RACCOLTA “IL SUD NON E’ FORSE…” INDICE PRESENTAZIONE di Pasquale Martiniello PREFAZIONE di Vincenzo Napolillo
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La realtà sociale irpina, nuda e cruda, a livello di contesto poetico attuale, elusa sempre o di scorcio graffiata appena, per scarso senso del concreto e per servile imitazione e deferenza ai santi modelli, per il solito concetto edonistico o salottiero della lirica, trova in Giuseppe Iuliano, poeta degli operai, dei contadini, degli emarginati e dei disoccupati, il suo più autentico, incisivo e fedele interprete. Il giovane poeta nuscano con un audace e salutare colpo di spugna scrosta, sgomita e scalcia la falsa anima di una decrepita moda poetica provinciale, avulsa dalla concretezza del quotidiano e travagliato vivere, dalla coerenza di effettivi legami con i drammi secolari, chiari o ermetici, della sempre emarginata classe operaia e contadina, la bestia da soma, ossessionata dallo spettro cinereo della dannata e inguaribile miseria e dalla ancestrale vocazione all’emigrazione. Educato a servire la verità, spoglia di orpelli, e cresciuto alla mensa del pane buscato con le oneste fatiche, Iuliano decreta la morte delle costruzioni fantastiche vuote di senso, dei sospiri di arcadica memoria, delle sciatte e scialbe nostalgie dei ciechi menestrelli, di tanta fraseologia usurata. La poesia irpina volta pagina e apre un nuovo capitolo con la silloge “Malinconia di terra” (Lauro, 1976), prefata dal valente critico e poeta Vincenzo Napolillo, un vero e proprio manifesto del realismo poetico irpino, con cui il Nostro insegna a far poesia in nome e per conto della vita, dell’uomo di questa terra, ferito nei suoi diritti, logorato da infruttuose fatiche, impastoiato e vinto da un brutale fatalismo. Con un linguaggio asciutto, essenziale, comunicativo, scavato dalle cose, il poeta ci evidenzia il dignitoso dolore, sepolto nelle piaghe del cuore, di questa Irpinia, che dà « condannati a vivere / il proprio destino / di disoccupati »: la « colonia / di turisti forzati »; l’« irpino errante, malato ecologico / di sola miseria ». E’ implicita l’adesione sofferta, viva nel suo tessuto, alla corale ansia di chi cerca la sua identità e « aspetta la casa / la fabbrica / la sua dignità ». Il discorso poetico si dilata nei suoi orizzonti, si arricchisce di tensione, si vivacizza sul filo dello scontro, si fa puntiglioso nella raccolta “Il Sud non è forse…” dove si articola una antitesi generazionale, la vecchia e la nuova, uno scontro di due culture diverse, quella rurale statica e quella tecnico-scientifica dinamica, corrosiva, con tutte le implicazioni rispecchianti la crisi occupazionale, spirituale e politica e le esplicite contestazioni al fariseismo di professione. Il mondo dei contadini è fermo nel tempo, segnato da una rabbia impotente, da solitudine e abbandono, vuoto di forze operose e giovani, governato da una missione di accettazione fatalistica e di subìta rassegnazione cristiana, un ibrido impasto di pagano e di evangelico, senza un segno di promozione d’un riscatto. Qui – dice con accento amaro il poeta - « Con la nuova stagione / non mutano i destini dell’uomo»; « cala sui vinti la rassegnazione di sempre ». Il mondo dei giovani, rampolli di operai, emigranti, bifolchi, cresciuti nella cultura democratica, è un mare in tumulto. Si contesta, si maledice, si minaccia, per rivendicare lo spazio vitale. Con un piglio deciso e vibrante di rivolta, un « esercito di liberi pensatori » ammonisce: « Cammineremo / battendo i piedi con forza, / cancelleremo gli slogans / e bruceremo le bandiere / gridando a tutti / rabbia e insofferenza ». Nella raccolta a volte il tono si fa più aspro, più scoperta l’accusa, più preciso il bersaglio, e la condanna dei falsi “liberatori”. « File ribelli / grideremo il diritto alla vita / marciando serrati / contro i sordi e i ciechi ». Qua e là nelle liriche è sparsa amarezza e sdegno, pena per la giustizia tradita, per l’amore crocifisso, per le vuote promesse. A volte il tono si stempera nella visione di una fraterna convivenza fra i tradizionali rivali, il padrone di fabbriche e di miniere e l’operaio, i quali insieme rompono lo stesso pane alla stessa mensa; o quando il poeta si abbandona con parsimonia alla dolcezza dei sogni, alla rievocazione dell’età felice con i suoi turbamenti; o quando, piovendo la luce in modo uguale su tutti i figli di Eva, il poeta riconoscerà il sapore della preghiera, vedendo in Dio il vero e giusto Padre. Il merito di Iuliano è quello di non deformare la realtà, di non caricare le tinte, di non cercare consensi di plauso, riuscendo a tradurre in immagini poetiche, semplici e toccanti, scarne e suadenti, l’osservazione e l’esperienza vissuta fra la sua fiera gente. Il filone più valido di questo poeta è la poesia di impegno sociale, con cui mira a scuotere e a promuovere un risveglio civile, che emerge dalla partecipazione consapevole di tutti gli sfruttati e i disoccupati, senza più attendere dagli altri la decisione del proprio destino. |
Pasquale Martiniello |
La nuova
raccolta di poesie “Il Sud non è forse…” di Giuseppe
Iuliano mi dà una duplice consolazione: l’una di trovare ancora
enucleati i temi (la questione meridionale, emigrati, drogati dalla vita
e dalla povertà, cultura contadina vissuta con naturalezza, le rapide
notazioni paesaggistiche contrapposte ai funambolismi letterari di tanta
parte della poesia di questi ultimi anni) che furono registrati alla
base della mia presentazione della suggestiva composizione “Malinconia
di terra”; l’altra di vedere unificate, in un rapporto vitale,
immagini dolenti e cupe con la tensione di speranza, che mancava nella
precedente prospettiva poetica. Segno
evidente che l’autore, sempre reattivo alle contraddizioni e alle
sofferenze insopportabili del contesto sociale, fa un esame di coscienza
e ripropone, con secche parole, sul paino di una asciutta tela, la
valorizzazione di figure, sentimenti, oggetti, stilemi che trapassano la
storia individuale e costituiscono il referente d’una sincera passione
della verità. Il testo
non solo segue il tracciato della vita individuale, ma soprattutto la
linea di quella collettiva,
adombrando – attraverso la partecipazione risentita al dramma dei
figli emigrati e della sconvolta terra del Sud – una poetica che si
riassume in questo canone, direi, rivoluzionario: « Poeta, / che
addenti la vita / e rubi segreti arcani / al tempo usuraio, / considera
le cose del Sud ». Tale
considerazione – sarebbe meglio dire amore – riesce, nonostante
motivi spesso ricorrenti, a fondere realismo e lirismo, passione e
simbolo, umanità umile e profonda, costruzione drammatica e spontaneità. Ripensamenti,
stati d’animo, dolore, spergiuri, violenze, invocazioni,
recrudescenze, aneliti, rabbia, miseria, debolezze, rancori,
lacerazioni, puntuali riferimenti a luoghi, momenti e persone
autenticano un incisivo interesse storico-psicologico, un dialogo che si
fa interrogazione severa, conquista e impronta nello spirito agitato e
pensoso, salvaguardia di qualcosa di vivo, rievocazione di una memoria
contaminata dall’autobiografia, comunicazione di idee raccolte nella
loro trepida verginità, specchio di un pensare e sentire infranto, di
atmosfere disperate e di delicate sfumature. Sono
queste le ragioni che approfondiscono l’equilibrio di un canto che si
gonfia degli echi del nostro popolo ed esplode per la carica emotiva,
ch’è frutto di una commozione elementare e d’un linguaggio
lampeggiante di chiarezza. Tornano,
nelle pagine della silloge, problemi più vicini alle origini di
Giuseppe Iuliano, dotati di felici perturbamenti e inseriti, mediante
rapidi tocchi, in una prospettiva d’intima sanità morale e civile. Il tono
del nuovo lavoro – oscillante tra l’amarezza della realtà e la
dolcezza del sogno di speranza
– è dimesso e tagliente, colloquiale e nostalgico, risolutore e
aperto alle vicende del mondo d’oggi. “Marcet
sine adversario virtus”: il poeta combatte contro prepotenze e
palesi ingiustizie, effondendo una vena lirica cospicua, aiutata da una
fantasia insieme creatrice e descrittiva. Una
scrittura, la sua, accesa finalmente di consolante certezza, quasi un
graffito lasciato sui muri della granitica cattedrale di Nusco. |
Vincenzo Napolillo |
NEL SUD Nel Sud il tempo sa ancora di antico. Per i campi, vecchi affaticati spaccano i solchi. Fili di fumo in ogni contrada vagheggiano ciminiere di fabbriche. La vita sonnolenta consuma nel desiderio di pace l’antica rabbia. SOLIDARIETA’ Poeta, che addenti la vita e rubi segreti arcani al tempo usuraio, considera le cose del Sud. Non usare vaghe speranze né dolci illusioni. Il Sud non offre abbandoni o deliranti sospiri, ha solo terre malinconiche e figli senza lavoro. La tua amara poesia, canto di umana tristezza non porterà mai sollievo nella fredda baracca dello stagionale. STORIA DI SEMPRE Maestra di vita che insegni all’uomo il giusto e l’onesto, fra tanta pretesa cultura, non ti fai ancora capire. Qui, siamo soli senza lavoro a maledire i nostri giorni. Sempre ingannati da promesse senza più sorrisi vogliamo la nostra giusta paga. Possibile che la vita è solo conquista e che bisogna sempre combattere? Incolpevole, remissiva, poi, meraviglie e condanne ci dai, se ti diamo retta. ASPETTANDO GODOT Su pietre consumate dal tempo muoviamo passi indecisi là dove gli odori di fieno e di muffa riempiono l’aria. Frotte di occhi vaganti spesso solitarie parliamo di idee. L’aspra vita passata dà poche speranze. L’abisso esistenziale greve di drammi vissuti e di attese illusorie di pace trova ribelli, indomite le nostre aspirazioni di uomini. QUEL GIORNO VERRA’ Un giorno ci stancheremo di aspettare. Ruberemo a noi stessi la libertà di sperare. Cammineremo battendo i piedi con forza, cancelleremo gli slogans e bruceremo le bandiere gridando a tutti rabbia e insofferenza. Raccoglieremo sull’asfalto coperti di sangue le umiliazioni di vinti. Il pianto di ieri versato in religiosa attesa colmerà gli affanni e le paure del domani. La nostra vita di uomini passa oggi di bocca in bocca nelle vuote promesse di funesti liberatori. IL SUD NON E’ FORSE… Il Sud non è forse il paese dove fioriscono l’ulivo e l’arancio? Chini per l’erte e le pietrose campagne donne e vecchi, fortunati sopravvissuti, animano i tristi presepi. Cieli grigi fanno chiudere gli occhi ai conoscitori del piccolo mondo uguale della terra. Una povertà disumana mai cancellata vive, nell’ingannevole sogno della speranza, i bisogni del riscatto. NELLA CAVA Nel verde di erbe e di foglie una chiazza bianca compare e si accresce. Castagni robusti si abbattono, cadono le felci e nascondono granuli di fragola che saltano allo scoppio della mina. Nella cava di pietra quattro minatori scampati rubano alla terra la miseria di essere vivi. DISTACCO Quando partirò lascerò poche cose. Restituirò al paese le dolcezze della fanciullezza quando correvo felice con chiassose brigate. Stringerò al petto gli affetti più cari, conserverò i silenzi, le bellezze della terra e delle donne, guarderò – senza mai dimenticare – il cielo, il verde, le case e poi darò l’addio. Porterò le rabbiose delusioni, come quando lontano coltivavo la malefica nostalgia, sicuro che non calerà la forza dell’oblio. I SOPRAVVISSUTI Con un segno di croce i patriarchi risolvono i loro problemi. A Dio raccomandano i figli partiti, i raccolti e la vita prossima alla fine. Nelle lunghe pipe di creta fumano l’oppio della solitudine. SIMONIACI Non parlate d’amore voi che sapete vendere parole. Non promettete giustizia voi che ci rubate la gioia di vivere. Mendichi chiediamo identità; illusi maturiamo promesse; sopraffatti gridiamo rabbia. In un groviglio di inquietudini viviamo la nostra giovinezza già vecchia e sofferta senza più riuscire a sorridere. QUANDO Se la luce brillerà senza indugi uniforme su uguali figli di Eva, allora Signore imparerò a pregare. Quanto sdegno gridiamo per i fratelli giustiziati e ridotti in brandelli dalla furia di Caino. Quanta paura ci fa perdere il coraggio, la fede e persino la forza e la voce di essere vivi. Quanta pretesa libertà ci offende: soli, malati, ribelli, drogati gridiamo ai fratelli fortunati di essere umani. Quando Signore non ci venderanno più parole di giustizia e di amore allora ti riconoscerò Padre. FRATERNITA’ Tu che chiami tutti fratelli che porgi le mani e parli d’amore. Tu che proponi la pace padrone superbo e vinci le guerre, rispetta la vita. Tu che costruisci fabbriche e possiedi miniere. Tu che governi il mondo signore della terra e rendi giustizia, ricorda di essere uomo. Spezza il tuo pane con noi figli del Sud. INSIEME Quando bacerò il tuo velo di sposa avrò meno sorrisi e più capelli bianchi. Fermo, con puntiglio, guardo il triste passato consumato a salvare la faccia degli onesti imbroglioni. Ho venduto per vivere a falsi profeti la mia libertà di servo per avere un lavoro, la casa e la vita. Uomini spergiuri sanno solo promettere. Cerco affannato dimentico della mia giovinezza il nostro domani. Quando alzerò il tuo velo di sposa ti darò solo il cuore ed il mio nome. Non ho altro. PASSATO E PRESENTE Ragazzi aspettavamo l’estate. Felici correvamo tra le siepi e le spine a raccogliere more; sui fili di fieno contavamo in gara la raccolta. Giovani irpini senza più spensierati cammini andiamo come quelle file di more l’un dopo l’altro in terre lontane. AUTUNNO Partono i rondoni guidando le nidate cresciute. Cieli plumbei carichi di nebbia si vestono a lutto per non vedere morire l’estate. Con la nuova stagione non mutano i destini dell’uomo. Nidificano altrove e garrullano e gemono per svuotare la rabbia di una partenza costretta. Cala sui vinti la rassegnazione di sempre, ma tu natura spezzi col vento i rimorsi e nascondi di bianco i ricordi. E’ questa la vita dei poveri e gli anni non si contano più. CONTINUITA’ Infinite stagioni ho vissuto pensando ai tempi migliori. Infiniti sguardi ho sognato di giovani donne. Illusioni e sospiri dell’età giovanile sono poca cosa. E’ rimasto solo il ricordo rimpianto della festa passata quando spente le luci partono carovane di giostre e venditori. Resta pure la vergogna di essere soli. Con le luci e il clamore partono oggi meno sognatori famiglie di uomini che hanno consumato con me, per un giorno, l’illusione di una festa. TEMPI DIVERSI Sull’aia illuminata da pallida luna, tra le ombre forti di lumi a petrolio, ragazze scalze ci portavano spighe cotte di granturco. Trascinati nel ballo, confusi da felici turbamenti giuravamo eterni amori. Il tempo ci ha ingannato: nelle campagne spopolate, sull’aia, tra i rovi e le erbacce, è strisciato il serpe dell’emigrazione. GIOVANE DEL SUD, ASSENTE In tumidi sguardi di fame giovinezze sofferte non più disponibili di violenti barboni. Figli del non benessere, eredi, del mondo. Emigranti… UNA VITA DIVERSA Non voglio veder morire di noia la mia generazione lasciata senza lavoro a bucarsi le mani. Non voglio vedere Giuda fregarsi le mani dopo avermi ancora tradito vendendomi per un boccone. Non posso guidare i sogni soffocati nelle notti agitate. Non posso veder piangere la sposa ansiosa che aspetta, da anni, di veder costruito il suo nido. L’attesa inganna chi spera e l’uomo povero che non sa di morire lentamente e per sempre. NATIVITA’ E’ nato! Dopo cinque donne la mala sorte è finita: è nato il bambino. Con i panni di lavoro il manovale di Porta Molino corre gridando la sua gioia. Il figlio farà la razza, porterà ancora il suo nome. Illuso, non si chiede, che serve a ben poco, perché il piccolo, domani, porterà il nome per il mondo là dove ci sarà un posto di lavoro. …SED VITA DISCIMUS Cinque galline salvano per la piazza. La bagnolese correva dietro maledicendo quattro birbanti che con mazze di sambuco guidavano la carica. Invece di studiare! Qui c’è poco da imparare, la cultura dell’emigrazione è innata. LA ZONA DELL’ OSSO Cubetti di porfido incatramati fanno di Nusco un paese fortunato. Quanto pulito invidiato custodiamo. Le luci poi… illuminiamo il centro, così passando la sera possiamo guardarci negli occhi ubriachi di progresso e di miseria. COSE DA POVERI Son tornate le nostre famiglie straniere senza più valigie di cartone e figure di santi nei cappelli. Portano stanchi sorrisi abbracci intensi e mostrano i timidi figli che parlano altre lingue. La lunga attesa dolce ora di cioccolata e sigarette è finita ma solo per una vacanza. Quando li abbiamo visti arrivare con la macchina e i soldi convinti che fossero felici li abbiamo invidiati. I poveri quando sono ostinati vivono di rinunce e di speranze e sanno solo odiare. CAMPO DI LAVORO Sui vetri appannati qualcuno dipinge figure. A un tavolo che vibra sotto la forza delle nocche discutiamo nemici dei nostri problemi. Ognuno grida la sua rabbia per le carte e il governo. E’ la nostra sola vera occupazione. UN ESERCITO DA SALVARE Siamo un esercito di liberi pensatori occupati a parlare di teorie a gridare le uguaglianze sociali e a maledire i potenti imbroglioni sempre più ricchi. Abbiamo raccolto promesse e spergiuri illusi di poter costruire in uno spazio vuoto la nostra esistenza. Ognuno si lava le mani e rimanda agli altri e al tempo i nostri destini. File ribelli grideremo il diritto alla vita marciando serrati contro i sordi e i ciechi vigili accaparratori a possedere di più. Un giorno partiremo ed altre lacrime saranno versate. Siamo un esercito. LA CIVILTA’ E’ COSA NOSTRA Per sapere come si diventa potenti ho provato a guardare i destini dell’uomo. Mani calde di gente ossequiosa di cinica civiltà ti tendono umane catene di montaggio marciapiedi, bordelli, soldi e scalate sociali. L’umanità sacrifica nel consumato benessere abituata, da sempre, i drammi della sua esistenza. RIMPATRIO In un corteo fra tante vesti nere il vento muoveva i riccioli biondi di una donna straniera. Dalla Svizzera accompagnava il marito morto sul lavoro. Decine di persone l’abbiamo accompagnata, stretta la mano e sussurrato coraggio. E’ quanto possediamo. CANTO DELLA SPERANZA Domani sarà un giorno migliore. Il gallo canterà presto per svegliare uomini uguali. Insonni ci daremo la mano untuosa per l’attesa e grideremo vicini la gioia del ritorno. Sveglio mi trovo le mani strette appiccicose tradite da un sogno ingannatore. |