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Hanno detto..

RACCOLTA “UMANGRAFFITI”

 
Dedica

Prefazione di Giovanni Russo

Nota dell' Autore

Umangraffiti


A Rina 
compagna di vita 
nel silenzio e nel logos

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P R E F A Z I O N E

La frantumazione civile e sociale di un mondo che si era mantenuto per secoli nel suo immobile equilibrio, in Irpinia, provocata dal terremoto del 1980 ha rappresentato anche la “scoperta” della fine di un mezzogiorno chiuso e antico.
Non poteva questo avvenimento, che è stato per tanti versi rimosso dalla coscienza collettiva, non provocare anche testimonianze poetiche. Soprattutto nel Sud la fuga verso l’immaginazione poetica è spesso un modo per evadere dal confronto con una realtà che sembra impossibile scalfire.
Non è il caso di Giuseppe Iuliano che è riuscito a comporre un vero “racconto-poema” sulle impressioni, sui sentimenti, che l’evento ha provocato. Non vorremmo però ridurre certo questa opera soltanto all’episodio del terremoto. Certo è che esso deve aver rappresentato una svolta nella poetica dello Iuliano se lo ha indotto a questo lungo esperimento in cui si indovinano le influenze di Pasolini come quelle più antiche della poesia ermetica e di quella futurista.
Certe immagini ne sono l’innegabile testimonianza, quasi in contraddizione con l’angoscia della morte.
Si pensi a questi versi: “Caraffe e bricchi - d’argento acciaio, porcellana-creta - grezzi, a smalto o cesello – vanto di diversi corredi – zampillano con uguale allegria.” dove la parola “allegria” non deve suonare strana in un mondo vinto non solo dalla sciagura ma anche dalla polvere, come dice Iuliano, di idee, di vecchi e grandi pesi. Come nelle “Ceneri di Gramsci” di Pasolini, Iuliano ripercorre l’epopea del dramma meridionale partendo proprio dallo squarcio di polvere, di fumo, dalla frana del terremoto e cercando motivi di speranza, esorcismi contro gli spettri del passato per ricostituire, anche attraverso lo spazio della fantasia, un’idea di speranza.
Accanto al ricordo antico di un Mezzogiorno arcadico, alla bellezza di un paesaggio incontaminato (dove forse più autentica è la capacità di rappresentazione poetica della “terra irpina – enfatica Elvezia del Sud”) c’è la consapevolezza dei drammi dell’emigrazione, della falsa industrializzazione e infine del crollo di tante illusioni.
Ma queste nostre parole non ingannino sulla costruzione e sulla atmosfera del componimento poetico dello Iuliano. Esso dà questi fatti e queste storie come dei presupposti per rappresentare, al di fuori di un comodo populismo, il suo sogno letterario con immagini che continuamente si rincorrono e si richiamano come in una eco mai interrotta.

Giovanni Russo   

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Nota dell' Autore

Scrivere di se stessi è, ad un tempo, compito agevole ed ingrato. E’ innegabile che ognuno conosca la propria storia meglio di chiunque altro, ma i rischi di panegirico e di autoesaltazione – nessuno è tanto disamorato da rinnegarsi – potrebbero condizionare la veridicità dell’assunto.
La frequenza inquinante, tuttavia, oltre a possibili carte false, riesca a dare elementi e notizie che illustrano e chiariscono, a tutti, ragioni di vita e scelte culturali e artistiche.
Tutto questo capita quando manca l’interlocutore e, soprattutto, se il messaggio propositivo affonda le sue radici nella poesia. La libertà di pensiero spazia, non conosce limiti e censure, condensa creatività e proposte ma per essere universale deve diventare comprensibile. La trasgressione, la fantasia, il mondo interiore e motivazionale, le impressioni e le pressioni esterne, il linguaggio possono non permettere un’adeguata chiarezza e un’immediata percezione. Ricorrere alla spiegazione o ai commenti è diventato perciò una certezza d’uso.
L’anticipazione è obbligatoria anche per questa raccolta.
Almeno come liturgia letteraria.
Umangraffiti” è un altro approdo della mia esperienza umana e poetica. Patrimonio di vita, eredità senza preferenze considera i segni che ciascun uomo di sempre, per estrazione, cultura e fede, lascia consacrando al tempo ed alla sua continuità: alcuni nitidi non procurano incertezze e sono da imitare; altri labili e sfocati sono da ignorare; altri ancora negativi da aborrire. Ma tutti insieme insegnamenti di vita.
Su queste linee essenziali e di facile riscontro convergono e si saldano, per non tradire la coralità della poetica, aspetti marginali, presenze di diversa voce e storia, ma pur essi graffiti di dolore, di lotta e di speranza.
Le spinte e le osservazioni meridionali, escludendo ritorsioni e ideologie di sudismo, ben si conciliano con l’universalità della poesia, che è mosaico organico dell’animo umano.
A Giovanni Russo, editorialista del Corriere della Sera e qualificato esponente del “meridionalismo della ragione”, vada la mia gratitudine per l’affettuosa disponibilità a presentare questa raccolta; ad Antonio Bertè, assertore, con pari efficacia, del linguaggio delle Belle arti e dei sentimenti umani, la mia riconoscenza per la sollecita collaborazione.
La sintonia di problemi e di fiducia nell’uomo ci fa parlare un linguaggio comune comprensibile; serve a rimuovere le incrostazioni e la polvere dall’evento fatale e dalla rassegnazione; preme a riscattare l’ansia di libertà dalla servitù e dalla paura.
30.08.87

                                                                                              Giuseppe Iuliano

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Umangraffiti

Nello spazio campana di vetro

frammenti e scorie

volteggiano come polvere di neve.

Ripetono la corsa

nel tempo senza posarsi,

inseguendolo come schiava

felice di non poterlo fermare.

Soffocano la bocca arsa

che mastica il secco

ma detesta e osanna l’incerta divinità.

Nume da inventare con fede blasfema

senza riti immolanti o propizi

né patrocinio di oracoli e basiliche

fisserai dimora-santuario

nella casa degli dei.

Nei cieli o negli inferi

devi esistere. Pur con empio sacrilegio.

Turbine di forza di natura

nunzio del vento e dell’aria

tergi, mistifichi e scopri

senso e immagini di cose.

Anche questo è potere.

Incanto di fate morgane

nascondi il diverso

sotto coltri diffuse

di patine biancastre

che filtrano colori

nella monotonia dell’uguale.

Arabesco o uniforme scheggi la vita

di graffiti umani.

Santa virtù di misteri

carisma di teologia laica

cingi la celeste aureola

benda santificante dell’eresia.

L’immagine a somiglianza

non affraterna distanze

né sentenzia virtù e difetti

con pari giudizio

per appartenere all’eterno.

La nuova liturgia è già stanco rituale

e spergiura le illusioni

scale di seta da sciogliere e annodare

che resistono attimi ed occasioni

senza convincere.

Tutto ritorna all’uomo.

Libero di cercarsi vita e destino

scioglie il voto dei comandamenti

per calzare i piedi flessi sollevati

che fremono di foga a manifeste ragioni.

Lancia con gola di attesa la sida-preghiera

e rincorre nel sordo cielo la pista umana

in viaggio con carovane di generazioni

che stringono il morso del futuro.

Passi certi segnano la strada

pronti alla sfida o alla sosta

come suggerisce la vita.

Altri calcano l’ignoto

con diverso incedere di forme,

traiettorie visibili per nuova umanità

che affida al lavoro semi e fortune.

Al chiarore obbligato del fuoco

famiglie sommerse

sprangavano rifugi.

Abili graffi

laceravano volte e pareti

d’impressioni vissute

diventate storia di civiltà.

Maschere votive

camuffavano la paura

tra scongiuri e sortilegi

talora efficaci nel computo di probabilità

per non essere colpiti nel vivo

da ogni forma di male.

Gesti e sembianze in ritratto

erano linguaggio di murales

incisi con pochi colori.

Allo scoperto di luce solare

che illumina la notte dei tempi

violata nella custodia

di segreti e paure

portiamo forme e pensieri

di libera individualità.

Immagini contemporanee

nascondono maschere reali

di dubbia personalità

chiusa in caverne di coscienza

rassegnata alla libera parola.

Dentro e fuori il buio

contiamo graffi di vita

tracciati su pareti diverse.

Segni di onesta fatica

dividono i solchi

di umida terra rimossa

che nasconde bisacce di polvere

in galleria di radica con tane di vermi.

E’ la forza della vanga.

La sacca è rivoltata all’aria

e il mantice gonfio del vento

soffia negli occhi inutili bruciori.

Altrove orbite spalancate

leggono il buio

e le crepe del piccone compressore

che scrosta la tonaca di terra

lasciando in eredità

spiccioli di pensione

e meccaniche convulsioni.

E’ il sacrificio dei poveri.

Lastre di pietra

tavole di legge di natura

spezzano idoli di produzione

invocati senza abiura

e scaglie anonime di esplosione

diventano provvida cascata.

E’ impeto di polvere nera.

Affanni e sussulti serrati con paura

chiedono di non morire

al buio o al sole.

Raccolgono con lena

l’estranea classista

diversificante polvere d’oro.

Altra di poco prezzo

muove frenetica la macina

che affonda rulli e lame

senza empietà né riti sanguinari

nella pienezza dell’impasto.

Veli di zucchero

minuscoli cristalli

planano senza saltelli

su distese di latte in sintesi

con tinte di densi marroni

o schiumosi neri

e placano voglie e desideri.

Caraffe e bricchi

d’argento-acciaio, porcellana-creta

grezzi, a smalto o cesello

vanto di diversi corredi

zampillano con uguale allegria.

Saziano sempre la bocca

bisognosa di solo alimento.

Invidia e rancore

sentimenti di sorte malvagia

lievitano l’odiata distanza

e l’inferiorità di classe.

Vinti nella polvere da sporca miseria

povera anche di idee

rotolano animali feriti

scarti umani malati

rifiuti di mense civili

bastevoli di carità di colonia

per nuova schiavitù.

Una manciata di roba

è il primo segno di differenza

poi cumula interessi

e le distanze non si contano più.

La povertà è già servitù

e piega i deboli a raspare la terra

per camminare almeno in ginocchio.

Nessuno ha scelto per virtù

la sferza del padrone

e il mestiere di guardia

di cane ringhioso.

Poi rispetta la cuccia

e non spezza la catena;

non teme la sudicia rogna

e lancia all’aria

latrati di lamento senza messaggi

e aspetta rizzando l’orecchio

inutili risposte.

Bastardi e di razza

di punta o da salotto

con vecchi blasoni e nuovi pedigree

vantano il collare

e la zuppa sicura.

Abili leccano a moine

con sperimentato guaito

diversi padroni

titolari di ogni fedeltà.

Il randagio corre al minimo sospetto

e gli avvampa l’occhio

all’insidia del calappio.

Forse è disprezzo o paura

questa vita costretta al rifiuto

genitrice di figli di NN

che non riconosce padre e madre

né vuole pietose adozioni.

La desiderata paga

conta soldi veri

compra, svende coscienze

a prezzi diversi.

Quasi mai affranca.

Pregressa umanità al mercato

non è più il tuo mondo

sognato con disegni di pace

pulito nell’acqua e nell’aria

sincero di sentimenti d’amore.

Ali di libellula

cercano intatte posti nascosti

per provare impossibili voli.

Silenziosi ronzii

misurano distanze

e volteggiano prima di posarsi

su infidi miraggi di rovi.

Masticano polveri di loto

prigionieri

d’inoculato veleno

che provoca sussulti

e sbarra gli occhi e il passo

nell’inebriante visione.

Ali macchiate pesanti

pagano al volo l’orrore dell’inganno.

A riflessi di specchio

con arroganza matrigna

chiedi miraggi di aiuto

e tenti magie e sortilegi

per vincere gli anni e il volto disfatto.

Per esserti complice.

Arcobaleni di rimmel

mosaici di fard di mostra campionaria

di pubblicità made in Paris

con certificato di garanzia in multilingue

riempiono i solchi del viso

umettando dita di narcisismo.

Restaurate le croste all’unguento

nell’intruglio di gel e cere

con sbuffi di piumini di cipria

che spandono nubi odorose,

costruisci la tua maschera.

Scampo di metamorfosi.

Malizia di civetteria

pretendi l’acerbo

sull’albero tarlato pronto al rogo

che cerca l’impossibile linfa

per stendere germogli e radici.

E dietro porti segni di stanchezza

strascichi di galanteria

di amori traditi o falliti

di ricerche affannose.

Logora e disfatta

ammicchi languida e seriosa

gli ultimi espedienti di donna.

Smorfie e garbati sorrisi

d’ingenuità e malizia

essenze di femminilità

alternano desiderio e gelosia

e l’instabilità dell’animo.

Carezze di donna

promesse di suo amore

svegliano il sonno

conciliano il riposo

per saziare di baci e sospiri

o accettare l’ingenuo digiuno.

Generose ed egoiste chimere

per somma di piaceri o rancori

scelgono a difesa l’amore

eterno quanto la memoria

resistente per durata degli anni

breve come una passione.

Nessuno vi sfugge per sorte

ma porta con sé una storia

vera amara felice

che gli rovina o esalta la vita

maledetta o goduta.

Senza una donna neppure ombra perversa

è anticipare l’oblio

stravolgere la mente e il pensiero.

Donna! proprio tu raccogli

e disperdi tra braccia e capricci

la fierezza e la voglia di logica

sopraffatte dal mistero

che ci tiene insieme più di ogni cosa.

Manie di trucco

fisime di alitare personalità nella creta

rifiutando la propria

non perseguitano ansie vogliose

né procurano pena a contare

le rughe e la faccia sporca

di grasso e di fumo

che inghiotti a sbafo nella fabbrica.

Ma non ti detesti.

Affidi al sapone di poca reclame

avaro di portenti, scarico di profumi

la libertà delle mani

legnose di porri e ferite

con isole di nero che tardano a scomparire

nella pressante marea.

L’inutile gesto invoca pazienza.

Canne di polmoni

mantici a risucchio

di ciminiere senza sfiatatoi

non filtrano fumo e polvere nera;

addensano scorie indigeste

di ferro, marmo e segatura

veleni lenti corrosivi

dell’emancipante lavoro

che sgrana la vita

e la fame di salario

e le esigenze sociali.

Perfido intrigo sazi di piombo

il cuore metallurgico

e gli appesantisci gli occhi di sonno.

Gli occhi prendevano colori

di raggiere esplosive

sospese al buio nell’aria

e nello scoppio si chiudevano a protezione

accompagnando la bocca semiaperta

per assorbire il colpo.

Meraviglie della festa di luglio

s’illuminavano nell’artificio di bombecarta

che stordivano l’orecchio

con scariche di tracchi

e vortici di piogge d’argento.

Cortine di fumo immobili

o a spasso nel vento

coprivano ombre riverse o supplicanti

con gli occhi stanchi colorati di papavero.

Disgrazie tenute a distanza

con l’abitino della Madonna

talismano di vita

freddo come la piastrina di ferro,

insieme al collo per non perdere nome e fede,

erano vicini e dentro il colpo di fucile.

I figli per guadagnarsi la pace

non chiesero giustizia

né intonarono peana

contro vecchi nemici e nuove potenze.

Gridano su rotaie di morte

lo squasso di polveri senza fumo

che avvolgono le speranze a lutto

della vigilia di Natale

o di una feria d’agosto.

La memoria stipa nello scrigno del tempo

fotogrammi di cronistoria

diversi per vicenda

e malata di dolorosa pazzia

non cuce camicie di forza.

Ombre e nebbie popolano

la cupa sfera della vita

ristretta nell’incanto della magia

con parabole di luci

convergenti bagliori di lusinghe.

Le verità restano misteri filosofali

e spremono la logica nell’idea

avida di conoscere

compressa e sottratta

dalle unghie di Thanatos

che spezza l’àncora dal sole

all’improvviso fragile ragnatela

scucita da Aracne.

Rimpianti di forza

non gonfiano i muscoli

laceri e sfibrati

come corda di nave senza pace

e invocano Eros

avvizzito e stanco

naufrago su relitti di sensi

governati ancora senza resa

e pronti a sacrificare l’ultime energie.

Sciolti i nodi morsi e insalivati

consegna l’anima di sego scarica di corda

al pizzico di cenere.

Una ventosa d’omertà ghermisce a piovra

con tentacoli di collaborazionismo

il sudicio permesso

ai trafficanti di potere

nella tratta della legalità.

Pietre di scandalo

rotolano a frana

rimbalzando nella corsa

per travolgere l’opinione pubblica

assertrice qualunque di: “Io sapevo”.

Squarciati i veli

di profanati santuari

crollano pratiche di miti

meteore subito opache

di corpo freddo

di provocato collasso.

Nemesi compensa le colpe,

se commedia non distorce la trama,

e il mestatore svelto di mano

passa la disonestà a martirologio

vittima di sacrificio di espiazione

di umanità serva e distratta.

La polvere rimossa

prima di posarsi

s’invola in nuovi soffi

prestigiando acrobazie d’illusionismo

e insabbia le vicende

sempre più fosche ed irreali

per lanci di catapulta di capibranco

ormai esperti nel mestiere di verri.

Conosci a memoria con piglio istrionico

l’abituale monologo di atto unico

di recite replicate

nelle avversità.

Il letargo di abitudini

è seme di papavero nelle vene

per chi ha paura di esporsi

e di far valere le proprie ragioni.

L’aspirazione al silenzio

soffoca rivalse della voce

e frena le mani nervose

ai torti subiti con stoica rinuncia

per non compromettere la quiete.

Affondi la testa di gru

nei pantani, cieca al circostante

ferma nelle provocazioni

inalberando figure inservibili

che esercitano gli anni provati

sulle acque di Lete,

sacrificandoli al dimenticatoio.

Il morso provoca la bocca

e frena l’onore

già morto al coraggio

e venduto all’orgoglio

per paura di perdere la pace

trattata all’intesa.

Ma dignità diventa virtù

e solleva dalla polvere fantocci e marionette

sottratti alla fatale soggezione

con l’urlo di rabbia del riscatto.

Nebbie di fumo cortine aromatiche

di monopolio o estere, economie di contrabbando

a cerchi, a fili o a cirri

vagano ombre di compagnia

a riempire la solitudine.

Lo sguardo fisso erma incupita

penetra il silenzio e le barriere della stanza

recinto dell’anima in pena

assorta nel ricordo.

Immagini si rincorrono

sole, a coppie, eteree, incerte

poi diventano spettri di corpo e di voce

a popolare il circostante.

Figure si moltiplicano

come reazione a catena

mormorando cori di consigli

o di censure morali.

Sembianze conosciute

desiderate quanto la fortuna

ragioni plausibili del vizio

si staccano dall’anonimo gruppo

e sorreggono il cuore

ansioso di seguire le movenze

avido di abbracciare le ombre.

L’idillio insperato è permesso,

il sogno s’avvera per incanto

ma lento il fumo s’innalza

e disperde presenze e fantasmi

lasciando di sé cicche indurite

tra zolle di cenere.

Tentazioni di sirene

non colpirono la tua fantasia

per varcare Scilla e Cariddi

e il desiderio dell’arcano.

Fremiti di amore

impulsi dell’anima in piena

sorda ad ogni ragione

inseguirono passi e movenze

di ragazza in fiore.

Amore non tradì sua natura

tra sospiri e promesse

giurati a sacramento su piccoli nati

fino all’addio della guerra

divenuta prigionia.

Libertà durò accresciute miserie

e il senso di colpa di restare

logoro entusiasmo

di occasioni fallite

destinate al viaggio

per cercare il futuro.

Maratone di binari in manovra

assalti di mareggiate e scossoni

non fermarono la corsa

lesta incerta o con pause

fino alla vera rimpatriata.

Un vecchio mastro confuso

da dolorosa comica pazzia

rinfaccia a tutti che una silfide

amata per qualche stagione

ha tradito la sua prigionia.

Quasi con rito afrodisiaco

stringi pizzichi di voluttà

di essenza di tabacco

che mastichi con gusto

o stuzzichi annusando

con reazioni di starnuto.

Con gesto snob ammaliatore

affondi il trinciato

tirando boccate

dal calumet della tua pace.

Consuntivo di ricordi

pesi la validità dei giorni

con la tua sentenza di giudizio

senza possibilità di appello.

Testimone di vicende

imputato di errori

vorresti incatenarti alla vita

col desiderio dell’eterno.

Leggi le pagine del libro da titolare

soffiando su lettere consunte

grani di polverine che asciugano

quasi a rinsanguarle

il flusso e l’energia passata.

I segreti diventano immagini

permettendo il comune dominio

di azioni nascoste

di debolezze, arroganze e vergogne

che ti hanno fatto persona

costruendoti un nome

sbiadito come caratteri di libro.

Per disperdere la livida angoscia

spirito malvagio nelle crepe dei muri

e nelle pieghe dell’anima anemica di cultura

ripetevano esorcismi del male.

L’invidia abbatteva il maiale

senza scannarlo portando

morie all’intero pollaio

e febbri maligne alla salute degli uomini.

Feste votive di gennaio

sfidavano la neve restituendola all’acqua

sotto le lingue di fuoco al vento

dei falò in rioni e contrade.

Suoni di campanacci di danze tarantolate

singultivano in note e ritmi

per salti di scongiuro sul polveraccio

che nell’omelia dei battenti

si attaccava vischioso alla terra.

Brace viva sacrificale

raccolta senza sparagno

illuminava benedetta

spettri tisici di focolari

profumati di castagne e patate in arrosto.

Le porte sibilavano al vento

violentate nelle fessure

e ognuna incorniciava nel mezzo

l’immagine nuova del Santo

compagno protettore del domestico.

Soffocati i bagliori dispersi nel riverbero

e nei carboni consumati o spenti

la cenere impolverava nel tempo la voglia di vivere.

In un raggio di sole

filtrante al chiuso quasi proiezione di faro

da una posizione di controluce

conti punti sospesi nell’aria

nell’esercizio di danze sconosciute

in un continuo oscillare.

Macchie d’atmosfera

di sostanze diverse

sussultano al movimento,

lucciole stordite

e spore di funghi tossici

seminano nell’aria carica di nucleare

il loglio infettante di malattia.

L’aria conserva l’invisibile

e scarica la raccolta energia

per mestiere di untore

in ogni lembo di terra

con la velocità del vento.

L’erba si avvelena,

langue l’agnello smagrito dal maligno

e curva l’uomo

a piangersi gli errori

di colpa e fatalità.

Miriadi di atomi al pulviscolo

plotoni incolori o fluorescenti

assolvono l’esecuzione

con danze di morte

tra grida di pietà.

L’uomo omaggia  al progresso

spartiti di contraddizione.

Da cartoline raccogli con animo collezionista

sagome estranee di paesaggi

tra cime innevate o caldi tramonti

in diversa trasparenza di stagione.

Solitario percorri strade in salita

spingendo sulle punte

per non perdere l’equilibrio

e scivolare nel vuoto.

Padrone dei boschi, Aminta col transistor

salti tra i rovi e le felci

sfiorando gli aghi di pino

e i virgulti non potati

che sferzano il corpo scoperto.

Cittadino del tuo mondo

circoscritto al silenzio

non invidi metropoli di folle in corsa

né lidi assolati di gente

formicolanti nell’anonimia

in attesa dei propri destini.

Distese di sabbia

carezzano le onde del mare

e frenano il fragoroso furore

per restituire pace alla vista.

Visioni valicano i monti

confortano i sogni di novità.

Ma poco t’importa di evadere

neppure costretto dal mancato mestiere

e paghi all’orgoglio di restare

il sacrificio dell’arrangiarsi

estraneo a rispetto e protezione.

Paese di gente ruffiana

di madri operose

e di padri lontani

raccontavi storie di fame e di intrighi

di vecchi ubriachi e di donne perdute

nel vizio comune di amori e bisogni.

Pudico nascondevi ipocrite vergogne

dietro imposte serrate

prigioniere di cultura e morale

marcite da sferze di acqua e di gelo

che soffocavano le altre stagioni

vive di passaggio.

Paese di stesse covate

di feste votive

di allegre brigate

di emigranti e santi

ognuno nella sua processione

così tramandavi la storia passata.

Rotta la maledizione

eccoti un altro sortilegio

per sopportare un nuovo digiuno

di destino impietoso.

La tua voce all’avvento

riempì strade e città

con richieste di onore e di gloria

allo scaltro orditore di falsa unità

malata di frasi fatte

di logora ideologia da usare

che separò nel vero i già divisi.

Paese ora puoi contare gli osanna.

Quando il sole bruciava le zolle

l’umido terriccio risecchiva

e sfarinandosi costruiva piccole dune

maledette dal vento

che soffiando rubava la terra.

Quell’unico nemico invisibile

sfidava la veglia e la lama dell’ascia

che consumava pietra pomice per l’affilatura.

Di generoso c’era solo il suo nome.

Curvo con lo sguardo rivolto alla china

raccoglieva con provata mania

la terra caduta sulla strada.

Con animo inquieto inchiodava la zappa

saltava il limite

sbuffando al ripetuto gesto

per riprendere il possesso del suo.

La voce mordeva il silenzio nelle ore diverse

per avvisare a timore fin verso i confini

presenze furtive o nemiche:

“Son qua, ora vengo”.

Come un dio agreste

proteggeva le messi con la falce

e ricordava Tata e Vava

Lari mai protetti né protettori

di maledetta miseria e di snervante fatica

senza canti di ninfe né suoni di siringhe.

Nella stessa campagna di case e trattori

senza pezze al sedere

la voce generosa piange l’asino morto

che or si piglia un altro pezzo di terra.

Su cappelli ornati di piume

col vestito di panno buono della festa

tornavano dal Gargano pellegrini di feria

intonando la canzone dell’Arcangelo

per grazia ricevuta.

Rinnovavano l’antico patto

lungo quanto la vita

di salutare protezione

privato come la coscienza.

Il gesto diventava caparra

di filiazione

ripetuto a piedi scalzi

o con richieste invocate in ginocchio

strisciando scale e navate

con la lingua di serpe

a mangiare polvere di scarpe,

per chi il benedetto era calpestio

e poteva chiedere in piedi.

Diversità di fede

offriva il capo alla cenere

che argentava i capelli

e confortava deliri di lutto

di barbe incolte e di vesti nere

portate stagioni ed anni

per le incipienti morie.

Frutti di carrubo

diventavano chicche

consolando gli assenti

che sputavano i duri semi sterili

tra morte polveri di montagna.

La tua storia di popolo

è un’epica di eroi borghesi

la cui saga è un libro d’infamia,

racconta imposture

e non ha patito anni di confine.

Scie luminose diventano comete

per offuscare il brillio delle stelle

e solcano il cielo

con fremiti di meraviglie e paure

per confortare i natali

di chi ha bisogno di credere.

I miti fanno diventare ciechi

e invogliano al plagio l’indifeso

costringendolo all’imitazione

ma riscaldano la ruggine e l’ira

oliando gli impulsi dell’animo

che scattano come molle compresse

alla provocazione.

Polvere di stelle

attacca alla mente odiosa insofferenza

e, quando tocca gli occhi,

aggruma sangue e lacrime

cocenti di pena e rabbia.

Grossi progetti segnano le mappe

distinguono programmi di aree di sviluppo

e difendono la solitaria ciminiera

figlia unica d’incubatrice

disponibile alla disputa dei passeri

che a colpi di ala

si contendono sparute beccate.

Su aree di sedimento

prati disserbati dal cemento

incrosta la polvere vulcanica

sospinta a spasso nell’aria

tra bagliori di luce ocra

presagio ciclico

di fatalità.

Cupa la terra si avvolge

a maledire la paura

battendosi il petto a discolpa

e chiedendo perdono

di peccati e disonestà.

Paesaggi con dominanza in rosso

quasi luce da camera oscura

vissero come per una soffiata

il giorno del giudizio.

Penitenze improvvise

assicurarono il suffragio

per una morte che disertò

il compito, perché pronta non era.

Fu la storia di un anno

racconto assillante di vecchi

che fioccò cenere al posto di neve

in terre segnate a lutto

da siccità e malaria.

Ma non ci fu preavviso

quando sussultò la terra

col coltello nel ventre

e la polvere risecchì la gola

soffocandole il grido d’aiuto.

Sciami di case punteggiano la terra

riversa dal male e sterile

tra mucchi di pietra scolorita

a disegnare forme e misure

di nuove visioni.

Paesi estranei alla storia

vivi per sorte clandestina

malvagi come erbacce cocciute

al colpo di falce o di mano

coltivaste errori debiti e gabelle

cresciuti come semi di gramigna;

conservate memorie stemmi e palazzi

vuoti come le morte tenute

spremute a sangue ed arsura

del lavoro di uomini e animali

nati servi per stesso legame

a dividersi ricoveri e fatica.

Ricordi del tempo passato

violentato da miseria e servitù

scontrano il presente

lontano e dimentico di giorni infelici.

Rotto il retaggio d’inferiorità

giovani a schiera

parlano a comprensione

su barricate opposte

linguaggi d’idee e di crescita.

Ragazze serve due volte

possiedono uguale dignità.

Dopo secoli di conservazione

anche le case gridano ai tempi nuovi.

Color verde era la mia valle

cinta da giogaie innevate e digradanti

colture diverse e terre abbandonate,

guerrieri senza armatura,

rifugio di lupi e di volpi

che si litigavano il territorio

come per ogni potere.

Intrecci di albero

di olmo e di castagno

fermavano i raggi del sole

senza mediazione biblica

e i rami vibravano

perdendo il selvaggio

all’innesto del potatore.

Acque sorgive generavano fiumi

in anse vorticose e stagnanti

da mirarvi il fondo a specchio.

E se la natura vanesia

di rigogliosa vegetazione

era povera di raccolti,

con un lamento fisso di gente

conservava la sua faccia

dura, resistente al precario.

Stravolta la terra in degrado

colorata di schiume e veleni

di compromessa salute

tossisce all’aria inquinata

la natura maledetta al contrario

garante di filtri smagliati

da cui da tempo son passate le allodole.

Divergenze ci portano allo scontro

coinvolti nel tifo di ultrà

per attaccamento alla squadra.

Esibizioni di leader

di varietà d’ideologia

di idolo in assolo

con invasato delirio di gregari

tra slogan e bandiere in parata

placano gli animi

e coprono gli intrighi.

Sei anni ha atteso il cratere

per la fabbrica e il posto sicuro

invocato a scendere dal cielo

come il volo dei ministri

con sembianze di divinità.

Oltre i cancelli

con catenacci di presidio

di esclusione giovani disoccupati

linguano bocche di fuoco

e fischiano il gabbato diritto

della preferenza, usata nel ruolo di serva.

La terra irpina

enfatica Elvezia del Sud

divisa da cantoni d’industrie

genera cellule impazzite

da logorata pazienza.

Dalla Svizzera parole maledette

segnano gli stampi in produzione

di lontane amare focacce.

E’ triste contarsi le ossa

come un condannato al Cranio

che ansima gli ultimi respiri

per non rendere l’anima.

Il tempo ineluttabile

respinge la difesa ad oltranza

e lascia scorrere i grani residui

dell’inflessibile clessidra

affidando all’eternità o alla fine

i diversi incerti pensieri.

Prima del fatidico abbandono

di svuotamento progressivo

toppe di polvere di drago

hanno seccato il quaglio

dissolvendo il muro delle tenebre.

Resine profumate

incantano il male

e il provato dolore

urlato o in silenzio

di smanie senza riposo

fino al contorcimento.

L’ossessione inghiotte

pillole di coraggio e medicina

e smuove il recinto del possibile

o allenta le forze

nelle pieghe di braccia pensili

rubando stanche illusioni

tra lucidità e delirio

dell’ultima performance.

Nella sua stagione di fiore

un cardo destinato alla fiamma

bruciava semi e giovinezza.

Solo, in una fase di luna

di una notte di giugno

diventava auspicio di sopravvivenza

per un figlio disperso

nella campagna di Russia.

La vecchia rinnovava la pratica

mai preda di un sonno ansioso

nell’attesa rivelatrice della luce

per il responso annuale.

Il cardo secco bruciato

possessore di un’anima

germinava fiori

rinsanguando la vita di certa speranza.

La figlia sacrificava un uovo

sciogliendo al Santo l’albume.

Il bicchiere fatato increspava

e restituiva alla vista

visioni di alberi e pennoni

di mirabili velieri

padroni dell’Oceano.

Quella casa non conobbe

altri arrivi e partenze.

Raccolse spine di cardo

che segnarono gli anni non più contati

e conservò prigionieri

i sogni del viaggio.

Misteri di vita senza più misteri.

Realtà sfiguri il quotidiano

violi le misure di controllo

con sfacciata impunità

complici le angosce

che sfrenano isolate follie.

La serenità è compromessa

e cede al sospetto

ogni decisione, anche la più vera

inossidabile alla prova

ma freme all’attacco

e se disunita indurisce il volto

e avvampa gli occhi

pronti a scaricar vendetta.

Guerra di famiglia scontra gli interessi

divide capi e fazioni

che si litigano il privilegio

del migliore.

Masaniello o liberatore

lesto a far morale e pulizia

e a sdegnare le facce

delle edicole avverse.

Trasparenza di parole ammaga

le rivalse dell’ammutinamento

deciso a dividersi il barile

e a piangere lacrime di ubriachezza.

Passate la festa e la furia

corsari e pirati giurano la tregua

stringendo mani di lealtà

abili allo scannatoio

e ai gesti del diviso comando.

Un pugno di malvoni

domina cespi e sterpaglie

differenziando costoni e distese

di stoppie e covoni o prati uniformi

di verde visibile alla nebbia e al sole.

Si ergono a sprazzi

fiori di malvarosa

isole di colore

tra erba medica e cicoria

che nascondono insidie

di ortica e cicuta.

Malvoni e papaveri

diventano nella propria stagione

fiori dei poveri

semi spontanei cresciuti a caso

con forza di natura.

Sparsi senza ordine

non cantano ringraziamenti

vivi come uomini di stessa terra

estranei all’idea dell’uguale

ridotta al prestito o all’usura

che matura sempre interessi.

Voglia di serenità

sai dannarti la salute e gli anni

e negare i sensi al vicino

dal passo indifferente o molesto

con le stesse premure.

Malvoni secchi e sfiduciati

stringono mani di ortiche

e calici di cicuta al brindisi.

Tra sfumature di grisaglie

offri l’immagine sullo schermo

con comparse e protagonismi

che portano via gli anni

sgranati come rosari verso gli ultimi amen.

Le tappe del tuo giro

percorse con pedali di resistenza

mobili alla leva del cambio

contano frenate e cadute

senza rinunciare all’arrivo.

Calpesti strade

tra ciottoli d’indifferenza

dannosi all’equilibrio

e cadendo annaspi e mordi la lingua

per non mangiare la polvere su lance di selce

che incrostano e segnano ferite

con fili di seta cuciti alla vita.

Svanite le brume

gli occhi naufraghi nel buio

approdano alla luce con gomene di speranza.

Scrolli il sudicio dai panni strappati

e sfreghi le mani dolenti

passate in corsa sulla pelle

a confortare il dolore.

Vesti a nuovo e conservi

con pretese di esclusività

capi e modelli di firma

per ostentare classe e stile,

ma custodisci solo reliquie

tra spigo profumato.

Formule magiche

incantavano serpenti

striscianti a comando

con rispettosa ubbidienza.

Una voce modulava sibili

ripetendo antiche pratiche

di misteri

che stravolgevano la natura

e l’indole di ogni bestia.

Quel rito di segreti fascinanti

superava i confini della prigione

purgatorio o inferno in terra

per pagare la pena da scontare

del giudizio umano.

Quel patrimonio di carriera

di delinquenza curriculare

alla riacquistata libertà

spingeva curiose meraviglie,

di gente normale

incapace di nuocere,

a persistente invidia.

L’untore di cattiveria

esempio da scansare

godeva ammirato rispetto

per le strane virtù

mentre strisciava sulla sua coscienza

velenoso serpe sociale.

Quel segreto mai rivelato

ritorna a far compagnia

tra fitte sbarre cariche di tenebre.

Questa terra non è vanto di paradiso

né partorisce angeli eletti,

ingenuo straniero di terre vicine

intento a segnare col dito di accusa

la pronuncia del nome.

Non cercare anemoni né profumate viole

stroncati son dalla falce

senza fissa stagione dall’avido colono

che innalza siepi di spine

e cinge steccati sulla terra comune.

Ma trovi fiori di campo

sparsi e selvaggi non per civiltà

avidi solo di terra e di acqua

e di inebriante libera luce.

Qui tenuta estiva

castello di torrioni blindati

di nuove signorie mecenati di faccendieri

con sfilate di rampanti vassalli

eletta corte di spartizione

è terra destinata al silenzio

per ozi tiberini

e fa onore a Lucullo senza vini di Falerno.

Spreme in affanno il melograno

per l’inutile polpa

che nasconde a divisione gruppi e colonie

di semi vivi color sangue.

Qui è una fogna maledetta

insulta lo stesso padrone

mentre raccoglie a capriccio

in questo giardino-cimitero.

Riempiono la bocca a sazietà

parole e azioni libere

opinioni singole a confronto

per scelte universali

contro verità assolute

che chiedono l’obbligo del silenzio

con l’alibi mortificante della fede.

Un credo di velleità e rinunce

privo di amore e di logica

svuota voglie e libertà di vivere

sparse come edere ammuffite

destinate a misera fine.

Un dubbio diventa virtù

di testimonianze

e cresce come pianta nuova

con naturale vigore di sopravvivenza

sui muri dell’eresia.

Anche l’amore

ubbidisce a ragioni contrapposte

cadendo a cieca disponibilità

che offusca la mente

o cerca nel vero ragioni e distanze.

Ma così non è più amore

se per sua natura distorce e tergiversa

confonde illude e aspetta

per il sì di una donna.

Libertà vive al contrario

insinua e dubita, freme al dolore  e all’ira

e diventa più forte aspettando il sacrificio

che ancor oggi tiene svegli.

Desiderio di sapide mense

non distrae lo chef

con il suo francese culinario

compassato di gesti

per far valere le pietanze.

Papillon e abiti di gala

non sono obblighi cerimoniali

per consumare il pasto

né garanzia di sazietà.

La vera fame non conosce

pâtè de foie gras o crêpes

ma inzuppa la minestra

scarsa di essenze

già condita di sale.

Misura di giornata bracciantile

con l’orcio dell’olio nel fagotto

litigati al mercato delle braccia

eri reliquia al calar del sole

ed esaudivi visioni di montagne saline

di Margherita di Savoia

sovrana di Talia

da molti creduta

la vera regina.

Polvere, a grani o pietroso

onorasti mense fumanti

di sospirato sapore

di famiglie da conigli.

Poi l’uso è diventato comune

e altre bocche

inghiottono a vuoto la nuova fame.

Quante little Italy

abbiamo seminato nel vento

che svuotava terre maledette

trascinando eserciti di famiglie

senza patria.

La nostra genia senza licenza straniera

era tradizione di spine

serbate nelle zolle del cuore

tra umida nostalgia.

Mappe di tela incrociandosi a nodi

avvolgevano miseri averi

ragioni di un addio.

Anni di silenzi e sospetti

divisi ai margini del precario

con gente di diversa diaspora

sfidavano l’assurda vergogna di tornare

dove avevamo lasciato il nulla

venduto assieme alla memoria.

Assalti di vita strappati con i denti

assicurarono il quotidiano

e permisero qualche risparmio.

Lettere par avion

ricordarono le origini

beneficiandole di qualche pezza

per garantirsi la risposta.

Complicità di luce

di candele in trasparenza

leggeva le ombre del denaro

di lettere strappate

o violentate del poco tesoro.

Apostoli con sai di umiltà

predicatori di buona novella

del vivere sociale

percorrono strade di rinnovamento

con la promessa di evitare soste.

Recitano sermoni depositari superbi

di fede nell’uomo

mai spergiuro di sentimenti fraterni

con aria inquisitoria e di sfida

per rompere la catena rugginosa

delle abitudini.

Proclami di lotta e di gogna

nella subita emarginazione

espiano con testa di ariete

i torti e gli abusi

legittimi usi del comando.

Profeti giurano di evitare la tregua

scendere a patti

avere paura, accettare la fuga,

ormai solo vestali consacrate a verità.

Refrattari a lusinghe e denaro

logorati da prove e censure

oscillano cadendo al compromesso.

Vivi come cartoni animati

proiettati senz’anima

sono pronti al mestiere di giullare.

Intellettuali saltimbanchi di parole

affollano la corte del politico

e seguono con pollice verso

gli scontri sull’arena.

Strati di colori sovrapposti

su una tela scinta

confondono le figure

in predicato di conservare le forme

alla memoria dell’arte.

Bailamme d’epoche e mani

violentano le tavole dei Primitivi

al lievito delle croste

per vanto di stile

di pretesa creatività.

Folle irriconoscibili al trapianto

popolano alla rinfusa

momenti di anacronismo

corretti col senno di poi

per estro di paranoia.

Per scartare il superfluo

sclerosi di moda

abili graffi raschiano secchi impasti

che saltano a schegge

mostrando frammenti scoloriti.

Al gesto

immagini libere

risorgono a tratti o definite

socializzando risposte

e gusti di civiltà.

Spessore a volte resisti

e non concedi proroghe alla vista

per altro lavoro dell’uomo

passato in silenzio, disperso nel volume

ridotto al sacrificio con poca resistenza.

Noi, strilloni dello spirito

di un quotidiano acefalo di sponsor

con pagine e lettori immaginari

malati di poesia

d’incerto morbo,

serriamo i pesti giornalieri nell’anima

per rincorrere la fede nella vita.

Aedi senza carro di Tespi

mestieranti di parole

recitiamo messaggi allo spettacolo.

Immobili su fonti immacolate

polle di acqua fredda cristallina

mete ciarliere di anfore al crepuscolo,

randagi nel plenilunio

a piangere amore

con sentimento struggente,

chini su santini benedetti

e deprimenti calvari

supplici di grazie

siamo il nostro edonismo.

Noi, eletti di spirito

distanti dal quantum

che misura chi vale,

seppelliamo l’odio con pale di sentimenti

per rimestare la terra di buoni concimi.

Parole di saggezza colano miele

nel vademecum di buona volontà

e pizzicano l’anima come corda di arpa al suono

che dà la stessa nota o concerta armonia

ma si spezza stonata al monotono vibrare.

Dispute di intese o disfatte

sceneggiate in dialettica

colpi di scherma senza maschera

affondano parando sulla pedana

misure di parole e retorica

bandi di libertà, per ogni causa,

che durano il tempo del gioco

in attesa della probabile stoccata.

Vendicare ragioni per

delega animano il tribuno elettorale

profeta e messia di potere

abile quanto la provata malizia

sfacciata di donna mercenaria

che conta le altrui vergogne

ma svolge il vecchio mestiere

e invidia o corteggia clienti

per dare la stessa cosa.

La gente si danna a schiera

recitando a memoria salmi di teorie

ingredienti sofisticati in conservanti

di prodotti scaduti

ma ancora in commercio

al prezzo scontato della vita.

Misure di tirannia

tormentano la pace sociale al ricatto

invocata senza voce

o gridata con follia

con patti giurati nel sangue

che fanno onore all’idea

fluttuante in panno o seta colorata.

C’è una favola da raccontare agli adulti

riservata non a luci rosse

ma trama d’ingenuità

per chi sospira incantesimi

e sogna storie d’amore

con prìncipi di voglie plebee

che inseguono le pene del cuore

con una scarpina da ballo.

Il piede nudo galeotto al focolare

calza la logora ciabatta

di malasorte nata serva, adulta in cattività,

vecchia di anni e di attese emancipazioni.

Ballerino in equilibrio

resistente nella corsa

si affida sicuro alla terra

e sopporta fitte di dolore

alle prove di scaglie e di ortica

ma cade come cigno ferito

che sbatte ali pesanti nell’abisso del lago

con l’ansia negli occhi di migrare

verso terre e destini più certi.

Aspetta comparse di fata

per vestire panni di raso

adorni di coralli e rubini

e alla porta il tocco vero di un reale

che piega ginocchio e corona

alla bellezza di donna.

La favola è moderna vicenda

di parità democratiche senza più classi

con nuove nobiltà di stesse differenze.

All’effimero che colma vuoti e delusioni

di opaca esistenza

scarsa di contenuti credibili

affidiamo rivalse di vita

per realizzare il nostro immaginario.

Giovani di violente proteste

dalle barricate di rivoluzione del ’68

che convinceva di tempi nuovi

siamo un esercito in disarmo.

Muffe di controriforma

mode involutive d’incerti revival

siamo concimi per fiori appassiti

che approdano al disimpegno

come naufraghi di pensiero.

Fiacche d’idee

muti alla storia presente

concediamo supplenze alla fatica

a prossime generazioni già assunte

alla meccanica nota del computer.

Difensori dell’utile

con la vocazione del nulla

consumiamo le attese nella noia

trascinati senza resistenza

nel vortice dei giorni.

Sopraffate le resistenze alla prova

tutto ritorna all’unanime complice

ripristina il vecchio e le leggi

per garantirsi il dominio,

travolgendo ideali giovanili

partito di verità sotto ogni cielo.

Sentimenti,

tessere umane d’identità

rilasciate senza titoli o richieste,

diventate garanzie di risposta

per chi vuole avere dignità di persona.

Concedete sussulti e commozione

nel bene e nel male

facili all’entusiasmo o al disamore

all’occorrenza l’uno sull’altro

a dominare per arbitrio.

L’alternanza di sensazioni

definisce ogni esistere

di contenuti

che danno gusto o fallimento alla vita

sazia di pane e di emozioni.

Ora brucia passioni tenere e violente

tormenta menti lucide e annebbiate

piange lacrime deluse e di amore

invoca solidarietà con voce querula.

Sentimenti

virtù dell’anima da imitare

consolate lo spirito

demone di astrazione

circoscritto all’ipotesi.

La realtà per convincere

muta consigli esempi e decisioni

smuove sensibilità romantiche

a energiche

coscienze che giustificano il mannaggia e la forza

a crisi, a tirannie e a ogni padrone.

Un rampicante è la nostra stirpe

pianta abbarbicata ai muri

su cui stendiamo nocche e polsi

per chiedere comprensione.

Allignando perdiamo viticci

dispersi tra insulti e assalti

fatti o subiti

di bande, lacchè e polizia.

Molti cingiamo filari

vicini e nel mondo

per appropriarci della luce

del sole che pronuba feconda

senza tante preferenze.

L’usato gesto ancor si propone

di stabilire legge e uguaglianza

e dirama tralci avventizi

senza gemme

per non strisciare al suolo

nell’ultima inferiorità.

Altri crescendo

saliamo in ogni direzione;

cerchiamo ovunque energiche sostanze

per adattarci al meglio nella vita

che matrigna ostacola

il diffuso diritto e il desiderio.

Costruiamo la nostra storia

con appigli di rampicante

tra idee assurte a verità

col dubbio del vero messia

se incarna di falegname o sarto il figlio.

All’avventura portiamo la vita

per non farla morire

nel recinto dei bisogni

cancelli chiusi dalla privazione.

Spesso si libra con ali convulse

dispera protesa fin verso la morte

o scopre il coraggio di gridare basta

al morto passato e immobile presente

per correre con piedi di emigrazione

anche verso l’ignoto.

Silenziosi sguardi al futuro

di mercenari del lavoro

non trovano seguito e proclami

per le diffidenti strade

dell’estranee Francoforte e Losanna.

Il marchio straniero

bollato come atto di accusa

perseguita genti e famiglie

di stessa razza

che si ignora a vicenda

per non compromettersi.

L’Europa dei popoli

di civile progressismo

è povera di sentimenti

confusa da conciliante Ostpolitik

o da pretese mitteleuropee.

Astruse parole ingannano

bocche e stati senza intendersi.

All’avventura destiniamo anima e vita

per non farle morire nei sogni.

Fu destino abortivo

deciso senza consensi

di restituire in polvere la natura umana

per sorte di Adamo

creato come statua di creta.

Turbinio di sensi e convinzioni

avrebbe esortato l’uomo alla bontà

definendo immagini di Dio

che chiama beati i pacifici

e concede il regno dei cieli.

Desiderio di amore

invoca la pace dei sensi

il possesso del cuore

senza more o castighi

con rinunce santificanti.

Ansie di liberazione

palpiti di nuovo

detestano suffragi ed elemosine

atti di precetto di servitù

per riaffermare la vita

guasta di cose ripetute.

Decisione di lotta

mantiene distanze di dubbio

provoca ansie e timori

e affonda lame di giustizia

nel petto degli empi

che gorgogliano sfide e tradimenti.

Per risorgere dalla polvere

non serve un miracolo.

Basta temprare la creta.

Un testamento di idee

con parole di fuoco

fu la riscossa dei poveri

per possedere la terra.

La fede nell’uomo

predicata ai fratelli

accantonava i privilegi

di cariche, ranghi e nobiltà

che facevano differenze

nel vero peccato

di padroni e servi.

La voce nazarena

aggredì l’esistente

devastando i confini dell’anima

ancora lontana da scrupoli

e da crisi di coscienza.

Il seme del bene

chiamato novella

fecondò la terra

di certezza

riempiendo il suo grembo

del senso dell’uguale.

Germoglia da allora

tra pietre, terra e spine

e se soffoca ha rami e radici

per continuare la vita.

Quei segni di un credo

sopravvissuto nel tempo

parlano al cuore e alla mente

lo stesso linguaggio di liberazione.

Varietà di cose non più in uso

o inutili e disfatte nell’usura

come tiepidi fiacchi sentimenti

alterni per instabilità

frammentano grani di polvere.

Le occasioni del tempo dissolvono

forme senza consistenza

fino a disperderle nell’aria

che raccoglie e riversa

la terra in nuovi strati.

Segni ed orme di figure diverse

sono rincorsi al fiuto;

altri durano scampoli di stagioni

alla mercé di un soffio.

Entrambi umangraffiti.  

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