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RACCOLTA “CELIE GIAMBI ELZEVIRI” 

Dedica

Prefazione di Gerardo Bianco

Celie giambi elzeviri


A Michele 
dell'anima 
amato soffio

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P  R  E  F  A  Z  I  O  N  E

Perché questa ossessione della parola che l’autore manifesta in apertura della sua raccolta poetica?
L’interrogativo mi ha arrovellato, leggendo e rileggendo questi versi di Giuseppe Iuliano. Non è il consueto tormento dello scrittore che scava nel linguaggio; non è il turbamento di chi non trova le espressioni giuste ( il mio, per esempio, in questo momento) per dare senso compiuto al proprio pensiero. In Iuliano v’è qualcosa in più. E’ come se il poeta volesse distruggere la stessa sostanza letteraria, per renderla corpo, oggetto concreto e contundente, utilizzabile non per l’invettiva, ma per ferire fisicamente.
Questa estrema tensione, rivolta a materializzare il linguaggio, dà la misura dell’incontenibile sdegno interiore di Giuseppe Iuliano. La lettura della sua opera talvolta sgomenta, v’è dentro una densità passionale che soffoca il canto o lo volge a sconsolati rintocchi, perfino a funeste conclusioni. Mi sono domandato: come posso io introdurre questo volumetto, così esigente, così severo? Non sono anch’io dalla parte sbagliata? Sento come staffilate queste note:

L’ Irpinia raccoglie le spoglie
conseguenza di guerra civile
di un impegno tradito nei patti
di un inganno ancora presente
che invita al lesto ritorno
e ferma le fabbriche aperte
dignità di poche formiche
con addosso la marca politica.

Ecco l’altra ossessione: l’ Irpinia, il Sud; un riscatto promesso e tradito. La trama di queste poesie è in un desiderio di dignità umana che l’intreccio di comodità, povertà, benessere e sottomissione ha definitivamente umiliato. Di qui nasce il grido, spesso a squarciagola, che denuncia e sfronda retorica ed ipocrisia; di qui lo sguardo che si dilata a scrutare nelle vicende sociali d’ Italia, d’ Europa e del mondo, perché questo è il cammino del popolo di emigranti che è l’ Irpinia, appassionatamente osservata da Giuseppe Iuliano. Quali modelli, quali autori per questo giovane poeta? Non saprei indicarli. Ma forse sono i suoi conterranei, il prossimo di Nusco, di S. Angelo dei Lombardi o dei cento paesi del terremoto, le storie raccontate dai nonni e dalle madri, l’indomabile e sotterranea ribellione contro l’ingiustizia, il fatuo, l’inautentico che circola nella cultura irpina.
Prima di riversare amari succhi in questi versi, Iuliano ha pubblicato racconti di vita vissuta, di vicende e personaggi della nostra terra. Un’esperienza letteraria impregnata anch’essa di passione sociale e civile diventata, ora, nella poesia, più accesa e diretta. Egli, dunque, perviene a questo approdo per un lungo e coerente itinerario, il che dimostra la genuinità dell’ispirazione. V’è uno sfondo nell’opera e si manifesta nell’appena velato sentimento nostalgico di “ciò che fu”. Ma sarebbe errato considerare questo aspetto come rimpianto di una perduta
età dell’oro. Tutt’altro. E’ l’aspetto violento del progresso, che si sovrappone e che origina lo sconvolgimento di un antico ordine o di un amato paesaggio, a suscitare la dura ripulsa dell’autore. E’ qui suggerita una traccia: sono gravi ferite quelle che, in nome dello sviluppo, alterano le “identità” sia comunitarie sia naturali. Iuliano ha accenti delicati quando connota il paesaggio. V’è una partecipe affettività verso le nostre campagne (il verde, gli alberi, le viti, i salici); c’è un manifesto cruccio di vederle sconvolte, semmai per una promessa vana di progresso, per rinnovare pratiche di ingiustizia e di discriminazioni.
Qui Iuliano manifesta incontenibile la sua rabbia. La poesia si gonfia fino a diventare oratoria politica. La denuncia non è sempre assorbita dal contesto poetico, ma dai versi ricava penetrante vigore:

Chiamate a capriccio
assumono chiunque al privilegio
adatto incapace
specifico generico
gabbando la severa fiducia
scritta dai padri della patria.
Per altri l’avvenire è dubbio. E’ niente.

Si legga ancora (continuando) nel verso sciolto, ma “concatenato” da un’onda di salutare rabbia civile, la cruda condanna.
Poesia “politica”, dunque, quella di Iuliano, nella quale lo
spleen, l’umore nero, appunto, non deve fuorviare. E’ una voce inconsueta che non teme di cadere nel “predicatorio”, ma che attinge, invece, ad accenti alti, di forte impegno civile e che, al termine, si apre all’attesa e quindi alla speranza: una possibilità e una scommessa ancora “per diversa umana condizione”, che è la chiusa dell’ultimo canto!

Gerardo Bianco

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Orsù voce dai fiato alle parole

vettori dell'anima alterna

in diversa direzione.

Sostieni il passo

puntella il ritrovato pensiero

che insegue ubbidiente un'idea

o raccoglie notizie e frammenti di verità

con ingenua fiducia.

Brucia nel dubbio la memoria

fune sfibrata da riannodare

con forza di lingua e di polso.

Orsù parole

dure come pietra di lava

vomito di serpi di fuoco

sputate intere o a schegge

siate pronte a lacerare o ferire;

all'occasione polvere di pietra pomice

affilate l'odio

con coltelli di vendetta

a trapanare la gola

per dissanguarla prima.

Bianche colonie

manti di selce difforme

siate scarde di fiume

da trascinare o ai margini.

Orsù parole

scintille di pietra focaia

bruciate amare differenze

per scartare il rifiuto del malvagio

che impasta lievito d'ipocrisia.

Parole favi di miele

colanti meraviglie e dolcezze

da spremere con un sorriso

inebriate la mente

fino a nascondere il vero pensiero.

Parole d’amore

furtive come gazze incallite

o ingenuità di rara innocenza

turbate la serenità

fino all’ossessione.

Parole di preghiera

mute o coro di sciami

supplici a implorar perdono

invocate santi e potenti

ognuno col dono di miracolare.

Parole eloquenti o scarne

necessarie all’affabulazione

siate garanzia d’intesa

per le scale della torre di Babele.

Parole sottili

aghi piantati invisibili

moltiplicate cerchi di dicerie;

altre soffiate sul fuoco

a ravvivar la vampa

che muove lingue e scintille

nel sordo borbottìo.

Parole di disperata speranza

rattoppi di squarci e fenditure

masticate bene e veleno

ognuno disposto al canto o alla maledizione.

Insieme a completare la vita.

Fiori di ginestra

coriandoli pentecostali

scendevano a neve

sul pallio.

Altri a croce segnavano la via

della penitente processione.

Rituali del Sud

apparate di lenzuola e trapunte

confortavano

le ingenue speranze

di preparare l’eterno

mentre l’inferno prossimo vissuto

scongiurato ma presente

addosso come calamita

allontanava quel posto

d’incipiente peccato.

Altre espiazioni di festa

cantavano solenni promesse

di santificar la vita

con ceri e figure votive

puntualmente scaduti

nel solito peccato

incapace di pagare indulgenze.

Fiori di ginestra non più espropriata

profumano colorati cespugli

scudi di verbena e capelvenere

bugiarde recite di un osanna

per castigarsi nel resto

aspettando la Parola

diventare lingua di fuoco.

Un dio malvagio

che restò dio

estraneo alla natura umana

e alle prove del dolore

volle nel suo creato

a simbolo di potere

e di discutibile amore

procurare sguardi di meraviglia.

Nessuno obiettò o si oppose

anche se maledì sua natura

perché mala pianta

arida e sradicata

condannata ad essere mucchio

per bruciare come inutile paglia

o sola selvaggia tisica

marginale terra incolta.

Fu soffione

prodigo di semi

figli inermi

dal dente sottile

strappati senza forza

al compimento del proprio destino.

Spilli di corallo

sono soffici capelli

per trastullo di bambini.

Così la gente del Sud

al soffio si spande

e disperde a semenza

i capelli di Cristo

lucidi sotto il peso dei legni.

Su scatole vuote di latta

di conserve macere e mai raccolte

mani a percussione

dei disoccupati dei Banchi Nuovi

battono minacciose in ritmo

la mancata integrazione nel sistema.

Scarsezza di salario

assenza di lavoro

trasmettono i tamburi

la rabbia della banda

ieri “pazzariello” innocuo

di allegrezza esterna

per feste esclusive di costume

sacrificate nell’avido consumo.

Questa non è più terra di misteri

di veggenti visionari

di Madonne ed impostori

che pretendono mazzette

col pretesto del lavoro

di una grazia o di fortuna.

Ognuno vuole cambiarsi la faccia

per non piegarla di vergogna

e detestarsi di malvagità o mancanze.

Sguardi istintivi si scontrano

un disoccupato ammacca la latta

un altro di Terra di Lavoro

è carabiniere per necessità.

Occhi rossi umidi

asciugano i segni della bomba

e le attese di una promessa bugiarda.

Il nostro maggio di lotta

conosce solo cortei

e qualche protesta verbale

che non innalza barricate.

In terre sconosciute

pasticci cotti di legumi

senza sapore di salsa e sale

sono atti divinatori

divisi tra vicini

per liberarsi in estate

dalla ruota di mosche e insetti.

Le donne ripassano

madie e granai al setaccio

disponendo a intermezzo

foglie fresche di noce

che abortiscono il nascere

o il rintanarsi del verme.

Altrove si pretende

il rinnovo del contratto

l’aumento di salario

con servizi e sicurezza

tra vernici di veleno

e polveri d’amianto

concimi di corrosione

dell’aria sempre più infetta.

Preghiere invocanti la Vergine

nel suo mese mariano

ripetute al vespro e al mattutino

promettono fioretti di sacrificio

per la nuova stagione che tarda a venire.

Noi siamo l’osso

bianco come pietra di via

slavata da consistenza di piogge

increspata dal gelo e dal sole

lasciata alla sferza dei venti

a turno a dividersi il dominio,

ognuno a misurarne la resistenza.

Noi siamo l’osso

snervato e assistito dallo Stato

come mantenute da elemosinare

disprezzate e senz’amore

serve nel domestico

apprezzate a custodire le ceneri.

Noi siamo l’osso

peccato d’inferiorità

del vizio capitale

imprenditore ad usura

che spreme sudore e pietre

e la polpa divisibile del potere

intervento abituale o straordinario

per contentare il Mezzogiorno.

Noi siamo l’osso

il frutto più acerbo e aspro

scarto necessario d’aiuto

nel giardino d’ Europa

mercato e fiera di prodotti

da esibire in concorrenza.

Nell’osso soffiamo fiati d’energia

e anime di vita

con alito di provata pazienza.

Di te conobbi la faccia

distinta nei suoi tre colori

avvampati dall’eco partigiana

che aveva da poco sepolti

gli ultimi risentimenti.

O Italia di mille idee

svendute al mercato

del compromesso

che forma le quote di potere

frughi le tue sporcizie

come sorcio esperto ad appestare.

O Italia di tanti politici

maestri di voce grossa di partito

avversari di stampo elettorale

garantisci il diritto

a elargir favori

che ignorano nel privilegio

deboli senza protezione

giovani pronti a far da sé

illusi che amano l’idea

uomini senza prezzo

liberi padroni dello spirito.

O Italia di opposti desideri

costruisci a parole unità nazionali

e conservi a sproposito

incredibili Eboli nei tuoi confini

di paesi senza patria

di gente senza stato

con l’ansia negli occhi di Cristo

perché passi oltre la storica fermata.

Sud terra dei miei avi

che masticarono sudore e miseria

e vigilie di digiuni

per appartenerti;

che ammassarono aridi orti

e vangarono fazzoletti di pietraie

racchi di sete e malaria

per rubarti qualcosa;

che sacrificarono anni e famiglie

e virtù di giovinezza

per diventare qualcuno.

Sud terra delle mie radici

inseguita cavalcando illusioni

disarcionate su diversi ostacoli

e anche nella semplice corsa

per ritrovarti mulo

pronto alla fatica, docile al comando

non sopporti sella e basto

e la natura inferiore.

Pianti le unghia nella tua storia

mantenuta e depressa

incinta di vizi e vendette

per procurarle l’aborto.

Sud terra dei miei figli

semi al germoglio

covate d’innocenza

non oscurare più il giorno

di attese inganni e violenze

palle al piede del tuo carcere,

dopo tante espiazioni.

Rosari di mannaggia

sgranati senza vergogna

né paure di sfidare l’eterno

consacrano diversi inferni

alla sorte dell’arbitrio.

Chi semina spine

sa che non può andare scalzo

ma chi ha piedi nudi

non può sperare nella tempra del callo

per non sanguinare la via.

Chi ha mani piene

potrebbe anche rubare

non fa differenza la presa

ma chi stringe i pugni

non conta ricchezze

e indurisce le braccia

per non accettare la resa.

Chi sceglie e chi paga

chi gode e chi soffre,

tanti chi combattono

pochi comandano.

Insieme Ti credono

e nessuno ha più meriti

anche se tra Te e loro

c’è più di qualche anticipo

di paradiso.

Rosari di perdono

poi segnano la croce

di cuori malati e bocche maledette

che invocano, a speranza, una promessa.

Rami di uvaspina

intrecciati a corona

a formare ghirlande

sono pegno volontario

per una grazia d’amore

invocata a Madonna della Gaggia.

Serti adornati i veli

per non perdere il rispetto

di mostrare i capelli e la fronte scoperta

promettono virtù di sposa fedele.

Attese di uomini

né principi né azzurri

con pretese di vita normale

restano dentro il precario

dell’antica miseria

mortificante la vita e la coscienza.

Donne pellegrine

povere di gioielli e smeraldi

di luccicante ricchezza

per ironia stelle del sud

invidia e misura di signore notabili

chiedono il miracolo di restare

senza pagare altri sacrifici

di dolorosa servitù

e snervante adattamento.

Acini di uvaspina

di succo asprigno e legnoso

da cogliere con singola cura

tra infide punte di rovi

sono semi che non ingrassano raccolti.

Il canto della calandrella

distingueva il verso dei passeri.

Annidata tra cespugli

spigolava a becco

chicchi di grano e orzo

prima della fuga.

Un rumore o la voce

spingevano la paura alla corsa

con eccitato battere d’ali

per improvvisa destinazione.

L’incertezza durava un attimo

e recuperava subito fiducia

ripetendo gesti di lavoro

per procurarsi il cibo.

Con le fredde stagioni

di tutto avare insieme al bel tempo

partenze costrette di covate e rondoni

cercarono l’esilio per opporsi ai bisogni.

Desideri di cielo

superarono da terra ogni confine

lieto di beni e fortune

da raccogliere a mucchi

spontanei come erbe selvatiche.

I sogni seguirono il vero

compagni di resistenti calandrelle

cocciute a fare la spola

per legge di obbligante natura.

Nessuno ora segue più il canto

neppure per imitazione di fischio.

Ci si confonde, a somiglianza, nel volo.

Clandestini di stesso colore

buoni sconto di mano d’opera

venditori ambulanti

di lavoro senza licenza

siamo pendolari in commercio

a mostrarci come prodotti di valore.

Referenze d’italiani

navigatori abilitati ad ogni porto

ancor ci fidiamo della vendetta di Bruto;

garanzie di meridionali

servi di provata pazienza

aspettiamo il grido di Spartaco

e il senso nuovo di libero.

Adelaide non scorda i natali

Filadelfia è distanza d’oceano

Losanna è una giornata di treno.

L’ Irpinia raccoglie le spoglie

conseguenza di guerra civile

di un impegno tradito nei patti

di un inganno ancora presente

che invita al lesto ritorno

e ferma le fabbriche aperte

dignità di poche formiche

con addosso la marca politica.

Corriamo nel fumo ad agosto e Natale.

E la sera agli esami di coscienza

non procuriamo crisi e pentimenti

o preghiere di salvezza

per un’anima morta all’uguale

ma viva di stessi pensieri.

Per poche lire

portiamo il dispiacere

a spasso

cucendo tasche di bisogni

favi laschi abbandonati

come le morte terre d’origine.

Ferme volontarie

di legioni straniere

stringono nuove prigionie

e portano alla diserzione

per ricacciare all’inferno

il fallito tentativo

di migliorar la vita.

Rimpatriate lunghe quanto una feria

pagano al tempo

affetti e ricordi

sempre più estranei.

Per poche lire

portiamo allo scontro

memorie in subbuglio

di chi resta prigioniero tradito

schiavo di troppa fortuna

di chi conta partenze e ritorni

e insegue le distanze del tempo

a misurare mancate parità.

Al Sud corrono

vergogne di peccati

sputati scritti a schifo

dalla superiorità dell’altra Italia.

Quella non nostra.

L’ordine delle cose

prerogativa di creatore

non rispetta le origini

e vanta per impostura

e paura di ritorsione

nuove immagini di dio

con la pretesa del culto.

Discorsi di fascinazione

ossequi di ex voto

scapolari di tessere

soffiate di galoppini

concelebrano

la religione del potente

patriarca o di turno

ma di voce in capitolo.

Gruppi di vassalli

capitani di ventura

assoldano eserciti

e calano orde di barbarie

di convivenza civile

a spargere la cultura

dell’oppressione

e del servile ricatto.

Sud terra di conquista

per guardiani e coloni

non puoi sorridere

di forzato ottimismo

e compiacere tenutari di feudi.

Il tuo lamento ribelle

è voce del diritto

che tarda ad essere legge.

Libertà

sei un frutto acerbo

da cogliere nel giardino proibito

di chi è padrone dell’ Eden

e chiama nella prova

creature di serpi

che istigano a cogliere il peccato

per punire la dubbia fedeltà.

Questa è terra di nuovi predoni

che non incendiano poderi e raccolti

per un’esigenza di pane

ma conoscono a memoria

il vangelo di bastone e carota

per garantirsi il dominio.

Libertà di parola

sei follia suicida

di fronte a chi conta

che può emarginarti come un ossesso.

Libertà di evasione

sei schiavitù d’eroina

assordante come musica rock.

Libertà di emigrare

sei forza di espellere

per cacciar via senza grida né calci.

Libertà di tacere

sei la virtù dei vinti

già morti ad ogni ragione.

Ma tu libertà di vivere

mi sublimi e mi convinci.

Puoi costarmi quest’estraneo paradiso terrestre.

Magna Grecia

terra di limoni e fichidindia

e di selvaggi lamponi

sparsi addensati a colonie

tra asperità sterili e distese feconde

custodisci la nostra storia

e assecondi maledetti sospetti.

Vanto di granai

e di spiagge vellutate

di marine e paesaggi

da fermare in ritratto

con pasture di greggi

e ciminiere al fumo

affronti la realtà dei tempi

con ogni energia.

Spremi il lavoro

come il succo dei tuoi limoni

qui grossi e generosi

più in là malaticci e secchi

ed oltre un frutto da comprare

perché il seme muore

assieme ad altri semi.

Fa nome di prestigio

il tuo sapere

e Nusco Atene dell’ Irpinia

è già Selinunte o Sibari

ma Bisaccia non è Siracusa

e Calitri invidia Agrigento.

Le voglie di Roma sono trucco alla faccia.

Macchie di oleandri e gelsomini

sottili ombre promiscue di colori

sono maschere d’asfalto

che soffoca il respiro.

Nel verde di sperduti presepi

uguali fini alla noia

o di brulicanti quartieri

falene accecate stordite

squamano in polvere alla presa.

Paesi in miniatura, case di Barbie

per balocchi di bambole

sono ospizio d’intere famiglie

a ripetere un gioco di consumo

vecchio di dieci anni

e malefico per altri ancora.

Fogli d’amianto

freddano le vampe della vita

bianchi gelsomini immobili

scarichi di polline e seme

che ritornano alla terra

senza più germogliare.

Case di Barbie vuote di culle

di piscine, Ferrari e mobili firmati

d’ascensori e belvederi

non procurano interessi

neppure a curiosità di bimbi.

Alla loro età raccontano storie già vere

una trama di polpa e di osso

che travolge sfacciata

le ultime innocenti fantasie.

Brava gente

malata di devozione e di scrupoli

ha qualche volta alzato la voce

subito ammutendosi

per paura di qualche sproposito.

Covata di figli ribelli

dimentichi dell’ideologia avita

fatta di non osare

è certa del senso dell’uguale

presente come fissa preghiera

ma tradita in ogni occasione

sa avvampare gli occhi di rivolta.

Vendetta incendiaria

o di mitra spianato

armò la mano di Capone

spense gli occhi di Annarumma

nella morte a far compagnia a Cecchin

nemici di lotta  armata

di opposta barricata

colorata di diversa bandiera.

Irpinia madre di emigranti

e di gente sfruttata

di ogni estrazione

hai germinato radici di protesta

e di sfrenata violenza.

Oppressa e sconfitta

da debolezza e terrore

non hai più voce

per gridare il dissenso.

Muta, per te sarebbe la fine.

Razze padrone

distrutte e rigenerate

come mostruose creature

che hanno il dono

dell’immortalità

hanno mantenuto possessi secolari

quasi diritto di patrimonio

la nostra sudditanza.

Barbari duchi

sanguemisti reali

vescovi baroni

santi galantuomini

politici uomini d’onore

ossequiata gente d’affari

sono rami di nuova nobiltà

con stesse derivazioni

vecchie quanto il potere

alfa e omega, libro sacro

di storia sofferta.

Razze padrone

odiate e distanti

come montagne senza cime

non hanno bisogno di chiedere

o di aspettare un turno

per avere qualcosa.

Hanno preso con forza

strafottenti per arbitrio

umane richieste d’intesa

soffocate nel sangue o ai ceppi

prima che riguadagnino per sempre la luce.

Cerchi di monte corone di siepi

erano cancelli di restrizione

limiti invalicabili alla vista e al passo

fino a segnare l’orizzonte

e il nostro infinito.

Entro quei limiti

di pochezza stagnante

la ricerca dell’universo

non fu fatica.

Fu sacrificio restare

per sgomitarsi nel poco

e farsi male con vendette di traverso

non sanate neppure dalla morte

nel Sud anima di solidarietà.

Stretti come fasci di legna

costretti a stringere i denti

nel duro o nel poco lavoro

al sussulto dei tempi nuovi

stracciammo lacci di salice

ormai laceri e secchi

per varcare i confini.

Sbandati ignoranti rissosi

odiati barbari d’invasione

scontammo prove e buona condotta

per essere distanti integrati

stranieri cittadini

emigranti turisti

di un universo senza troppi misteri o frontiere

ma ancora lontano

per diventare un solo paese.

Ovunque nel tuo paesaggio

svettano campanili e croci

talora più di uno

quasi a farsi compagnia

nella santità

che qui passa per l’inferno

senza scontare la pena.

Esempi di beati

e di austeri martìri

patroni protettori di chiese e paesi

custodiscono segreti e pentimenti

e il mistero della fede

che induce alla pazienza

e a cristiane rassegnazioni.

Una religione di dolore

santificatasi nella tortura

diserta il credo e la pratica.

Altri grattacieli

d’idolatria laica

innalzano ciminiere di produzione

talora mantici di veleno

che non recitano a devozione

salmi e preghiere.

Un inventario di prodotti

mistica chiesa in attesa

reclama un lavoro sicuro

che si consacra con le richieste del tempo

alla bontà di Dio

e alla disponibilità degli uomini.

Entrambi cattedrali nel deserto.

Sei al risucchio,

immobile a cercare l’equilibrio

per un fallimento

che ti pesa come pietra suicida,

e ignori la salvezza.

Nessuno s’accorge di te

che cerchi con faccia impaurita

di non essere l’intruso delinquente da respingere

arrangiandoti in mille mestieri

economie di cerotti e carta stagnola

per sanare e involtare le ferite

di un marcio sistema.

Lavoratori in agitazione

disertano la fabbrica

riempiono le piazze

per migliorare la vita.

Il tuo sciopero continuo

non trova rivalse o sollievi

tra sindacati e lievito di partiti.

Solo senza la solidarietà

neppure formale

di chi sfruttato o usato

ma per fortuna lavora

mi ricordi trent’anni

consumati a bussare

porte e cuori di pietra

di cui non conosco la parola d’ordine.

Reagisci a nuoto, aggira il vortice

la risacca si cheta e aspetta

una scelta per scacciare la minaccia.

Paesi europei a confronto

per un’unità da trovare

oltre i confini di bandiera

sono il sogno del futuro

che ancora sfugge;

l’idea non trova garanzie di credibilità

e firma trattati sulla carta

accordi di collaborazione.

Strasburgo e Bruxelles

sono Roma e Milano

e ancor più lontani e d estranei.

Italiani divisi nel vero

fra intese di partito

e rigide convinzioni

di provenienza

muovono dubbi e sospetti

sul circostante

storcendo la bocca

che fiele di giornata

avvelena con accolta pretesa.

Meridionale, gente apolide

espulsa come indesiderata

feccia di società

trafficante di affetti

colonna dell’esodo,

sei l’ultima specie

e una continua ipotesi di vita.

Noi meridionali italiani a metà

portiamo all’ Europa

milioni di voti da meritare.

Mercenari di colonia

costruttori d’impero

nel nome sacro di Roma

lasciarono case e famiglie

per la paga di volontario.

Missionari di civiltà

sfidarono insidie e deserti

e il senso di libertà degli uomini

per conquistare un posto al sole

che bruciava la terra

e raffermava il pane

facendo sputare sudore

con uguale fatica.

Pionieri d’avventura

naufraghi di odissea

senza programmi di ritorno

cercarono ragioni per andare avanti

col vuoto esistenziale di essere soli

e necessità umane di colmare a sazietà

una fame di bisogni.

Sotto lo stesso sole

tane estranee adottive

ci restituiscono paisà di ritorno

o emigrati pendolari

desiderosi di calpestare deserti

ricchi di muffe e bacche

di ortiche ed erbe profumate

da conservarsi nell’oasi della memoria.

Riescono a dissetare l’anima

prima di ogni altro viaggio.

Invisibili diaframmi

resistenti alle spinte

dividono con frontiere di separazione

gente di stessa razza

colpevole di un nome

e di un luogo di nascita.

Quel marchio di superbia

risibile civiltà

frivola corrotta immorale

consegna al razzismo

noi, cittadini di Terronia.

Vergogne d’inferiorità

d’un preconcetto

circolano come monete

false e fuori corso.

Nessuno vuol legare fratellanza

o dividere affetti e simpatie.

Già sofferenti cronici

di storiche maledizioni

annose condizioni compromesse

ci tocca pure l’odio sprezzante

di uomini e del loro delirio

di superiorità positiva

germinata a preferenza oltre un confine.

Parole di fratellanza

sono caratteri di libro o di marmo

freddi estranei fors’anche eterni

ma per essere veri

non suggeriscono desideri.

Vivono il senso dell’uguale.

Col passo pesante

quello abituato a pestare la terra

soda di siccità o di gelo

e a schiacciare i frutti

maturi per pienezza di tempo

o asprigni per forza del vento

abbiamo inventato geometrie di strade

e seguito percorsi impossibili.

Piedi callosi e deformi

stretti da spesse tomaie

modellate da spago e da pece

fanno il tocco all’uscio.

Non è villania insolente

di cocciuto maldestro cafone

che obbliga a star dietro la porta

per evitarne le crepe

ma necessità di sostituire le mani

occupate a sostenere la spesa

che l’occhio avido

all’apertura misura.

Ora passi leggeri

non più gravati da semenza di chiodi

cunei di protezione a raggiera

per non consumare la suola

non ripetono il gesto

d’una grezza sporta ricolma;

portano se stessi

come offerta di dono

al nuovo discusso padrone

diverso per avere altro nome.

Volti di rughe

scanalature di sculture umane

estranee a correnti e stili

con la pelle arsa

e dura come il cuoio

hanno occhi profondi

fissi a cose ordinarie.

Non hanno pretese

di cambiare il mondo

pur avendo stretto un fucile

e colpito a morte

nemici sconosciuti.

Più nemica è la sorte

che ha sempre negato

con malvagia privazione

anche l’indispensabile

qualche bicchiere in cantina

e la dote stretta più del necessario.

Panni usati al mercato

di sgargianti colori e modelli

fuori moda o riadattamenti grigioverdi

erano lusso e divisa.

Scomparse le inferiorità

la memoria conserva

campi e aie di erbe selvatiche

calpestati da scalzi rampolli

che ignorano la colpa di tanta punizione

e aspettano sicuri l’avvento di giustizia.

Alla terra ribelle

che si è rivoltata

rinsolcando le semine

e disperso i raccolti

fu impegno giurato sui morti,

che piangiamo due volte nel mese di novembre,

di aiutarla a risorgere.

Se le case colorarono cumuli

sporchi di macerie e cose vecchie

la gente si ritrovò

borgo o quartiere

e il nome di paese

non fu un titolo precario.

Rimase la questione lavoro

terremoto da sempre

assieme a frane e siccità

e la terra fu rimossa di nuovo

spogliata di verde e di muschio

fino a cancellare i presepi,

oasi di pruni e agrifogli

e di pergole all’uscio.

Stravolta la campagna

da immensi cantieri

venduti all’asta degli appalti

prendono forma e sostanza

muri di capannoni e di fabbriche

per industrie di rapina

che trasformano noci di cocco.

Intanto la guerra dei poveri

al miraggio ha sacrificato la tregua.

Piccioni viaggiatori

stranieri frettolosi

senza fissa dimora

muovono ali d’emigrazione

ripetendo la stagione degli addii.

Partono senza rimpianti

per uno scontato esodo

privo di giustificazioni e vergogne.

Formiche di risparmio

che si inseguono nella fatica

portano chicchi di grano

provviste per l’inverno

e risparmi per le nuove semine.

Parlano per università di vita

varietà di lingue

che fanno differenza e invidia

ricambiate ad ogni rimpatriata

col dubbio del più fortunato.

Per non saggiare la sfida

e provare di aver torto

di colpo si diventa estranei

e si gira la faccia

che mal sopporta il maligno sospetto

“Ti sei fatto i soldi”.

Per il figliuol prodigo tornato

s’ammazzava un vitello;

ora la festa si estranea

e falsa il mito di un giuramento

di una civiltà superba e superata

che riesce a negare se stessa.

Il suono di campana che segnava mattutino

con flebile lento rintocco

per non disturbare il sonno fortunato

trovava gli uomini nei campi

e le vecchie per la via

per non perdersi il rosario

prima dell’uscita della messa.

Le donne ammassavano farina

o scaldavano pentole di patate;

le più piccole ai porci,

le più grosse, miste a cipolla

e all’unzione dell’olio

denso di pochi filtri,

erano pasto di giornata.

Il suono di mezzogiorno

permetteva la sosta

e l’orcio colmo d’acqua

conservato all’ombra

a turno spegneva vampate di sete

e pareggiava il sudore.

Il suono del vespro

e i restanti riflessi di luce

spremevano le ultime energie

ad alleggerire le scarpe

dalle prese di creta.

Un tocco di campana

egnava ad orologio il tempo

lungo quanto una fatica

ma divenuto inflessibile

finanche a pulire un paio di scarpe di croma.

Molte braccia incrociate

aspettano liberatorie

la parabola del vignaiuolo

non per trattare da mazzieri

sui propri talenti

ma per garantirsi un lavoro.

Un posto qualsiasi,

non pregiudizio o mira di titoli e diplomi

che fanno bella mostra di sé

una collezione da invidia,

è un’idea fissa

l’angoscia del fallito.

Chiamate a capriccio

assumono chiunque al privilegio

adatto incapace

specifico generico

gabbando la severa fiducia

scritta dai padri della patria.

Per altri l’avvenire è dubbio. E’ niente.

Consigli di rispettare l’ordine

fanno riempir domane

e provare inutili concorsi.

Serve arrangiarsi ancora

per qualcosa che capita

alla giornata, a basso costo

lavoro sporco nero

buono per sfruttare una donna o un minore

e l’immigrato nero

che s’accontentano di poco

per rubare il mestiere.

Quando verrà il tempo

di contare i talenti

e i cumuli di guadagno

il Signore non dovrà faticare.

Poco diede e poco potrà pretendere.

E se una verifica va fatta

assoluzione benefica sarà

per debiti pagati ad ipoteca

e prestiti restituiti ad usura

indulgenze che fanno perdere il sonno

e la serenità di vita.

Interferenze di privilegi

gratuite preferenze

già completano i ruoli

dell’inferno terreno

che può essere autentica disperazione

e far morire lo spirito

alle continue prove di peccato.

Qui non c’è scampo.

Debitori di decime

malati cronici di odiosa invidia

pellegrini d’espiazione

emigranti senza sosta

siamo esempi di congiuntura.

Spiccioli di talenti

insufficienti a mucchi per fare moneta

non investono truffe;

sono offerte al bisogno

pegni d’umanità al momento

senza richiesta di grazia.

Salici amari piangenti

piantati a vegliare il sonno

e a ombreggiare il palazzo

come guardie del corpo del potente

sono isolati a sdegno

miseri e trascurati

tra alberi esotici e d’ornamento.

Rami elastici si curvano

all’inclemenza del tempo

e all’azione di forza

fino ad avvolgersi

come numeri di contorsionista

in continuo esercizio.

Sarmenti di gente

usata e derisa

per mostrare parvenze di parità

sono maschere senza rispetto

da restituire a se stesse,

suola da battere

per provata durezza

con violenza di martello.

Immagine d’infamia

da castigare in eterno

redimi

l’umana contraddizione

che ti sceglie convinta

a simbolo di lotta.

Folgore di lusinga

raduni popoli sottovoce

o incoraggi l’urlo alla rivolta.

Per cambiare le cose del Sud

quelle che sono la nostra vera questione

abbiamo atteso uomini di ferro

angeli sterminatori di razza umana

resistenti alla ruggine

e ai malefici influssi

del sempiterno potere.

Alleluia hanno salutato profeti

di questa e dell’altra Italia

per una rivoluzione mancata

decalogo di princìpi libertari

e di miracoli economici

evanescenti come false parole.

Ingiurie degli uomini

padroni mediatori di carriera

e di ogni favore che spiana la via

soffocano i poveri senza tutela

abituati a fare la fila

in piedi e a capo scoperto

come religione comanda.

Comete non tracciano percorsi

né annunciano meraviglie del creato

prolifico di generazioni e razze

ma sterile di qualche uomo nuovo.

Natura violenta e matrigna

raccogli promesse e rimandi

e colpe di responsabilità

senza ribattere nulla.

Usa la nostra voce

non sarai né muta né sola.

Tante parole

assoli miste e a cori

voci in piena, a cascata e a vortici

e di anonimi pantani

sono messaggi d’intesa

verità frottole e frasi rituali

per continuare la vita.

Un sogno rincuora l’alba

caccia tenebre e ombre

a scongiurare notti

di crisi e tempi lunghi

che svuotano la nostra terra insonne

e paesi e civiltà di ogni terra.

Con fremiti di sdegno ricorda

le colpe di continuar la resa.

Sguardi al passato

rincorsi con occhio inquisitore

pescano amarezze;

rinfacciano fallimenti

agli anni sprecati in silenzio

a contentarsi del poco

che non sa sfidare il tempo;

rifiutano la complice storia

carica di tante parole

e di qualche inutile gesto.

Parole di poesia

esatte mute o violente

comune compendio di vita

sono compagne al meglio

per diversa umana condizione

sulla soglia dell’attesa.

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