RACCOLTA “DIGRESSIONI DI UN AEDO” INDICE:
Prefazione di Lia Fava Guzzetta Un tributo alla
poesia... di Bianca Mastrominico |
La
Raccolta poetica di Giuseppe Iuliano rivela fin da subito nello
spazio paratestuale del titolo, e quindi in posizione anche
esponenziale, un orizzonte autoriflessivo, destinato a riproporsi
variamente nei diversi componimenti, tanto che, a lettura ultimata, il
lettore stesso si ritrova coinvolto in una pensosità interrogante che
riguarda proprio il ruolo del poeta nel mondo. Viene investito in pieno
il senso del poetare nella modernità dell’oggi, in questa Storia
degradata che sempre più, potremmo dire leopardianamente, perde il
contatto con la Natura e con le Illusioni. Poesia dunque come
interrogazione e come nostalgia di un mondo più armonico e più umano,
nel quale la fantasia e il libero canto abbiano diritto di cittadinanza
e di vita, e nel quale la poesia possa realmente creare le condizioni
per “conoscere i sogni”. |
Lia Fava Guzzetta |
Incipit
Alla virtù delle Moire mistero di verità oltre l’Olimpo malvagio capriccio di una scommessa del destino affido pegno di vita questi miei anni. Polloni e gemme avventizie di acerba primavera contavano giorni amari le prime sofferte rinunce incanto di sole e di neve nella forza del vento che solleva a sussulti il corpo-aliante. Era un mondo di poveri. S’allungavano serpi di radica e rami per sollevare la terra gravida ed inalberarsi a ideali di giusta follia sacra religione poi morta al primo compromesso ma convincente più di ogni altra ragione. Tanti i sassi duri rimasti nel cuore senza sgretolarsi. Ecco le altre stagioni a seguire la vita, somme di tempo nel tempo che m’appartiene a frammenti e mi svena la resistenza nella poca incerta fede. Immaginazione
Essere poeta senza serti di ulivo né segni di gloria umane lusinghe vanesie/ Libero di evadere e di sciogliere il canto/ è vivere l’illusione. E conoscere i sogni. Fantasia sei conforto al qualunque quando avvampi il furore del giorno prodigo di torti e assecondi agli umori istinti pazienza e virtù scelte mute o ribelli alla convenienza del tempo. Sei manto di neve ad ogni lingua di fuoco, nascondi il verde la terra la linfa immortale da sempre generatrice di vita. Così mi consumi in lacrime di cera e riempi di terraglia i vuoti dell’anima. Paese
Lasciatemi andar via! Troppe volte ho gridato con voce maledetta, lasciatemi fuggire. Qui c’è aria stagnante. L’immensa cupola del cielo non lascia respirare. Tanta luce all’estraneo gratuita poesia miracolo d’inebriante natura acceca e non illumina e agli occhi confusi/ trincee di palpebre/ aggiunge altro buio. Questi monti mi spiano in soggiorno obbligato dimentichi del vecchio abbandono e con la loro pesantezza sfibrano insolenti la stanca monotona esistenza. Non parlate di ricordi per farmi restare! Il silenzio dei più incoraggia la fuga di chi confinato vorrebbe varcare la soglia per provare la sorte. Lasciate che io pianga altrove i miei morti, mai “prodigo” d’un ritorno per l’estremo segno di croce, la pietà di chiudere gli occhi e la bocca. Lasciatemi vivere di ricordi. Ma lasciatemi vivere. La
mia leggenda
Aedo sfiacchito su strade e sentieri/ nastri bianchi sottili per cruna d’ago di selce e polvere o impiastri di creta/ percorro segmenti di Grecia. Estraneo alle corti ho mani ed orecchi incapaci ad accordare la cetra e la lira per fare melodia. Approssimo l’arte cocciuto apprendista di un maestro cantore senza licenza stretto di borsa al tintinnio del soldo. E provo con fiato sommesso ad imitare la voce ispirazione divina di Femio araldo mai complice di creste e morioni dei Proci gelosi nelle voglie d ella virtù di Penelope. Mi trastullo senza malizie nuovo Odisseo indifferente ad ogni dio e naufrago alzo squarci di vela. Ma ci sarà una mia Itaca? Sandali di gomma/ modelli di griffe/ non trovano l’equilibrio tra ciottoli sparsi a cumulo mentre fatico con ali di farfalla a sopportare le mie metamorfosi. Antitesi
Domina irraggiungibile come una Madonna non sei Czestochowa. Sogni la lauda cortigiana di fiabe inseguendo prima troni poi cadetti referenti del nobile blu in un mondo dove il sangue è eternamente rosso da concimare le zolle del Golgota. Ballate canzoni e lasse evocano la chanson
de geste Romanzo della Rosa di prodi cavalieri senza macchia per te sacramento di fede negli anni e fino alla morte. Viados e farfalle di colore formiche operaie della notte riempiono sterili rassegnate tane e saziano nell’ansimo i digiuni. Frammenti scarti d’umanità pret à porter d’amore alla luce di scrutanti fanali aiutano gli occhi ed ogni senso a recuperare il sogno con poco prezzo. Su animali in pennacchi a fiera per striglia di sterco sensali esattori ruffiani fissano il patto. E’ il loro codice d’onore. Naufrago
Vate con esperienze di mondo, faville d’incandescenza o fredda lava calco e coagulo del tempo, racconto le mie invenzioni. Concerto rapsodie rusticane di terra insolente ed insonne, isola per nuovi approdi ma sempre isola. Qui ho fissato l’ancora. Il chiarore è luce solare d’inebriante natura. L’oscuro spesso è mistero degli uomini oltre la stessa matrigna natura. Innocenza è il grido di vita soffocato al tramonto per il giorno che muore. Il rosso, illusione di un’idea, è un fiore secco orfano in poche stagioni di ogni profumo e colore. A nuove albe rimando in eterne riparazioni i miei esami. Gott
mitt uns
Un coro di lamenti soffoca verbi di morte foglie secche stipate o sparse dal vento dell’abisso. Alberi ramagliati e curvi lacerti di sevizie larve appiattite condominio di pidocchi, invocate nella liberante disperazione la fine. Ogni fine con o senza squillo di tromba del Giudizio. L’eco delle tenebre, oggi ragnatele squarciate, rompe i silenzi insegue le colpe uncinate ed accompagna pellegrini del mondo al sangue innocente rappreso su scarde malate di pietà. Treblinka, Dachau, Auschwitz siete la vergogna del mondo caina specie eletta nell’odio padrone di Sion. Incarnate, per intervallo di umori, ogni maschera-sembianza anche chi alla vita affidò attimi d’amore semi più duri della pietra concimi i fiocchi artificiali polvere di ciminiera. In una fossa comune è sprofondato il Golgota senza uno straccio di sudario con vermi nudi tra vermi di terra. La voce si secca rintrona il silenzio immenso lugubre e schioda assi di una croce che sembrava l’unica eterna maledizione. Cantastorie
Troviero, con la mandola a tracolla oggetto del mestiere che conta scorticature di noia con punta di coltello, sono cittadino del mondo. Al repertorio di piazza programma sempre uguale accordo giochi di memoria in voce e suoni/ chiavi d’armonia/ per stornelli di cieca protesta. Potenti prepotenti cacciatori d’affari sanno irretire a frodo gente e lor pari. Papaveri di ogni terra/ semenza di stravizi/ capitano/ ipnosi del soldo/ donne di sola bellezza da sempre vera virtù nella conta dell’uomo. Perfidi all’occasione mostrano sorrisi bavosi e misurate catene come i loro cani. Quando l’amore vince e il turpe sprofonda nel nulla la storia è contro la storia. Come vorrei cancellare certe pagine ed imparare altre partiture! Canterei nuove canzoni. Eredità
Rondine non ho lasciato all’avidità del tempo e alla sorda natura arbitri di rassegnazione le mie stagioni. Le ho ipotecate per cambiali scadute non truffando, ma truffato dall’ingenuo sogno ingannatore conoscitore del morbo del gioco della verità dei tarocchi della sfera magica, per veggenza di illusioni. Ho visto partire le gru e gli altri migratori stormi gracchianti nel cielo pattuglie acrobatiche per assicurarsi l’inverno. Pagliuzze e fuscelli misture d’impasto non sbarrano il freddo e i suoi stupri violenza di morta natura al fissato destino. Un giudice presbitero della spada di Temi borbottando codici ha messo all’asta un nido vuoto e la ruvida lisa livrea. Vaticinio
Pellegrino con tascapane di pietra e ciotola di mani tra semafori di stelle lucciole di ogni stagione non cerco l’umiltà salvifica del saio o la piaga espiante del cilicio né giuramento di spada crociato di Terra Santa. Inseguo, unico tormento sfibrato da essenza di atrabile, la mia Melisanda rapito da desiderio d’amore confuso ingrato intrigante che libertà, curva di cielo finito, guarda all’infinito e mi costringe a vivere e morire ad ogni mia scelta. Smessa l’armatura vergogna di divorante ruggine sfido l’incerta sorte mare deserto di ogni vento per approdare a Tripoli e morire tra le sue braccia come Jaufrè Rudel! Questa storia minima poesia di un tempo della vita insistente umana inquietudine forse comune salvezza, ma senza certezza di eterno, non sarà mai leggenda. Questa follia di sensi misura di sale dei giorni e dei suoi digiuni gonfia scirocco di sospiri e brividi/ spesso senza preavviso. Lievita magma/ intreccio di pensieri/ specchio di immagini e riflessi in luce d’argento che immaginifico stupore mi convince a credere in un complice silenzio. Anima
di creta
Non mi consola l’arte mosaico di parole scontate o nuove per mastice di conio né mi convince l’arcano in mistica lievitazione. Impasto di lingua farnetica al moderno e fissa a sua immagine, generando morta poesia orfano cicaleccio prigioniero esaltante il nulla. Varietà di codice è frontiera martella e trasforma in nuova inquisizione libertà di voce. Non sola la mia. Caporabballo
Un motivo fisso invasante tiritera vecchio come questo paese s’attacca addosso spira di calamita e ti accompagna sfrenato nel vortice di una danza senza fine. Schiocco di dita e pugni di castagnole segnano il ritmo, geme il clarino cornuto romba a salve il tamburello e l’organetto si gonfia partorisce suoni. Maschere in fila processione d’invisibile sesso che si sfiorano al desiderio si piegano e si torcono morse da magica tarantola. Passi di marcia trotterellante ordini di sottostare al mazziere caporabballo(*) ungono d’afro sudore il corpo che freme profano e lievita carne e spirito in liberanti urli di lupi, fierezza di stirpe. Maschere avverano il sogno per un sol giorno e si dividono il resto dell’anno in morte quaresime, opprimenti stanche monotone stagioni e le facce scoperte degli uomini accecate dal sole. (*)
caporabballo: è la maschera
guida del Carnevale di Montemarano, molto simile a quella di Pulcinella.
Strofe
Guascone quasi bohemien ho addomesticato i giorni con frusta di vento e schiuma secca alla bocca che raschiava la gola al trattenuto respiro. Un orcio a lunghe sorsate un otre avvizzito spremuto da solo o con altre lingue riarse era conforto al viaggio senza fine. Con Marcabruno e Cercamondo ho sfidato i confini della parola, sillabe accenti il verso compiacente fino al plagio e alla maledizione. Trobar clus fu il nostro cantar sintesi di parole e suoni in vera libertà, talora coltello appuntito accecante come specchio riflesso. Fu voce di forgia e di lima capace di brillare per mancata giustizia o di sfigurare con lingua affilata sciabola di menzogna senza scannar alcuno e cacciargli un grumo di sangue. Anche l’amore fu licenza vita e anima senza espiazione corpo e sesso in attrazione sempre pronti a sfregarsi e a ridurre gli attriti per ritrovarsi insieme come palme chiuse a misura. La parola il coltello l’amore sono ragioni del ventre nel ciclo dei tempi e fiale di linfa che intrecciano rami o si spezzano. Salvastrella
Appassita è la vigna ara votiva degli avi benedetta da zolfo e verderame ora malata e lebbrosa di tigna. Mele scarfate annurche o cotogne pere butire sorbe amare e selvatiche disertano l’orgoglio dei campi selvaggi e sterili per mancati generanti innesti. Ortiche ed erbe invasive barbare alla terra hanno in seminato l’orto congedando sentinelle di canne che segnavano ordinati filari in divisoria mostra come pietre miliari. Distese o forre incolte sono consistenti macchie di verde. Morta è l’uva spina seccato è il gelso bianco. Prugne ed amarene storte si mostrano nel corpo e nel midollo per frana di muri geometrie imperfette su cui svettavano, lari protettori dei raccolti, stracci di spaventapasseri. Su case vuote si arrampica l’edera, unica cocciuta di fissa dimora. Conversa fedele aspetta in ogni possibile stagione la ritirata feriale dell’esercito stanco dell’AIRE. Terra
mia
A volte vorrei conoscere nel profondo la tua epica insieme storia e leggenda impulsi di attimi e sorda rassegnazione di una moderna saga senza fine. Del tuo diruto castello un unico bastione solo come me osserva l’informe rovina indifferente calpestio di gente e della sua fatale coscienza. Altre volte le tue colpe da espiare mi sembrano ingiuste condanne e vorrei a difesa sciogliere un canto ribelle. Vorrei stravolgere vecchio e nuovo combinare l’assurdo in possibile scuotere l’immobile al dinamico mescola di verità e pazienza mentre ti privi delle tue ragioni. E mi privi con fare cosciente o con muta vendetta d’una reazione, anche istintiva, d’una qualche speranza o delle fughe da un sogno ogni volta che provo a cercare fra nidi di pietra schegge di ricordi. Refrain
Il tuo cuore è una porta chiusa serrata con diverse mandate sordo ad ogni richiamo. Il tuo cuore è una gemma fiorita avanti la giusta stagione, morto assiderato al primo rigore. Il tuo cuore è un pendolo al tempo per rintocchi ordinari frenetici a qualche sussulto. Il tuo cuore è il mio cuore, fa perdere il sonno sazia il digiuno confonde la mente colma i silenzi si scuote improvviso, rallenta e mi violenta d’ombre e di paure. Il tuo cuore è un uccello migrante capace di ali per ogni direzione per poi ritornare frullante impulsivo ansimante voglioso all’approccio attaccarsi a ventosa con unghie rampicanti. Del tuo cuore traguardo d’un sogno ho comprato a rate un miraggio in mille frammenti da ricomporre. Quattro
trovieri
Tebaldo di Champagne cavaliere senza scorta sollevi polvere di vento stonata cipria al volto accecante gli occhi, insidia e laccio alla presa dello zoccolo. Su scaglie di pietra/ chiodi di sofferenza/ percorsi di boschi laschi di mentuccia salvia e cicoria/ selve sperdute dove flessuosa batte a correggia la spina/ incisione di false stimmate/ sei compagno di solitudine male di ogni male. Maria di Francia cortigiana di desiderio tra strusci di seta e damasco non vesti la nostra casacca di pelle e velluto ma riverita madama narri a conti e duchi e lor castelli storie d’amor cortese e di passione. Giovanni di Meung girovago prestigiatore di altre virtù hai voce chiara un canto riverito che appassiona umili e potenti. Gilberto di Montreuil mi appari immagine fissa nella coperta-mantello aperta come ali di falco alle prese del vento. Corriere fra aspre rocce alpine infide paludi della Camargue balze deserte di Costa Azzurra indugi a raccontar piacevolmente fole celie e consolanti amori oltre il bacio e dentro il corpo nel suo intimo profondo. Sulle strade di Provenza quattro trovieri fermarono il tempo/ tavole sbiadite/ quando scelsi questo mestiere di vita. Per calpestare la cicuta e non vivere. Orizzonte
Qui le uniche verità che conti in un Vangelo di stanca parola sono nascere e morire. Fa meraviglia il silenzio degli anni tempo inghiottito dal tempo che riempie l’enorme vuoto di stesse cose ripetute tristemente a noia. Da qui si parte non si arriva e l’orizzonte è un punto fisso a volte molto lontano ma pur esso un limite. Qui con un dito segni punti bianchi di case e filari di paesi assorti nel nulla con uguali maledette realtà, mentre invochi altro uguale, perché i cancelli sono grate di ferro che lasciano guardare all’infinito e non evadere, per andare oltre. Sul monte, esilio da scontare in patria, con anelli di ferro di cronica indifferenza di perpetuanti regimi accettiamo la sfida dei venti e sappiamo maledire o invocare la pioggia per liberarci nel sole. Qui ognuno è un margine d’umanità che si contenta di girare a vuoto con fisso cammino nei suoi confini. Malakhim
Per rappresentarti non servono il biondo e l’azzurro sembianze di tele di chiesa di rivelazione biblica o l’umano diversificante sesso che è malizia di peccato. Per averti non mi basta segnare la fronte e invocare alla destra la protezione domestica contro la tentazione dell’altro fianco demoniaco. Per assicurarmi la presenza del divino nei vuoti depressivi della vita nella povertà di nuove miserie, altre schiavitù del mondo, non mi serve l’atto di dolore. Ho conosciuto angeli sterminatori che hanno sepolto la falce ma parlano doppio malizie di finto sorriso pronti a tentare la sfida. Ho ascoltato la falsa inutile pietà di teste coronate per sangue o per mercede di popolo abili al gioco di mano/ all’intrigo/ al pollice verso. Un angelo custode alfiere di qualsiasi schiera Cherubino Trono Dominazione vorrei conoscere. Uno soltanto ma vero. Corale
Voci. Umane come canne d’organo con tastiere di contrappunti intonano per aria di mantice/ segni di pentagramma/ litanie e antifone d’antico nel sacro di chiesa militante. Solenni, nell’austerità del rito eco sommessa d’incerto gregoriano, consolano l’anima confusa nel presente che inquieta supplice alla fede torna. Festose alla Parola, una muta preghiera di dolore o scorno non si finge promessa, non offende il divino sempre invocato da salmodianti cori, vibrano per differenza di tocco tra zaffate d’incenso benedetto. Lugubri, come stridere di civette gravide di malasorte, ritmano la frequenza del cuore a struggersi per nulla e molestano il canto di morte che promessa di luce risorta serra la bocca sul destino degli uomini. Ed io testimone del mio tempo a domande incerte rispondo amen. Sensi
Lascia che sia il mio silenzio compartimento stagno a rispondere ai tuoi comportamenti svagati quando cerchi complicità e consensi in collaudate esibizioni. Lascia che sia il mio tormento a colmare i tuoi silenzi fughe di vento nell’urlo lacerante o spento come certe discriminanti stagioni che premiano per niente e sono carestia al sudore. Lascia che sia la mia immaginazione ad averti devota compagna nella disperante solitudine nei discorsi imperfetti nell’antagonismo che segna essere e divenire. Lascia che sia la tua voce suono di magiche parole a trastullarmi in sognanti chimere sensazioni struggenti dimensioni possibili/ grovigli e vortici/ ad ogni promessa del cuore. Lascia che sia il mio desiderio a convincersi di risposte dubbie e resistenze ad inseguire nuvole fuggiasche testimoni per caso di un amore/ passione di sensi/ mistero senza più misteri. Mediterraneo
Sguardi levantini s’affacciano con diversità d’animo e di razza su divisibili sponde materne e invidiano oasi di benessere miele senz’api. Flottiglie di navi e gommoni esercito disarmato già arreso alla vita percorrono nel deserto del mare disperate suicide avventure comprate all’urlo mercenario per disperdersi a sciami nella terra promessa. E di essere ributtati a mare come cosa persa. Altri lidi sotto un sole bugiardo sono vanità di natura vetrina proibita al misero soldo e finanche allo sguardo innocente. Qui i signori della terra recitano a memoria parole di giustizia confinando all’incrocio di croci marciapiedi ed angoli di carità straccioni rifiuti cassonetti di ogni fastidio. Mediterraneo assommi odi e gemiti di popoli, isole alla deriva clandestini vittime sacrificali subbuglio di rivoluzioni in ritardo carovane di miserie. Mediterraneo sei per contrasto profumo e frutto di terra ombelico dell’Eden serra promiscua fra gente libera di ogni libertà. L’Europa dei popoli, civiltà di carta, matrigna sbuffa al fastidio di gente campione senza valore esposta all’ingrosso o al dettaglio che affolla con occhi di meraviglia il nuovo mercato degli schiavi. Il
filo della vita
Mi corre lingua di serpe un brivido lungo la schiena/ penetra viscido furtivo come ago sottile dentro le ossa. E’ scarica elettrica insolita meraviglia se la vita mi ripaga di un qualche favore. Il viso avvampa senza calore gli occhi sono lucidi specchi la parola è acqua di fiume in fragorosa piena. Se la morsa dei denti è frenetico ticchettio la febbre sale ascensore di mercurio. Vaneggio e l’assurdo mi fa compagnia. Stranezze di vita: tempeste e bufere di giorno, stellata è la notte. Chi sa cosa succede quando sul filo corre la morte, s’innerva nelle arterie/ dedalo di scambi e binari di sangue/ per strozzare i muscoli archi tesi allo spasimo per fulminare il cuore? Al punto di non ritorno la morte conserva a grappoli i suoi misteri. Sorda alle grida del mondo offre gratuiti spettacoli di dolore ed una muta disperazione. Alla
guerra
A noi basta il sangue concime di cento battaglie per dire basta. Odio, tarlo e cancrena per schiavitù di razza, lievita e incrosta miserie ruggine di vomeri coltello per mattanza di buoi. Malanimo infesta le semine di loglio solleva cenere di fame su focolari spenti. Svergogna madri nel sangue e nell’onore con figli orfani mai cresciuti abbastanza col pane di tessera. A noi tocca ricordare la pietà commossa nell’intimo dolore nel silenzio ufficiale di uno squillo riflesso lucente di qualche lustrino. I nostri morti giovani per poco, prigionieri sfiniti dal tempo finito, sono fossili di lager cumuli di fosse comuni ombre per sempre. Un grido soffocato all’improvviso amplifica la voce si spande e rimbalza nell’aria stordita da refoli di mefite che semina solchi di mine bussa a colpi di cannone e lancia sfide segrete nel complesso degli atomi. Lo spirito è un sottile diaframma: vuole la pace e propone la guerra poi indossa per anni strascichi di lutto. Diaspore
Specchi di mare, terre digradanti innalzano trincee di spume e di granito barriere fra continenti sotto ghirigori e pustole di cielo che separa discriminante il giorno alternanza visibile di luce e tenebre. Meno distanti per misurati confini si contano paesi d’Europa ma pur sempre stranieri e nell’assurdo d’inflessione di lingua si scontrano recidivi Nord e Sud limite di ogni storia, termine di ogni differenza. Pozzi scavati nel tempo conservano la profondità e il vuoto dove scoccolano tarli masticanti legno vergogna d’integrità perduta. Si parte da soli, unica scelta d’arbitrio, non più con la morte nel cuore diaspore di famiglie a frotte quando il viaggio era quasi sempre un addio un legame spezzato come lombrichi capaci di separarsi la vita per non morire. Si emigra ancora non più disperati e vinti, sicuri di buscarsi qualcosa pane di sale punto fisso di stomaco e ignoranza, interpreti di lingua e conoscenza eppure esercito prigioniero senza voce. Esodi di profezie umane bugiarde di rivelazioni ed angeli non portano a spasso miserie di cafoni o avventurieri pronti a sfidare le colpe del destino. Vanno cittadini del mondo e si adattano in ogni terra avida di semine spighe e raccolti, arida di frutti guasti o maturi di niente. Un
canto ribelle
Se questo parlare, inflessione di terra appesa al palo della vergogna come impiccato che deve morire perché qualcuno deve morire, ti infastidisce, lascia che tutto affoghi e sprofondi nel nulla. Tarli di pece sono mastice per mani chiuse alla stretta e anime livide senz’anima. Se credi che minaccia di voce arroganza bugiarda di turno metta paura alla coscienza puoi fare il lupo, ma qui vampata di lupara non sempre chiude la bocca. Se pensi che un drappo sia pezza straccio d’infamia rosso di vergogna verde di collera e bianco di resa conta quanti morti sono cenere di focolai spenti nell’odiato malvagio Sud pacco grigioverde nel tricolore stinto per un ideale strappato ad una patria di nome dimentica poi, insolente da sempre. Se pensi che l’insulto e l’esclusività di razza alitino creta in un mondo migliore, replica banditore di piazza grandine e tempesta di giambi concime di rovi epiloghi e farse d’umanità. Ma quest’Italia grani spezzati di rosari nei suoi misteri ha suffragi di vergogne ed inganni collezione di morte parole da farsi perdonare. Diversità di voci ed echi è antro fumoso di Sibilla perfida a sciogliere responsi ed enigmi/ arcani di nessun mistero. Via
Crucis
Come mi pesa Venerdì Santo un tempo forzato digiuno ma piccolo sacrificio per un sacrificio di croce. Alle campane “legate” nel “sonno” s’arrotolavano le funi sulle stanghe, come in un silenzio di morte. Le raganelle imitavano a scariche fragore di terremoto che qui senza simulazione eresse un nuovo Calvario di croci innocenti ufficialmente scordate da tempo. File di lanterne contavano eredità di confraternita litigate presto la mattina per vacanza di scuola. Lucciole votive illuminavano vicoli di caligine fra pietre sconnesse consumate dagli anni. Nella complicità del buio ognuno confessava a mezza voce peccati e miserie di Passione bestemmie di povertà e sudore di sangue di discendenze ab aeterno supplici cori al mistero del perdono. Quel rito non sconta più affanni. Si mostra stanca liturgia alleanza d’una promessa che tarda dispersa nella tesa degli argani tra fumi e balsamo di olibano del Cristo che squarcia le tenebre. Pasqua è voce rotta stonata un richiamo lontano senz’eco una memoria sbiadita di cose stanca di prove scarica di corda. E’ un giorno vecchio che più non ritorna è il nuovo incerto che manca alla speranza. Sentieri
Quale bussola segnerà il cammino puntando l’ago sempre a nord, se poi ci si perde per strada? Quali verità rivelate o rivoluzionarie confortano lo sbando di un’attesa che nell’assurdo dura? Generazioni di provata pazienza aspettano il turno a portare il testimone per il tratto che spetta nell’incerta corsa dove l’ordine d’arrivo è destino prima di partire. Nascere senza affanni perdersi tra ripidi sentieri sprofondare nel deserto. “Mondo è stato e mondo sarà” recita l’adagio saputo antica rassegnazione di chi corre scalzo ma sgomita per litigarsi la resa. A che serve la vita pegno di guerra che ruba il sonno mercato di lavoro nero che ancora separa ingrossando liste di nomi figli di famiglia a trent’anni a balia di pensionati che durano? Quando l’anima è figlia di nessuno sfida se stessa nell’inferno di terra, anticipo o fine di pena per voli che si schiantano ad ali chiuse nel vuoto. Miraggi
Ad occhi chiusi la realtà svanisce e provvida illusione ti accompagna a misura nel gratuito giro del mondo. Virtù effimera all’istante è materia, freme l’impulso a giustizia/ a vendetta finanche al perdono. Immagini si rincorrono, sequenze di fotogrammi incidono scale d’iride o incolori: gradazioni di verde d’Amazzonia sculture di ghiacciai eterni mondi stellari punti luce all’infinito misteri del Tibet o dell’India amori proibiti nella carne un segno di croce in preghiera. Panta rèi rivela il flusso del tempo. Le emozioni s’inseguono a frotte e costano il prezzo di un miraggio. Basta muovere le ciglia cortocircuito per rompere l’ingenuo umano sortilegio che l’ordinario soffoca come pietra al collo. Ad occhi aperti libertà di fantasia aspetta nella complicità delle palpebre l’adozione di un sogno. Oltre
le parole
Provo ad ascoltare con orecchio teso somme di bugie e verità e non distrarmi. Cerco di prestar fede a parole di pentimento spergiure su inutili santi ambigue di capricci e virtù fili spezzati e riannodati con cura. Trame di ragnatele sono esili trappole che si spezzano al primo atto di forza flaccidi filamenti che impiastrano le mani. Ecco la tua fragilità di donna! Desiderio di parole vere inseguono promesse e distanze e mi fanno cercare in silenzio come ti vorrei, libero da voci e rumori nelle chiare notti di luna. Cicale
umane
Voce sicura possente s’affida a tutela sul carro/ teatro ambulante/ di Tespi. Occhi spenti da sempre mani sensitive per tremore di anni scrutano labirinti di tenebre fondali distanti secoli di storia e di storie minime che nel ricordo scampano all’oblio. E noi voce arrochita diversamente ciechi alla luce straniti da ridondanze di miti promiscuità di numi e di eroi ripetiamo con incerto mestiere l’avvenire dei giorni a noi prossimi in cui amore vita morte ed anima immortale si rincorrono fragili essenze del tempo. Fa differenza la voce. E la forza di guardare dentro il buio, la vita ed oltre. Terzo
millennio
Corriamo viavai di formiche folle metropolitane ognuna col suo carico bisaccia di tempi moderni. Come macchine a scandire i tempi delle macchine scontiamo il progresso enfasi di civiltà globale con parabole laiche grafici di filiani di Plutone. L’anima è soffio levigato al tornio incastro di bulloni morsa di presse rulli e frese; variopinta di tossica vernice si squaglia neve in altoforno. Alla natura restituiamo scorie d’umanità impasti di cielo e terra che si raccontano rondini pigre al sole meraviglie di terre lontane nidiate disperse e la stanchezza degli anni nelle ali. Essere
Essere aedo di antiche leggende vate patriarca dell’anima rapsodo come uno zingaro profeta fino alla predizione troviero di parola d’oil trovatore di parlata d’oc cantore cortese meistersinger giullare e per contrasto un demone menestrello moderno Mistral cantastorie affabulatore di piazza rimatore di razos/ di provato mestiere/ bardo che vibra la crotta giocoliere abile all’incanto poeta acchiappanuvoli che impasta parole sensi e soffi dello spirito/ libere fantasie/ al verso/ vive. Essere voce nel silenzio. Da sempre Calliope Erato Euterpe Urania vi dividete in quattro varietà di poesia che sfronda ogni confine nella libertà di mente cui spetta intendere il senso della vita. Per continuare ad essere. |