RACCOLTA
“UMANGRAFFITI” Prefazione di Giovanni Russo |
La frantumazione civile e sociale di un mondo
che si era mantenuto per secoli nel suo immobile equilibrio, in Irpinia,
provocata dal terremoto del 1980 ha rappresentato anche la
“scoperta” della fine di un mezzogiorno chiuso e antico. Giovanni Russo |
Scrivere di
se stessi
è, ad un tempo, compito agevole ed ingrato. E’ innegabile che ognuno
conosca la propria storia meglio di chiunque altro, ma i rischi di
panegirico e di autoesaltazione – nessuno è tanto disamorato da
rinnegarsi – potrebbero condizionare la veridicità dell’assunto. Giuseppe Iuliano |
Nello spazio campana di vetro frammenti e scorie volteggiano come polvere di neve. Ripetono la corsa nel tempo senza posarsi, inseguendolo come schiava felice di non poterlo fermare. Soffocano la bocca arsa che mastica il secco ma detesta e osanna l’incerta divinità. Nume da inventare con fede blasfema senza riti immolanti o propizi né patrocinio di oracoli e basiliche fisserai dimora-santuario nella casa degli dei. Nei cieli o negli inferi devi esistere. Pur con empio sacrilegio. Turbine di forza di natura nunzio del vento e dell’aria tergi, mistifichi e scopri senso e immagini di cose. Anche questo è potere. Incanto di fate morgane nascondi il diverso sotto coltri diffuse di patine biancastre che filtrano colori nella monotonia dell’uguale. Arabesco o uniforme scheggi la vita di graffiti umani. Santa virtù di misteri carisma di teologia laica cingi la celeste aureola benda santificante dell’eresia. L’immagine a somiglianza non affraterna distanze né sentenzia virtù e difetti con pari giudizio per appartenere all’eterno. La nuova liturgia è già stanco rituale e spergiura le illusioni scale di seta da sciogliere e annodare che resistono attimi ed occasioni senza convincere. Tutto ritorna all’uomo. Libero di cercarsi vita e destino scioglie il voto dei comandamenti per calzare i piedi flessi sollevati che fremono di foga a manifeste ragioni. Lancia con gola di attesa la sida-preghiera e rincorre nel sordo cielo la pista umana in viaggio con carovane di generazioni che stringono il morso del futuro. Passi certi segnano la strada pronti alla sfida o alla sosta come suggerisce la vita. Altri calcano l’ignoto con diverso incedere di forme, traiettorie visibili per nuova umanità che affida al lavoro semi e fortune. Al chiarore obbligato del fuoco famiglie sommerse sprangavano rifugi. Abili graffi laceravano volte e pareti d’impressioni vissute diventate storia di civiltà. Maschere votive camuffavano la paura tra scongiuri e sortilegi talora efficaci nel computo di probabilità per non essere colpiti nel vivo da ogni forma di male. Gesti e sembianze in ritratto erano linguaggio di murales incisi con pochi colori. Allo scoperto di luce solare che illumina la notte dei tempi violata nella custodia di segreti e paure portiamo forme e pensieri di libera individualità. Immagini contemporanee nascondono maschere reali di dubbia personalità chiusa in caverne di coscienza rassegnata alla libera parola. Dentro e fuori il buio contiamo graffi di vita tracciati su pareti diverse. Segni di onesta fatica dividono i solchi di umida terra rimossa che nasconde bisacce di polvere in galleria di radica con tane di vermi. E’ la forza della vanga. La sacca è rivoltata all’aria e il mantice gonfio del vento soffia negli occhi inutili bruciori. Altrove orbite spalancate leggono il buio e le crepe del piccone compressore che scrosta la tonaca di terra lasciando in eredità spiccioli di pensione e meccaniche convulsioni. E’ il sacrificio dei poveri. Lastre di pietra tavole di legge di natura spezzano idoli di produzione invocati senza abiura e scaglie anonime di esplosione diventano provvida cascata. E’ impeto di polvere nera. Affanni e sussulti serrati con paura chiedono di non morire al buio o al sole. Raccolgono con lena l’estranea classista diversificante polvere d’oro. Altra di poco prezzo muove frenetica la macina che affonda rulli e lame senza empietà né riti sanguinari nella pienezza dell’impasto. Veli di zucchero minuscoli cristalli planano senza saltelli su distese di latte in sintesi con tinte di densi marroni o schiumosi neri e placano voglie e desideri. Caraffe e bricchi d’argento-acciaio, porcellana-creta grezzi, a smalto o cesello vanto di diversi corredi zampillano con uguale allegria. Saziano sempre la bocca bisognosa di solo alimento. Invidia e rancore sentimenti di sorte malvagia lievitano l’odiata distanza e l’inferiorità di classe. Vinti nella polvere da sporca miseria povera anche di idee rotolano animali feriti scarti umani malati rifiuti di mense civili bastevoli di carità di colonia per nuova schiavitù. Una manciata di roba è il primo segno di differenza poi cumula interessi e le distanze non si contano più. La povertà è già servitù e piega i deboli a raspare la terra per camminare almeno in ginocchio. Nessuno ha scelto per virtù la sferza del padrone e il mestiere di guardia di cane ringhioso. Poi rispetta la cuccia e non spezza la catena; non teme la sudicia rogna e lancia all’aria latrati di lamento senza messaggi e aspetta rizzando l’orecchio inutili risposte. Bastardi e di razza di punta o da salotto con vecchi blasoni e nuovi pedigree vantano il collare e la zuppa sicura. Abili leccano a moine con sperimentato guaito diversi padroni titolari di ogni fedeltà. Il randagio corre al minimo sospetto e gli avvampa l’occhio all’insidia del calappio. Forse è disprezzo o paura questa vita costretta al rifiuto genitrice di figli di NN che non riconosce padre e madre né vuole pietose adozioni. La desiderata paga conta soldi veri compra, svende coscienze a prezzi diversi. Quasi mai affranca. Pregressa umanità al mercato non è più il tuo mondo sognato con disegni di pace pulito nell’acqua e nell’aria sincero di sentimenti d’amore. Ali di libellula cercano intatte posti nascosti per provare impossibili voli. Silenziosi ronzii misurano distanze e volteggiano prima di posarsi su infidi miraggi di rovi. Masticano polveri di loto prigionieri d’inoculato veleno che provoca sussulti e sbarra gli occhi e il passo nell’inebriante visione. Ali macchiate pesanti pagano al volo l’orrore dell’inganno. A riflessi di specchio con arroganza matrigna chiedi miraggi di aiuto e tenti magie e sortilegi per vincere gli anni e il volto disfatto. Per esserti complice. Arcobaleni di rimmel mosaici di fard di mostra campionaria di pubblicità made in Paris con certificato di garanzia in multilingue riempiono i solchi del viso umettando dita di narcisismo. Restaurate le croste all’unguento nell’intruglio di gel e cere con sbuffi di piumini di cipria che spandono nubi odorose, costruisci la tua maschera. Scampo di metamorfosi. Malizia di civetteria pretendi l’acerbo sull’albero tarlato pronto al rogo che cerca l’impossibile linfa per stendere germogli e radici. E dietro porti segni di stanchezza strascichi di galanteria di amori traditi o falliti di ricerche affannose. Logora e disfatta ammicchi languida e seriosa gli ultimi espedienti di donna. Smorfie e garbati sorrisi d’ingenuità e malizia essenze di femminilità alternano desiderio e gelosia e l’instabilità dell’animo. Carezze di donna promesse di suo amore svegliano il sonno conciliano il riposo per saziare di baci e sospiri o accettare l’ingenuo digiuno. Generose ed egoiste chimere per somma di piaceri o rancori scelgono a difesa l’amore eterno quanto la memoria resistente per durata degli anni breve come una passione. Nessuno vi sfugge per sorte ma porta con sé una storia vera amara felice che gli rovina o esalta la vita maledetta o goduta. Senza una donna neppure ombra perversa è anticipare l’oblio stravolgere la mente e il pensiero. Donna! proprio tu raccogli e disperdi tra braccia e capricci la fierezza e la voglia di logica sopraffatte dal mistero che ci tiene insieme più di ogni cosa. Manie di trucco fisime di alitare personalità nella creta rifiutando la propria non perseguitano ansie vogliose né procurano pena a contare le rughe e la faccia sporca di grasso e di fumo che inghiotti a sbafo nella fabbrica. Ma non ti detesti. Affidi al sapone di poca reclame avaro di portenti, scarico di profumi la libertà delle mani legnose di porri e ferite con isole di nero che tardano a scomparire nella pressante marea. L’inutile gesto invoca pazienza. Canne di polmoni mantici a risucchio di ciminiere senza sfiatatoi non filtrano fumo e polvere nera; addensano scorie indigeste di ferro, marmo e segatura veleni lenti corrosivi dell’emancipante lavoro che sgrana la vita e la fame di salario e le esigenze sociali. Perfido intrigo sazi di piombo il cuore metallurgico e gli appesantisci gli occhi di sonno. Gli occhi prendevano colori di raggiere esplosive sospese al buio nell’aria e nello scoppio si chiudevano a protezione accompagnando la bocca semiaperta per assorbire il colpo. Meraviglie della festa di luglio s’illuminavano nell’artificio di bombecarta che stordivano l’orecchio con scariche di tracchi e vortici di piogge d’argento. Cortine di fumo immobili o a spasso nel vento coprivano ombre riverse o supplicanti con gli occhi stanchi colorati di papavero. Disgrazie tenute a distanza con l’abitino della Madonna talismano di vita freddo come la piastrina di ferro, insieme al collo per non perdere nome e fede, erano vicini e dentro il colpo di fucile. I figli per guadagnarsi la pace non chiesero giustizia né intonarono peana contro vecchi nemici e nuove potenze. Gridano su rotaie di morte lo squasso di polveri senza fumo che avvolgono le speranze a lutto della vigilia di Natale o di una feria d’agosto. La memoria stipa nello scrigno del tempo fotogrammi di cronistoria diversi per vicenda e malata di dolorosa pazzia non cuce camicie di forza. Ombre e nebbie popolano la cupa sfera della vita ristretta nell’incanto della magia con parabole di luci convergenti bagliori di lusinghe. Le verità restano misteri filosofali e spremono la logica nell’idea avida di conoscere compressa e sottratta dalle unghie di Thanatos che spezza l’àncora dal sole all’improvviso fragile ragnatela scucita da Aracne. Rimpianti di forza non gonfiano i muscoli laceri e sfibrati come corda di nave senza pace e invocano Eros avvizzito e stanco naufrago su relitti di sensi governati ancora senza resa e pronti a sacrificare l’ultime energie. Sciolti i nodi morsi e insalivati consegna l’anima di sego scarica di corda al pizzico di cenere. Una ventosa d’omertà ghermisce a piovra con tentacoli di collaborazionismo il sudicio permesso ai trafficanti di potere nella tratta della legalità. Pietre di scandalo rotolano a frana rimbalzando nella corsa per travolgere l’opinione pubblica assertrice qualunque di: “Io sapevo”. Squarciati i veli di profanati santuari crollano pratiche di miti meteore subito opache di corpo freddo di provocato collasso. Nemesi compensa le colpe, se commedia non distorce la trama, e il mestatore svelto di mano passa la disonestà a martirologio vittima di sacrificio di espiazione di umanità serva e distratta. La polvere rimossa prima di posarsi s’invola in nuovi soffi prestigiando acrobazie d’illusionismo e insabbia le vicende sempre più fosche ed irreali per lanci di catapulta di capibranco ormai esperti nel mestiere di verri. Conosci a memoria con piglio istrionico l’abituale monologo di atto unico di recite replicate nelle avversità. Il letargo di abitudini è seme di papavero nelle vene per chi ha paura di esporsi e di far valere le proprie ragioni. L’aspirazione al silenzio soffoca rivalse della voce e frena le mani nervose ai torti subiti con stoica rinuncia per non compromettere la quiete. Affondi la testa di gru nei pantani, cieca al circostante ferma nelle provocazioni inalberando figure inservibili che esercitano gli anni provati sulle acque di Lete, sacrificandoli al dimenticatoio. Il morso provoca la bocca e frena l’onore già morto al coraggio e venduto all’orgoglio per paura di perdere la pace trattata all’intesa. Ma dignità diventa virtù e solleva dalla polvere fantocci e marionette sottratti alla fatale soggezione con l’urlo di rabbia del riscatto. Nebbie di fumo cortine aromatiche di monopolio o estere, economie di contrabbando a cerchi, a fili o a cirri vagano ombre di compagnia a riempire la solitudine. Lo sguardo fisso erma incupita penetra il silenzio e le barriere della stanza recinto dell’anima in pena assorta nel ricordo. Immagini si rincorrono sole, a coppie, eteree, incerte poi diventano spettri di corpo e di voce a popolare il circostante. Figure si moltiplicano come reazione a catena mormorando cori di consigli o di censure morali. Sembianze conosciute desiderate quanto la fortuna ragioni plausibili del vizio si staccano dall’anonimo gruppo e sorreggono il cuore ansioso di seguire le movenze avido di abbracciare le ombre. L’idillio insperato è permesso, il sogno s’avvera per incanto ma lento il fumo s’innalza e disperde presenze e fantasmi lasciando di sé cicche indurite tra zolle di cenere. Tentazioni di sirene non colpirono la tua fantasia per varcare Scilla e Cariddi e il desiderio dell’arcano. Fremiti di amore impulsi dell’anima in piena sorda ad ogni ragione inseguirono passi e movenze di ragazza in fiore. Amore non tradì sua natura tra sospiri e promesse giurati a sacramento su piccoli nati fino all’addio della guerra divenuta prigionia. Libertà durò accresciute miserie e il senso di colpa di restare logoro entusiasmo di occasioni fallite destinate al viaggio per cercare il futuro. Maratone di binari in manovra assalti di mareggiate e scossoni non fermarono la corsa lesta incerta o con pause fino alla vera rimpatriata. Un vecchio mastro confuso da dolorosa comica pazzia rinfaccia a tutti che una silfide amata per qualche stagione ha tradito la sua prigionia. Quasi con rito afrodisiaco stringi pizzichi di voluttà di essenza di tabacco che mastichi con gusto o stuzzichi annusando con reazioni di starnuto. Con gesto snob ammaliatore affondi il trinciato tirando boccate dal calumet della tua pace. Consuntivo di ricordi pesi la validità dei giorni con la tua sentenza di giudizio senza possibilità di appello. Testimone di vicende imputato di errori vorresti incatenarti alla vita col desiderio dell’eterno. Leggi le pagine del libro da titolare soffiando su lettere consunte grani di polverine che asciugano quasi a rinsanguarle il flusso e l’energia passata. I segreti diventano immagini permettendo il comune dominio di azioni nascoste di debolezze, arroganze e vergogne che ti hanno fatto persona costruendoti un nome sbiadito come caratteri di libro. Per disperdere la livida angoscia spirito malvagio nelle crepe dei muri e nelle pieghe dell’anima anemica di cultura ripetevano esorcismi del male. L’invidia abbatteva il maiale senza scannarlo portando morie all’intero pollaio e febbri maligne alla salute degli uomini. Feste votive di gennaio sfidavano la neve restituendola all’acqua sotto le lingue di fuoco al vento dei falò in rioni e contrade. Suoni di campanacci di danze tarantolate singultivano in note e ritmi per salti di scongiuro sul polveraccio che nell’omelia dei battenti si attaccava vischioso alla terra. Brace viva sacrificale raccolta senza sparagno illuminava benedetta spettri tisici di focolari profumati di castagne e patate in arrosto. Le porte sibilavano al vento violentate nelle fessure e ognuna incorniciava nel mezzo l’immagine nuova del Santo compagno protettore del domestico. Soffocati i bagliori dispersi nel riverbero e nei carboni consumati o spenti la cenere impolverava nel tempo la voglia di vivere. In un raggio di sole filtrante al chiuso quasi proiezione di faro da una posizione di controluce conti punti sospesi nell’aria nell’esercizio di danze sconosciute in un continuo oscillare. Macchie d’atmosfera di sostanze diverse sussultano al movimento, lucciole stordite e spore di funghi tossici seminano nell’aria carica di nucleare il loglio infettante di malattia. L’aria conserva l’invisibile e scarica la raccolta energia per mestiere di untore in ogni lembo di terra con la velocità del vento. L’erba si avvelena, langue l’agnello smagrito dal maligno e curva l’uomo a piangersi gli errori di colpa e fatalità. Miriadi di atomi al pulviscolo plotoni incolori o fluorescenti assolvono l’esecuzione con danze di morte tra grida di pietà. L’uomo omaggia al progresso spartiti di contraddizione. Da cartoline raccogli con animo collezionista sagome estranee di paesaggi tra cime innevate o caldi tramonti in diversa trasparenza di stagione. Solitario percorri strade in salita spingendo sulle punte per non perdere l’equilibrio e scivolare nel vuoto. Padrone dei boschi, Aminta col transistor salti tra i rovi e le felci sfiorando gli aghi di pino e i virgulti non potati che sferzano il corpo scoperto. Cittadino del tuo mondo circoscritto al silenzio non invidi metropoli di folle in corsa né lidi assolati di gente formicolanti nell’anonimia in attesa dei propri destini. Distese di sabbia carezzano le onde del mare e frenano il fragoroso furore per restituire pace alla vista. Visioni valicano i monti confortano i sogni di novità. Ma poco t’importa di evadere neppure costretto dal mancato mestiere e paghi all’orgoglio di restare il sacrificio dell’arrangiarsi estraneo a rispetto e protezione. Paese di gente ruffiana di madri operose e di padri lontani raccontavi storie di fame e di intrighi di vecchi ubriachi e di donne perdute nel vizio comune di amori e bisogni. Pudico nascondevi ipocrite vergogne dietro imposte serrate prigioniere di cultura e morale marcite da sferze di acqua e di gelo che soffocavano le altre stagioni vive di passaggio. Paese di stesse covate di feste votive di allegre brigate di emigranti e santi ognuno nella sua processione così tramandavi la storia passata. Rotta la maledizione eccoti un altro sortilegio per sopportare un nuovo digiuno di destino impietoso. La tua voce all’avvento riempì strade e città con richieste di onore e di gloria allo scaltro orditore di falsa unità malata di frasi fatte di logora ideologia da usare che separò nel vero i già divisi. Paese ora puoi contare gli osanna. Quando il sole bruciava le zolle l’umido terriccio risecchiva e sfarinandosi costruiva piccole dune maledette dal vento che soffiando rubava la terra. Quell’unico nemico invisibile sfidava la veglia e la lama dell’ascia che consumava pietra pomice per l’affilatura. Di generoso c’era solo il suo nome. Curvo con lo sguardo rivolto alla china raccoglieva con provata mania la terra caduta sulla strada. Con animo inquieto inchiodava la zappa saltava il limite sbuffando al ripetuto gesto per riprendere il possesso del suo. La voce mordeva il silenzio nelle ore diverse per avvisare a timore fin verso i confini presenze furtive o nemiche: “Son qua, ora vengo”. Come un dio agreste proteggeva le messi con la falce e ricordava Tata e Vava Lari mai protetti né protettori di maledetta miseria e di snervante fatica senza canti di ninfe né suoni di siringhe. Nella stessa campagna di case e trattori senza pezze al sedere la voce generosa piange l’asino morto che or si piglia un altro pezzo di terra. Su cappelli ornati di piume col vestito di panno buono della festa tornavano dal Gargano pellegrini di feria intonando la canzone dell’Arcangelo per grazia ricevuta. Rinnovavano l’antico patto lungo quanto la vita di salutare protezione privato come la coscienza. Il gesto diventava caparra di filiazione ripetuto a piedi scalzi o con richieste invocate in ginocchio strisciando scale e navate con la lingua di serpe a mangiare polvere di scarpe, per chi il benedetto era calpestio e poteva chiedere in piedi. Diversità di fede offriva il capo alla cenere che argentava i capelli e confortava deliri di lutto di barbe incolte e di vesti nere portate stagioni ed anni per le incipienti morie. Frutti di carrubo diventavano chicche consolando gli assenti che sputavano i duri semi sterili tra morte polveri di montagna. La tua storia di popolo è un’epica di eroi borghesi la cui saga è un libro d’infamia, racconta imposture e non ha patito anni di confine. Scie luminose diventano comete per offuscare il brillio delle stelle e solcano il cielo con fremiti di meraviglie e paure per confortare i natali di chi ha bisogno di credere. I miti fanno diventare ciechi e invogliano al plagio l’indifeso costringendolo all’imitazione ma riscaldano la ruggine e l’ira oliando gli impulsi dell’animo che scattano come molle compresse alla provocazione. Polvere di stelle attacca alla mente odiosa insofferenza e, quando tocca gli occhi, aggruma sangue e lacrime cocenti di pena e rabbia. Grossi progetti segnano le mappe distinguono programmi di aree di sviluppo e difendono la solitaria ciminiera figlia unica d’incubatrice disponibile alla disputa dei passeri che a colpi di ala si contendono sparute beccate. Su aree di sedimento prati disserbati dal cemento incrosta la polvere vulcanica sospinta a spasso nell’aria tra bagliori di luce ocra presagio ciclico di fatalità. Cupa la terra si avvolge a maledire la paura battendosi il petto a discolpa e chiedendo perdono di peccati e disonestà. Paesaggi con dominanza in rosso quasi luce da camera oscura vissero come per una soffiata il giorno del giudizio. Penitenze improvvise assicurarono il suffragio per una morte che disertò il compito, perché pronta non era. Fu la storia di un anno racconto assillante di vecchi che fioccò cenere al posto di neve in terre segnate a lutto da siccità e malaria. Ma non ci fu preavviso quando sussultò la terra col coltello nel ventre e la polvere risecchì la gola soffocandole il grido d’aiuto. Sciami di case punteggiano la terra riversa dal male e sterile tra mucchi di pietra scolorita a disegnare forme e misure di nuove visioni. Paesi estranei alla storia vivi per sorte clandestina malvagi come erbacce cocciute al colpo di falce o di mano coltivaste errori debiti e gabelle cresciuti come semi di gramigna; conservate memorie stemmi e palazzi vuoti come le morte tenute spremute a sangue ed arsura del lavoro di uomini e animali nati servi per stesso legame a dividersi ricoveri e fatica. Ricordi del tempo passato violentato da miseria e servitù scontrano il presente lontano e dimentico di giorni infelici. Rotto il retaggio d’inferiorità giovani a schiera parlano a comprensione su barricate opposte linguaggi d’idee e di crescita. Ragazze serve due volte possiedono uguale dignità. Dopo secoli di conservazione anche le case gridano ai tempi nuovi. Color verde era la mia valle cinta da giogaie innevate e digradanti colture diverse e terre abbandonate, guerrieri senza armatura, rifugio di lupi e di volpi che si litigavano il territorio come per ogni potere. Intrecci di albero di olmo e di castagno fermavano i raggi del sole senza mediazione biblica e i rami vibravano perdendo il selvaggio all’innesto del potatore. Acque sorgive generavano fiumi in anse vorticose e stagnanti da mirarvi il fondo a specchio. E se la natura vanesia di rigogliosa vegetazione era povera di raccolti, con un lamento fisso di gente conservava la sua faccia dura, resistente al precario. Stravolta la terra in degrado colorata di schiume e veleni di compromessa salute tossisce all’aria inquinata la natura maledetta al contrario garante di filtri smagliati da cui da tempo son passate le allodole. Divergenze ci portano allo scontro coinvolti nel tifo di ultrà per attaccamento alla squadra. Esibizioni di leader di varietà d’ideologia di idolo in assolo con invasato delirio di gregari tra slogan e bandiere in parata placano gli animi e coprono gli intrighi. Sei anni ha atteso il cratere per la fabbrica e il posto sicuro invocato a scendere dal cielo come il volo dei ministri con sembianze di divinità. Oltre i cancelli con catenacci di presidio di esclusione giovani disoccupati linguano bocche di fuoco e fischiano il gabbato diritto della preferenza, usata nel ruolo di serva. La terra irpina enfatica Elvezia del Sud divisa da cantoni d’industrie genera cellule impazzite da logorata pazienza. Dalla Svizzera parole maledette segnano gli stampi in produzione di lontane amare focacce. E’ triste contarsi le ossa come un condannato al Cranio che ansima gli ultimi respiri per non rendere l’anima. Il tempo ineluttabile respinge la difesa ad oltranza e lascia scorrere i grani residui dell’inflessibile clessidra affidando all’eternità o alla fine i diversi incerti pensieri. Prima del fatidico abbandono di svuotamento progressivo toppe di polvere di drago hanno seccato il quaglio dissolvendo il muro delle tenebre. Resine profumate incantano il male e il provato dolore urlato o in silenzio di smanie senza riposo fino al contorcimento. L’ossessione inghiotte pillole di coraggio e medicina e smuove il recinto del possibile o allenta le forze nelle pieghe di braccia pensili rubando stanche illusioni tra lucidità e delirio dell’ultima performance. Nella sua stagione di fiore un cardo destinato alla fiamma bruciava semi e giovinezza. Solo, in una fase di luna di una notte di giugno diventava auspicio di sopravvivenza per un figlio disperso nella campagna di Russia. La vecchia rinnovava la pratica mai preda di un sonno ansioso nell’attesa rivelatrice della luce per il responso annuale. Il cardo secco bruciato possessore di un’anima germinava fiori rinsanguando la vita di certa speranza. La figlia sacrificava un uovo sciogliendo al Santo l’albume. Il bicchiere fatato increspava e restituiva alla vista visioni di alberi e pennoni di mirabili velieri padroni dell’Oceano. Quella casa non conobbe altri arrivi e partenze. Raccolse spine di cardo che segnarono gli anni non più contati e conservò prigionieri i sogni del viaggio. Misteri di vita senza più misteri. Realtà sfiguri il quotidiano violi le misure di controllo con sfacciata impunità complici le angosce che sfrenano isolate follie. La serenità è compromessa e cede al sospetto ogni decisione, anche la più vera inossidabile alla prova ma freme all’attacco e se disunita indurisce il volto e avvampa gli occhi pronti a scaricar vendetta. Guerra di famiglia scontra gli interessi divide capi e fazioni che si litigano il privilegio del migliore. Masaniello o liberatore lesto a far morale e pulizia e a sdegnare le facce delle edicole avverse. Trasparenza di parole ammaga le rivalse dell’ammutinamento deciso a dividersi il barile e a piangere lacrime di ubriachezza. Passate la festa e la furia corsari e pirati giurano la tregua stringendo mani di lealtà abili allo scannatoio e ai gesti del diviso comando. Un pugno di malvoni domina cespi e sterpaglie differenziando costoni e distese di stoppie e covoni o prati uniformi di verde visibile alla nebbia e al sole. Si ergono a sprazzi fiori di malvarosa isole di colore tra erba medica e cicoria che nascondono insidie di ortica e cicuta. Malvoni e papaveri diventano nella propria stagione fiori dei poveri semi spontanei cresciuti a caso con forza di natura. Sparsi senza ordine non cantano ringraziamenti vivi come uomini di stessa terra estranei all’idea dell’uguale ridotta al prestito o all’usura che matura sempre interessi. Voglia di serenità sai dannarti la salute e gli anni e negare i sensi al vicino dal passo indifferente o molesto con le stesse premure. Malvoni secchi e sfiduciati stringono mani di ortiche e calici di cicuta al brindisi. Tra sfumature di grisaglie offri l’immagine sullo schermo con comparse e protagonismi che portano via gli anni sgranati come rosari verso gli ultimi amen. Le tappe del tuo giro percorse con pedali di resistenza mobili alla leva del cambio contano frenate e cadute senza rinunciare all’arrivo. Calpesti strade tra ciottoli d’indifferenza dannosi all’equilibrio e cadendo annaspi e mordi la lingua per non mangiare la polvere su lance di selce che incrostano e segnano ferite con fili di seta cuciti alla vita. Svanite le brume gli occhi naufraghi nel buio approdano alla luce con gomene di speranza. Scrolli il sudicio dai panni strappati e sfreghi le mani dolenti passate in corsa sulla pelle a confortare il dolore. Vesti a nuovo e conservi con pretese di esclusività capi e modelli di firma per ostentare classe e stile, ma custodisci solo reliquie tra spigo profumato. Formule magiche incantavano serpenti striscianti a comando con rispettosa ubbidienza. Una voce modulava sibili ripetendo antiche pratiche di misteri che stravolgevano la natura e l’indole di ogni bestia. Quel rito di segreti fascinanti superava i confini della prigione purgatorio o inferno in terra per pagare la pena da scontare del giudizio umano. Quel patrimonio di carriera di delinquenza curriculare alla riacquistata libertà spingeva curiose meraviglie, di gente normale incapace di nuocere, a persistente invidia. L’untore di cattiveria esempio da scansare godeva ammirato rispetto per le strane virtù mentre strisciava sulla sua coscienza velenoso serpe sociale. Quel segreto mai rivelato ritorna a far compagnia tra fitte sbarre cariche di tenebre. Questa terra non è vanto di paradiso né partorisce angeli eletti, ingenuo straniero di terre vicine intento a segnare col dito di accusa la pronuncia del nome. Non cercare anemoni né profumate viole stroncati son dalla falce senza fissa stagione dall’avido colono che innalza siepi di spine e cinge steccati sulla terra comune. Ma trovi fiori di campo sparsi e selvaggi non per civiltà avidi solo di terra e di acqua e di inebriante libera luce. Qui tenuta estiva castello di torrioni blindati di nuove signorie mecenati di faccendieri con sfilate di rampanti vassalli eletta corte di spartizione è terra destinata al silenzio per ozi tiberini e fa onore a Lucullo senza vini di Falerno. Spreme in affanno il melograno per l’inutile polpa che nasconde a divisione gruppi e colonie di semi vivi color sangue. Qui è una fogna maledetta insulta lo stesso padrone mentre raccoglie a capriccio in questo giardino-cimitero. Riempiono la bocca a sazietà parole e azioni libere opinioni singole a confronto per scelte universali contro verità assolute che chiedono l’obbligo del silenzio con l’alibi mortificante della fede. Un credo di velleità e rinunce privo di amore e di logica svuota voglie e libertà di vivere sparse come edere ammuffite destinate a misera fine. Un dubbio diventa virtù di testimonianze e cresce come pianta nuova con naturale vigore di sopravvivenza sui muri dell’eresia. Anche l’amore ubbidisce a ragioni contrapposte cadendo a cieca disponibilità che offusca la mente o cerca nel vero ragioni e distanze. Ma così non è più amore se per sua natura distorce e tergiversa confonde illude e aspetta per il sì di una donna. Libertà vive al contrario insinua e dubita, freme al dolore e all’ira e diventa più forte aspettando il sacrificio che ancor oggi tiene svegli. Desiderio di sapide mense non distrae lo chef con il suo francese culinario compassato di gesti per far valere le pietanze. Papillon e abiti di gala non sono obblighi cerimoniali per consumare il pasto né garanzia di sazietà. La vera fame non conosce pâtè de
foie gras o crêpes
ma inzuppa la minestra scarsa di essenze già condita di sale. Misura di giornata bracciantile con l’orcio dell’olio nel fagotto litigati al mercato delle braccia eri reliquia al calar del sole ed esaudivi visioni di montagne saline di Margherita di Savoia sovrana di Talia da molti creduta la vera regina. Polvere, a grani o pietroso onorasti mense fumanti di sospirato sapore di famiglie da conigli. Poi l’uso è diventato comune e altre bocche inghiottono a vuoto la nuova fame. Quante little Italy abbiamo seminato nel vento che svuotava terre maledette trascinando eserciti di famiglie senza patria. La nostra genia senza licenza straniera era tradizione di spine serbate nelle zolle del cuore tra umida nostalgia. Mappe di tela incrociandosi a nodi avvolgevano miseri averi ragioni di un addio. Anni di silenzi e sospetti divisi ai margini del precario con gente di diversa diaspora sfidavano l’assurda vergogna di tornare dove avevamo lasciato il nulla venduto assieme alla memoria. Assalti di vita strappati con i denti assicurarono il quotidiano e permisero qualche risparmio. Lettere par avion ricordarono le origini beneficiandole di qualche pezza per garantirsi la risposta. Complicità di luce di candele in trasparenza leggeva le ombre del denaro di lettere strappate o violentate del poco tesoro. Apostoli con sai di umiltà predicatori di buona novella del vivere sociale percorrono strade di rinnovamento con la promessa di evitare soste. Recitano sermoni depositari superbi di fede nell’uomo mai spergiuro di sentimenti fraterni con aria inquisitoria e di sfida per rompere la catena rugginosa delle abitudini. Proclami di lotta e di gogna nella subita emarginazione espiano con testa di ariete i torti e gli abusi legittimi usi del comando. Profeti giurano di evitare la tregua scendere a patti avere paura, accettare la fuga, ormai solo vestali consacrate a verità. Refrattari a lusinghe e denaro logorati da prove e censure oscillano cadendo al compromesso. Vivi come cartoni animati proiettati senz’anima sono pronti al mestiere di giullare. Intellettuali saltimbanchi di parole affollano la corte del politico e seguono con pollice verso gli scontri sull’arena. Strati di colori sovrapposti su una tela scinta confondono le figure in predicato di conservare le forme alla memoria dell’arte. Bailamme d’epoche e mani violentano le tavole dei Primitivi al lievito delle croste per vanto di stile di pretesa creatività. Folle irriconoscibili al trapianto popolano alla rinfusa momenti di anacronismo corretti col senno di poi per estro di paranoia. Per scartare il superfluo sclerosi di moda abili graffi raschiano secchi impasti che saltano a schegge mostrando frammenti scoloriti. Al gesto immagini libere risorgono a tratti o definite socializzando risposte e gusti di civiltà. Spessore a volte resisti e non concedi proroghe alla vista per altro lavoro dell’uomo passato in silenzio, disperso nel volume ridotto al sacrificio con poca resistenza. Noi, strilloni dello spirito di un quotidiano acefalo di sponsor con pagine e lettori immaginari malati di poesia d’incerto morbo, serriamo i pesti giornalieri nell’anima per rincorrere la fede nella vita. Aedi senza carro di Tespi mestieranti di parole recitiamo messaggi allo spettacolo. Immobili su fonti immacolate polle di acqua fredda cristallina mete ciarliere di anfore al crepuscolo, randagi nel plenilunio a piangere amore con sentimento struggente, chini su santini benedetti e deprimenti calvari supplici di grazie siamo il nostro edonismo. Noi, eletti di spirito distanti dal quantum che misura chi vale, seppelliamo l’odio con pale di sentimenti per rimestare la terra di buoni concimi. Parole di saggezza colano miele nel vademecum di buona volontà e pizzicano l’anima come corda di arpa al suono che dà la stessa nota o concerta armonia ma si spezza stonata al monotono vibrare. Dispute di intese o disfatte sceneggiate in dialettica colpi di scherma senza maschera affondano parando sulla pedana misure di parole e retorica bandi di libertà, per ogni causa, che durano il tempo del gioco in attesa della probabile stoccata. Vendicare ragioni per delega animano il tribuno elettorale profeta e messia di potere abile quanto la provata malizia sfacciata di donna mercenaria che conta le altrui vergogne ma svolge il vecchio mestiere e invidia o corteggia clienti per dare la stessa cosa. La gente si danna a schiera recitando a memoria salmi di teorie ingredienti sofisticati in conservanti di prodotti scaduti ma ancora in commercio al prezzo scontato della vita. Misure di tirannia tormentano la pace sociale al ricatto invocata senza voce o gridata con follia con patti giurati nel sangue che fanno onore all’idea fluttuante in panno o seta colorata. C’è una favola da raccontare agli adulti riservata non a luci rosse ma trama d’ingenuità per chi sospira incantesimi e sogna storie d’amore con prìncipi di voglie plebee che inseguono le pene del cuore con una scarpina da ballo. Il piede nudo galeotto al focolare calza la logora ciabatta di malasorte nata serva, adulta in cattività, vecchia di anni e di attese emancipazioni. Ballerino in equilibrio resistente nella corsa si affida sicuro alla terra e sopporta fitte di dolore alle prove di scaglie e di ortica ma cade come cigno ferito che sbatte ali pesanti nell’abisso del lago con l’ansia negli occhi di migrare verso terre e destini più certi. Aspetta comparse di fata per vestire panni di raso adorni di coralli e rubini e alla porta il tocco vero di un reale che piega ginocchio e corona alla bellezza di donna. La favola è moderna vicenda di parità democratiche senza più classi con nuove nobiltà di stesse differenze. All’effimero che colma vuoti e delusioni di opaca esistenza scarsa di contenuti credibili affidiamo rivalse di vita per realizzare il nostro immaginario. Giovani di violente proteste dalle barricate di rivoluzione del ’68 che convinceva di tempi nuovi siamo un esercito in disarmo. Muffe di controriforma mode involutive d’incerti revival siamo concimi per fiori appassiti che approdano al disimpegno come naufraghi di pensiero. Fiacche d’idee muti alla storia presente concediamo supplenze alla fatica a prossime generazioni già assunte alla meccanica nota del computer. Difensori dell’utile con la vocazione del nulla consumiamo le attese nella noia trascinati senza resistenza nel vortice dei giorni. Sopraffate le resistenze alla prova tutto ritorna all’unanime complice ripristina il vecchio e le leggi per garantirsi il dominio, travolgendo ideali giovanili partito di verità sotto ogni cielo. Sentimenti, tessere umane d’identità rilasciate senza titoli o richieste, diventate garanzie di risposta per chi vuole avere dignità di persona. Concedete sussulti e commozione nel bene e nel male facili all’entusiasmo o al disamore all’occorrenza l’uno sull’altro a dominare per arbitrio. L’alternanza di sensazioni definisce ogni esistere di contenuti che danno gusto o fallimento alla vita sazia di pane e di emozioni. Ora brucia passioni tenere e violente tormenta menti lucide e annebbiate piange lacrime deluse e di amore invoca solidarietà con voce querula. Sentimenti virtù dell’anima da imitare consolate lo spirito demone di astrazione circoscritto all’ipotesi. La realtà per convincere muta consigli esempi e decisioni smuove sensibilità romantiche a energiche coscienze che giustificano il mannaggia e la forza a crisi, a tirannie e a ogni padrone. Un rampicante è la nostra stirpe pianta abbarbicata ai muri su cui stendiamo nocche e polsi per chiedere comprensione. Allignando perdiamo viticci dispersi tra insulti e assalti fatti o subiti di bande, lacchè e polizia. Molti cingiamo filari vicini e nel mondo per appropriarci della luce del sole che pronuba feconda senza tante preferenze. L’usato gesto ancor si propone di stabilire legge e uguaglianza e dirama tralci avventizi senza gemme per non strisciare al suolo nell’ultima inferiorità. Altri crescendo saliamo in ogni direzione; cerchiamo ovunque energiche sostanze per adattarci al meglio nella vita che matrigna ostacola il diffuso diritto e il desiderio. Costruiamo la nostra storia con appigli di rampicante tra idee assurte a verità col dubbio del vero messia se incarna di falegname o sarto il figlio. All’avventura portiamo la vita per non farla morire nel recinto dei bisogni cancelli chiusi dalla privazione. Spesso si libra con ali convulse dispera protesa fin verso la morte o scopre il coraggio di gridare basta al morto passato e immobile presente per correre con piedi di emigrazione anche verso l’ignoto. Silenziosi sguardi al futuro di mercenari del lavoro non trovano seguito e proclami per le diffidenti strade dell’estranee Francoforte e Losanna. Il marchio straniero bollato come atto di accusa perseguita genti e famiglie di stessa razza che si ignora a vicenda per non compromettersi. L’Europa dei popoli di civile progressismo è povera di sentimenti confusa da conciliante Ostpolitik o da pretese mitteleuropee. Astruse parole ingannano bocche e stati senza intendersi. All’avventura destiniamo anima e vita per non farle morire nei sogni. Fu destino abortivo deciso senza consensi di restituire in polvere la natura umana per sorte di Adamo creato come statua di creta. Turbinio di sensi e convinzioni avrebbe esortato l’uomo alla bontà definendo immagini di Dio che chiama beati i pacifici e concede il regno dei cieli. Desiderio di amore invoca la pace dei sensi il possesso del cuore senza more o castighi con rinunce santificanti. Ansie di liberazione palpiti di nuovo detestano suffragi ed elemosine atti di precetto di servitù per riaffermare la vita guasta di cose ripetute. Decisione di lotta mantiene distanze di dubbio provoca ansie e timori e affonda lame di giustizia nel petto degli empi che gorgogliano sfide e tradimenti. Per risorgere dalla polvere non serve un miracolo. Basta temprare la creta. Un testamento di idee con parole di fuoco fu la riscossa dei poveri per possedere la terra. La fede nell’uomo predicata ai fratelli accantonava i privilegi di cariche, ranghi e nobiltà che facevano differenze nel vero peccato di padroni e servi. La voce nazarena aggredì l’esistente devastando i confini dell’anima ancora lontana da scrupoli e da crisi di coscienza. Il seme del bene chiamato novella fecondò la terra di certezza riempiendo il suo grembo del senso dell’uguale. Germoglia da allora tra pietre, terra e spine e se soffoca ha rami e radici per continuare la vita. Quei segni di un credo sopravvissuto nel tempo parlano al cuore e alla mente lo stesso linguaggio di liberazione. Varietà di cose non più in uso o inutili e disfatte nell’usura come tiepidi fiacchi sentimenti alterni per instabilità frammentano grani di polvere. Le occasioni del tempo dissolvono forme senza consistenza fino a disperderle nell’aria che raccoglie e riversa la terra in nuovi strati. Segni ed orme di figure diverse sono rincorsi al fiuto; altri durano scampoli di stagioni alla mercé di un soffio. Entrambi umangraffiti. |