la ruvida lisa livrea.

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Vaticinio

Pellegrino con tascapane di pietra

e ciotola di mani

tra semafori di stelle

lucciole di ogni stagione

non cerco l’umiltà salvifica del saio

o la piaga espiante del cilicio

né giuramento di spada

crociato di Terra Santa.

Inseguo, unico tormento

sfibrato da essenza di atrabile,

la mia Melisanda

rapito da desiderio d’amore

confuso ingrato intrigante

che libertà, curva di cielo finito,

guarda all’infinito

e mi costringe a vivere e morire

ad ogni mia scelta.

Smessa l’armatura

vergogna di divorante ruggine

sfido l’incerta sorte

mare deserto di ogni vento

per approdare a Tripoli

e morire tra le sue braccia

come Jaufrè Rudel!

 

Questa storia minima

poesia di un tempo della vita

insistente umana inquietudine

forse comune salvezza,

ma senza certezza di eterno,

non sarà mai leggenda.

Questa follia di sensi

misura di sale dei giorni

e dei suoi digiuni

gonfia scirocco di sospiri e brividi/

spesso senza preavviso.

Lievita magma/ intreccio di pensieri/

specchio di immagini e riflessi

in luce d’argento

che immaginifico stupore

mi convince a credere

in un complice silenzio.

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Anima di creta

Non mi consola l’arte

mosaico di parole

scontate o nuove

per mastice di conio

né mi convince l’arcano

in mistica lievitazione.

Impasto di lingua

farnetica al moderno

e fissa a sua immagine,

generando morta poesia

orfano cicaleccio prigioniero

esaltante il nulla.

Varietà di codice è frontiera

martella e trasforma

in nuova inquisizione

libertà di voce.

Non sola la mia.

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Caporabballo

Un motivo fisso

invasante tiritera

vecchio come questo paese

s’attacca addosso

spira di calamita

e ti accompagna sfrenato nel vortice

di una danza senza fine.

 

Schiocco di dita

e pugni di castagnole

segnano il ritmo,

geme il clarino cornuto

romba a salve il tamburello

e l’organetto si gonfia

partorisce suoni.

 

Maschere in fila

processione d’invisibile sesso

che si sfiorano al desiderio

si piegano e si torcono

morse da magica tarantola.

 

Passi di marcia trotterellante

ordini di sottostare

al mazziere caporabballo(*)

ungono d’afro sudore

il corpo che freme profano

e lievita carne e spirito

in liberanti urli di lupi,

fierezza di stirpe.

 

Maschere avverano il sogno

per un sol giorno

e si dividono il resto dell’anno

in morte quaresime,

opprimenti stanche

monotone stagioni

e le facce scoperte degli uomini

accecate dal sole.

 

(*) caporabballo:  è la maschera guida del Carnevale di Montemarano, molto simile a quella di Pulcinella.  

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Strofe

Guascone

quasi bohemien

ho addomesticato i giorni

con frusta di vento

e schiuma secca alla bocca

che raschiava la gola

al trattenuto respiro.

Un orcio a lunghe sorsate

un otre avvizzito

spremuto da solo

o con altre lingue riarse

era conforto al viaggio senza fine.

Con Marcabruno e Cercamondo

ho sfidato i confini della parola,

sillabe accenti il verso compiacente

fino al plagio

e alla maledizione.

 

Trobar clus 

 fu il nostro cantar

sintesi di parole e suoni

in vera libertà,

talora coltello appuntito

accecante come specchio riflesso.

Fu voce di forgia e di lima

capace di brillare per mancata giustizia

o di sfigurare con lingua affilata

sciabola di menzogna

senza scannar alcuno

e cacciargli un grumo di sangue.

 

Anche l’amore fu licenza

vita e anima senza espiazione

corpo e sesso in attrazione

sempre pronti a sfregarsi

e a ridurre gli attriti

per ritrovarsi insieme

come palme chiuse a misura.

 

La parola il coltello l’amore

sono ragioni del ventre

nel ciclo dei tempi

e fiale di linfa

che intrecciano rami o si spezzano.

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Salvastrella

Appassita è la vigna

ara votiva degli avi

benedetta da zolfo e verderame

ora malata e lebbrosa di tigna.

Mele scarfate

annurche o cotogne

pere butire

sorbe amare e selvatiche

disertano l’orgoglio dei campi

selvaggi e sterili

per mancati generanti innesti.

Ortiche ed erbe invasive

barbare alla terra

hanno in seminato l’orto

congedando sentinelle di canne

che segnavano ordinati filari

in divisoria mostra

come pietre miliari.

Distese o forre incolte

sono consistenti macchie

di verde.

Morta è l’uva spina

seccato è il gelso bianco.

Prugne ed amarene

storte si mostrano

nel corpo e nel midollo

per frana di muri

geometrie imperfette

su cui svettavano, lari

protettori dei raccolti,

stracci di spaventapasseri.

Su case vuote

si arrampica

l’edera, unica cocciuta

di fissa dimora.

 

Conversa fedele

aspetta in ogni possibile stagione

la ritirata feriale

dell’esercito stanco dell’AIRE.

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Terra mia

A volte

vorrei conoscere nel profondo

la tua epica

insieme storia e leggenda

impulsi di attimi e sorda rassegnazione

di una moderna saga senza fine.

Del tuo diruto castello

un unico bastione solo come me

osserva l’informe rovina

indifferente calpestio di gente

e della sua fatale coscienza.

Altre volte

le tue colpe da espiare

mi sembrano ingiuste condanne

e vorrei a difesa

sciogliere un canto ribelle.

Vorrei stravolgere vecchio e nuovo

combinare l’assurdo in possibile

scuotere l’immobile al dinamico

mescola di verità e pazienza

mentre ti privi delle tue ragioni.

E mi privi

con fare cosciente

o con muta vendetta

d’una reazione, anche istintiva,

d’una qualche speranza

o delle fughe da un sogno

ogni volta che provo

a cercare fra nidi di pietra

schegge di ricordi.

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Refrain

Il tuo cuore

è una porta chiusa

serrata con diverse mandate

sordo ad ogni richiamo.

 

Il tuo cuore

è una gemma fiorita

avanti la giusta stagione,

morto assiderato al primo rigore.

 

Il tuo cuore

è un pendolo al tempo

per rintocchi ordinari

frenetici a qualche sussulto.

 

Il tuo cuore

è il mio cuore,

fa perdere il sonno

sazia il digiuno

 

confonde la mente

colma i silenzi

si scuote improvviso, rallenta

e mi violenta d’ombre e di paure.

 

Il tuo cuore

è un uccello migrante

capace di ali per ogni direzione

per poi ritornare

 

frullante impulsivo ansimante

voglioso all’approccio

attaccarsi a ventosa

con unghie rampicanti.

 

Del tuo cuore

traguardo d’un sogno

ho comprato a rate un miraggio

in mille frammenti da ricomporre.

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Quattro trovieri

Tebaldo di Champagne

cavaliere senza scorta

sollevi polvere di vento

stonata cipria al volto

accecante gli occhi,

insidia e laccio alla presa dello zoccolo.

Su scaglie di pietra/ chiodi di sofferenza/

percorsi di boschi laschi

di mentuccia salvia e cicoria/

selve sperdute dove flessuosa batte

a correggia la spina/

incisione di false stimmate/

sei compagno di solitudine

male di ogni male.

 

Maria di Francia

cortigiana di desiderio

tra strusci di seta e damasco

non vesti la nostra casacca

di pelle e velluto

ma riverita madama

narri a conti e duchi e lor castelli

storie d’amor cortese e di passione.

 

Giovanni di Meung

girovago prestigiatore di altre virtù

hai voce chiara

un canto riverito

che appassiona umili e potenti.

Gilberto di Montreuil

mi appari immagine fissa

nella coperta-mantello

aperta come ali di falco

alle prese del vento.

Corriere fra aspre rocce alpine

infide paludi della Camargue

balze deserte di Costa Azzurra

indugi a raccontar piacevolmente

fole celie e consolanti amori

oltre il bacio e dentro il corpo

nel suo intimo profondo.

 

Sulle strade di Provenza

quattro trovieri

fermarono il tempo/ tavole sbiadite/

quando scelsi questo mestiere di vita.

Per calpestare la cicuta e non vivere.

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Orizzonte

Qui

le uniche verità che conti

in un Vangelo di stanca parola

sono nascere e morire.

Fa meraviglia

il silenzio degli anni

tempo inghiottito dal tempo

che riempie l’enorme vuoto

di stesse cose ripetute

tristemente a noia.

Da qui si parte

non si arriva

e l’orizzonte è un punto fisso

a volte molto lontano

ma pur esso un limite.

Qui

con un dito segni

punti bianchi di case

e filari di paesi assorti nel nulla

con uguali maledette realtà,

mentre invochi altro uguale,

perché i cancelli sono grate di ferro

che lasciano guardare all’infinito

e non evadere, per andare oltre.

Sul monte, esilio da scontare in patria,

con anelli di ferro di cronica indifferenza

di perpetuanti regimi

accettiamo la sfida dei venti

e sappiamo maledire o invocare

la pioggia

per liberarci nel sole.

Qui

ognuno è un margine d’umanità

che si contenta di girare

a vuoto con fisso cammino

nei suoi confini.

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Malakhim

Per rappresentarti

non servono il biondo e l’azzurro

sembianze di tele di chiesa

di rivelazione biblica

o l’umano diversificante sesso

che è malizia di peccato.

Per averti

non mi basta segnare la fronte

e invocare alla destra

la protezione domestica

contro la tentazione

dell’altro fianco demoniaco.

Per assicurarmi

la presenza del divino

nei vuoti depressivi della vita

nella povertà di nuove miserie,

altre schiavitù del mondo,

non mi serve l’atto di dolore.

 

Ho conosciuto

angeli sterminatori

che hanno sepolto la falce

ma parlano doppio

malizie di finto sorriso

pronti a tentare la sfida.

 

Ho ascoltato

la falsa inutile pietà

di teste coronate per sangue

o per mercede di popolo

abili al gioco di mano/ all’intrigo/

al pollice verso.

 

Un angelo custode

alfiere di qualsiasi schiera

Cherubino Trono Dominazione

vorrei conoscere.

Uno soltanto ma vero.

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Corale

Voci.

Umane

come canne d’organo

con tastiere di contrappunti

intonano per aria di mantice/

segni di pentagramma/

litanie e antifone d’antico

nel sacro di chiesa militante.

Solenni,

nell’austerità del rito

eco sommessa d’incerto gregoriano,

consolano l’anima

confusa nel presente

che inquieta supplice alla fede torna.

Festose

alla Parola,

una muta preghiera

di dolore o scorno

non si finge promessa,

non offende il divino

sempre invocato da salmodianti cori,

vibrano per differenza di tocco

tra zaffate d’incenso benedetto.

Lugubri,

come stridere di civette

gravide di malasorte,

ritmano la frequenza del cuore

a struggersi per nulla

e molestano il canto di morte

che promessa di luce risorta

serra la bocca

sul destino degli uomini.

 

Ed io testimone

del mio tempo

a domande incerte

rispondo amen.

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Sensi

Lascia che sia

il mio silenzio

compartimento stagno

a rispondere

ai tuoi comportamenti svagati

quando cerchi complicità e consensi

in collaudate esibizioni.

 

Lascia che sia

il mio tormento

a colmare i tuoi silenzi

fughe di vento nell’urlo lacerante

o spento

come certe discriminanti stagioni

che premiano per niente

e sono carestia al sudore.

 

Lascia che sia

la mia immaginazione

ad averti devota compagna

nella disperante solitudine

nei discorsi imperfetti

nell’antagonismo che segna

essere e divenire.

 

Lascia che sia

la tua voce

suono di magiche parole

a trastullarmi in sognanti chimere

sensazioni struggenti

dimensioni possibili/

grovigli e vortici/

ad ogni promessa del cuore.

 

Lascia che sia

il mio desiderio a convincersi

di risposte dubbie e resistenze

ad inseguire nuvole fuggiasche

testimoni per caso

di un amore/ passione di sensi/

mistero senza più misteri.

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Mediterraneo

Sguardi levantini s’affacciano

con diversità d’animo e di razza

su divisibili sponde materne

e invidiano oasi di benessere

miele senz’api.

Flottiglie di navi e gommoni

esercito disarmato

già arreso alla vita

percorrono nel deserto del mare

disperate suicide avventure

comprate all’urlo mercenario

per disperdersi a sciami

nella terra promessa.

E di essere ributtati a mare

come cosa persa.

Altri lidi

sotto un sole bugiardo

sono vanità di natura

vetrina proibita al misero soldo

e finanche allo sguardo innocente.

Qui i signori della terra

recitano a memoria parole di giustizia

confinando all’incrocio di croci

marciapiedi ed angoli di carità

straccioni rifiuti

cassonetti di ogni fastidio.

Mediterraneo

assommi odi e gemiti di popoli,

isole alla deriva

clandestini vittime sacrificali

subbuglio di rivoluzioni in ritardo

carovane di miserie.

Mediterraneo

sei per contrasto

profumo e frutto di terra

ombelico dell’Eden

serra promiscua

fra gente libera di ogni libertà.

L’Europa dei popoli, civiltà di carta,

matrigna sbuffa al fastidio

di gente campione senza valore

esposta all’ingrosso o al dettaglio

che affolla con occhi di meraviglia

il nuovo mercato degli schiavi.

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Il filo della vita

Mi corre lingua di serpe

un brivido lungo la schiena/

penetra viscido furtivo

come ago sottile dentro le ossa.

E’ scarica elettrica

insolita meraviglia

se la vita mi ripaga

di un qualche favore.

Il viso avvampa senza calore

gli occhi sono lucidi specchi

la parola è acqua di fiume

in fragorosa piena.

Se la morsa dei denti

è frenetico ticchettio

la febbre sale

ascensore di mercurio.

Vaneggio

e l’assurdo mi fa compagnia.

Stranezze di vita:

tempeste e bufere di giorno,

stellata è la notte.

Chi sa cosa succede

quando sul filo corre la morte,

s’innerva nelle arterie/

dedalo di scambi e binari di sangue/

per strozzare i muscoli

archi tesi allo spasimo

per fulminare il cuore?

 

Al punto di non ritorno

la morte conserva a grappoli

i suoi misteri.

Sorda alle grida del mondo

offre gratuiti spettacoli di dolore

ed una muta disperazione.

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Alla guerra

A noi basta il sangue

concime di cento battaglie

per dire basta.

Odio, tarlo e cancrena

per schiavitù di razza,

lievita e incrosta miserie

ruggine di vomeri

coltello per mattanza di buoi.

Malanimo

infesta le semine di loglio

solleva cenere di fame

su focolari spenti.

Svergogna madri

nel sangue e nell’onore

con figli orfani

mai cresciuti abbastanza

col pane di tessera.

 

A noi

tocca ricordare la pietà

commossa nell’intimo dolore

nel silenzio ufficiale di uno squillo

riflesso lucente di qualche lustrino.

I nostri morti

giovani per poco, prigionieri

sfiniti dal tempo finito,

sono fossili di lager

cumuli di fosse comuni

ombre per sempre.

 

Un grido soffocato

all’improvviso amplifica la voce

si spande e rimbalza nell’aria

stordita da refoli di mefite

che semina solchi di mine

bussa a colpi di cannone

e lancia sfide segrete

nel complesso degli atomi.

 

Lo spirito

è un sottile diaframma:

vuole la pace e propone la guerra

poi indossa per anni

strascichi di lutto.

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Diaspore

Specchi di mare, terre digradanti

innalzano trincee di spume e di granito

barriere fra continenti

sotto ghirigori e pustole di cielo

che separa discriminante il giorno

alternanza visibile di luce e tenebre.

Meno distanti per misurati confini

si contano paesi d’Europa

ma pur sempre stranieri

e nell’assurdo d’inflessione di lingua

si scontrano recidivi Nord e Sud

limite di ogni storia,

termine di ogni differenza.

Pozzi scavati nel tempo

conservano la profondità e il vuoto

dove scoccolano tarli masticanti legno

vergogna d’integrità perduta.

Si parte da soli, unica scelta d’arbitrio,

non più con la morte nel cuore

diaspore di famiglie a frotte

quando il viaggio era

quasi sempre un addio

un legame spezzato

come lombrichi

capaci di separarsi la vita

per non morire.

Si emigra ancora

non più disperati e vinti,

sicuri di buscarsi qualcosa

pane di sale

punto fisso di stomaco e ignoranza,

interpreti di lingua e conoscenza

eppure esercito prigioniero senza voce.

Esodi di profezie umane

bugiarde di rivelazioni ed angeli

non portano a spasso miserie

di cafoni o avventurieri

pronti a sfidare le colpe del destino.

Vanno cittadini del mondo

e si adattano in ogni terra

avida di semine spighe e raccolti,

arida di frutti guasti o maturi di niente.

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Un canto ribelle

Se questo parlare,

inflessione di terra

appesa al palo della vergogna

come impiccato

che deve morire

perché qualcuno deve morire,

ti infastidisce,

lascia che tutto affoghi

e sprofondi nel nulla.

Tarli di pece sono mastice

per mani chiuse alla stretta

e anime livide senz’anima.

Se credi

che minaccia di voce

arroganza bugiarda di turno

metta paura alla coscienza

puoi fare il lupo,

ma qui vampata di lupara

non sempre chiude la bocca.

Se pensi

che un drappo

sia pezza straccio d’infamia

rosso di vergogna

verde di collera

e bianco di resa

conta quanti morti

sono cenere di focolai spenti

nell’odiato malvagio Sud

pacco grigioverde nel tricolore stinto

per un ideale strappato

ad una patria di nome

dimentica poi, insolente da sempre.

Se pensi

che l’insulto e l’esclusività di razza

alitino creta in un mondo migliore,

replica banditore di piazza

grandine e tempesta di giambi

concime di rovi

epiloghi e farse d’umanità.

Ma quest’Italia

grani spezzati di rosari nei suoi misteri

ha suffragi di vergogne ed inganni

collezione di morte parole

da farsi perdonare.

Diversità di voci ed echi

è antro fumoso di Sibilla

perfida a sciogliere responsi ed enigmi/

arcani di nessun mistero.

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Via Crucis

Come mi pesa

Venerdì Santo

un tempo forzato digiuno

ma piccolo sacrificio

per un sacrificio di croce.

Alle campane “legate” nel “sonno”

s’arrotolavano le funi sulle stanghe,

come in un silenzio di morte.

Le raganelle imitavano

a scariche

fragore di terremoto

che qui senza simulazione

eresse un nuovo Calvario

di croci innocenti

ufficialmente scordate da tempo.

 

File di lanterne

contavano eredità di confraternita

litigate presto la mattina

per vacanza di scuola.

Lucciole votive

illuminavano vicoli di caligine

fra pietre sconnesse consumate dagli anni.

Nella complicità del buio

ognuno confessava a mezza voce

peccati e miserie di Passione

bestemmie di povertà e sudore di sangue

di discendenze ab aeterno

supplici cori al mistero del perdono.

Quel rito non sconta più affanni.

Si mostra stanca liturgia

alleanza d’una promessa che tarda

dispersa nella tesa degli argani

tra fumi e balsamo di olibano

del Cristo che squarcia le tenebre.

Pasqua è voce rotta stonata

un richiamo lontano senz’eco

una memoria sbiadita di cose

stanca di prove scarica di corda.

E’ un giorno vecchio che più non ritorna

è il nuovo incerto che manca alla speranza.

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Sentieri

Quale bussola

segnerà il cammino

puntando l’ago sempre a nord,

se poi ci si perde per strada?

Quali verità

rivelate o rivoluzionarie

confortano lo sbando

di un’attesa che nell’assurdo dura?

Generazioni di provata pazienza

aspettano il turno

a portare il testimone

per il tratto che spetta

nell’incerta corsa

dove l’ordine d’arrivo

è destino prima di partire.

Nascere senza affanni

perdersi tra ripidi sentieri

sprofondare nel deserto.

“Mondo è stato e mondo sarà”

recita l’adagio saputo

antica rassegnazione

di chi corre scalzo

ma sgomita per litigarsi la resa.

A che serve la vita

pegno di guerra che ruba il sonno

mercato di lavoro nero

che ancora separa

ingrossando liste di nomi

figli di famiglia a trent’anni

a balia di pensionati che durano?

Quando l’anima

è figlia di nessuno

sfida se stessa nell’inferno

di terra,

anticipo o fine di pena

per voli che si schiantano

ad ali chiuse nel vuoto.

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Miraggi

Ad occhi chiusi

la realtà svanisce

e provvida illusione

ti accompagna a misura

nel gratuito giro del mondo.

Virtù effimera

all’istante è materia,

freme l’impulso

a giustizia/ a vendetta

finanche al perdono.

Immagini si rincorrono,

sequenze di fotogrammi

incidono scale d’iride o incolori:

gradazioni di verde d’Amazzonia

sculture di ghiacciai eterni

mondi stellari punti luce all’infinito

misteri del Tibet o dell’India

amori proibiti nella carne

un segno di croce in preghiera.

Panta rèi rivela il flusso del tempo.

Le emozioni s’inseguono a frotte

e costano il prezzo di un miraggio.

Basta muovere le ciglia

cortocircuito per rompere

l’ingenuo umano sortilegio

che l’ordinario soffoca

come pietra al collo.

Ad occhi aperti

libertà di fantasia

aspetta nella complicità delle palpebre

l’adozione di un sogno.

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Oltre le parole

Provo ad ascoltare

con orecchio teso

somme di bugie e verità

e non distrarmi.

Cerco di prestar fede

a parole di pentimento

spergiure su inutili santi

ambigue di capricci e virtù

fili spezzati

e riannodati con cura.

 

Trame di ragnatele

sono esili trappole

che si spezzano

al primo atto di forza

flaccidi filamenti

che impiastrano le mani.

Ecco la tua fragilità di donna!

 

Desiderio di parole vere

inseguono promesse e distanze

e mi fanno cercare in silenzio

come ti vorrei,

libero da voci e rumori

nelle chiare notti di luna.

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Cicale umane

Voce sicura possente

s’affida a tutela

sul carro/ teatro ambulante/ di Tespi.

Occhi spenti da sempre

mani sensitive per tremore di anni

scrutano labirinti di tenebre

fondali distanti secoli di storia

e di storie minime

che nel ricordo scampano all’oblio.

E noi voce arrochita

diversamente ciechi alla luce

straniti da ridondanze di miti

promiscuità di numi e di eroi

ripetiamo con incerto mestiere

l’avvenire dei giorni a noi prossimi

in cui amore vita morte

ed anima immortale

si rincorrono

fragili essenze del tempo.

Fa differenza la voce.

E la forza di guardare dentro

il buio, la vita ed oltre.

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Terzo millennio

Corriamo

viavai di formiche

folle metropolitane

ognuna col suo carico

bisaccia di tempi moderni.

Come macchine

a scandire i tempi

delle macchine

scontiamo il progresso

enfasi di civiltà globale

con parabole laiche

grafici di filiani di Plutone.

L’anima è soffio levigato al tornio

incastro di bulloni

morsa di presse rulli e frese;

variopinta di tossica vernice

si squaglia neve in altoforno.

Alla natura

restituiamo scorie d’umanità

impasti di cielo e terra

che si raccontano

 rondini pigre al sole

meraviglie di terre lontane

nidiate disperse

e la stanchezza degli anni nelle ali.

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Essere

Essere

aedo di antiche leggende

vate patriarca dell’anima

rapsodo come uno zingaro

profeta fino alla predizione

troviero di parola d’oil

trovatore di parlata d’oc

cantore cortese meistersinger

giullare e per contrasto un demone

menestrello moderno Mistral

cantastorie affabulatore di piazza

rimatore di razos/ di provato mestiere/

bardo che vibra la crotta

giocoliere abile all’incanto

poeta acchiappanuvoli che impasta

parole sensi e soffi dello spirito/

libere fantasie/ al verso/ vive.

Essere voce nel silenzio.

 

Da sempre

Calliope Erato Euterpe Urania

vi dividete in quattro

varietà di poesia

che sfronda ogni confine

nella libertà di mente

cui spetta intendere

il senso della vita.

Per continuare ad essere.

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