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RACCOLTA “UNA MISURA DI SALE”

 

INDICE:

Dedica 

Prefazione  di Franco Compasso

Prologo

Terra del Sud

Senza differenze

Il mito della terra

Nel buio di sempre

Desiderio

Emigrante o carabiniere

Una donna sola

Un confine dentro di noi

Terra d’esproprio

Una misura di sale

Carta d’identità

Contumaci della storia

Quel suono

Senz’amore

Disoccupato

Il prezzo della fuga

I nuovi untori

Pezzi di carta

Attimi di pace

La vera colpa

Unità

Paladini padrini padroni

Fior di mimosa

Anche da noi

Caporale

Feticcio

Gente diversa

Tra mafia e camorra

Semi dispersi

La nuova civiltà  

   

Ad Annalisa
mia tenera radice

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Prefazione

L’itinerario culturale di Giuseppe Iuliano si arricchisce di una nuova, importante, fondamentale tappa con questa silloge di trentuno poesie intitolata Una misura di sale. La nuova raccolta di liriche – che già dal suo titolo così significativo e carico di provocazioni anticipa i temi ed i contenuti di una aspra e dura denuncia – segna il definitivo collaudo di una giovane e generosa coscienza meridionale aliena dai piagnistei e dai vittimismi. Essa, altresì, legittima Giuseppe Iuliano come uno tra i poeti meridionali più sensibile ai drammi della vita quotidiana, alle paure e alle speranze di un Sud che, sebbene calpestato ed umiliato da secoli di malgoverno e di gestione clientelare, non si arrende e combatte per conquistare i sentieri di libertà e di giustizia dai «quali non si torna indietro». A questo mondo e a questa realtà. Giuseppe Iuliano rende il forte tributo civile di una coscienza dura e pura, di un impegno attivo e dinamico nella società, consapevole com’è che il ruolo dell’intellettuale come del poeta nel Sud lacerato da antichi drammi e nuove ingiustizie non può mai essere quello di uno spettatore inerte e passivo. E Giuseppe Iuliano, come già trent’anni prima Rocco Scotellaro, sente e vive in prima persona la tragedia meridionale e sa che il suo posto è tra i contadini del Sud per combattere insieme la fatalità e la rassegnazione e per conquistare insieme l’alba nuova di un nuovo sviluppo, di una nuova libertà: quella libertà liberatrice dal bisogno, dalle paure, dalla disoccupazione, dall’emigrazione che permea di sé tutta la poesia civile del Sud.
E’ questa la poesia di Giuseppe Iuliano: essa rompe gli schemi estetizzati del passato, non si chiude nella contemplazione impotente e rassegnata, ha la matura consapevolezza di respingere le insidie e le tentazioni dell’arcadia come l’idoleggiamento retorico della cosiddetta «civiltà contadina». La poesia di Iuliano non è esercitazione letteraria per impiegare il tempo libero, ed il poeta di Nusco è l’esatto contrario dei narcisisti che si specchiano nei sentimenti. Iuliano non canta l’amore sui greti dei fiumi nelle notti di luna, e di ciò avverte subito i suoi lettori per non ingannarli: «Se la luna e l’amore / sono i veri problemi / volta le spalle / e non chiedermi nulla. / Siamo lontani ed estranei» (Prologo). Il poeta non è però lontano ed estraneo dai fratelli che vivono e soffrono la dura condizione meridionale: ad essi si sente uguale. Perché uguale è la pesante catena che stringe ai polsi i giovani disoccupati e gli emigranti, gli anziani che sono restati e le donne che non possono partire. Ed allora,

Se i ceppi stringono – il corpo ferito – e soffri pene di libertà, -
ascolta la voce. – Siamo uguali.

Riprendendo e sviluppando i temi della questione sociale, che è il cuore della questione meridionale – e che già avevano ispirato i versi di Malinconia di terra (1976) e Il Sud non è forse…(1980) – Giuseppe Iuliano con Una misura di sale porta avanti, con la sua poesia civile, la fiera, sdegnata, virile denuncia dei mali del Sud. Una misura di sale: è la ferma severa dignità del rifiuto del passato e l’impegno a cambiare per conquistare il nuovo.

Tra Malinconia di terra e Una misura di sale, la poesia di Iuliano vive e soffre la disperata esperienza del terremoto e questa nuova tragedia meridionale polverizza non solo le case di sabbia, ma mette a nudo la povertà, la miseria, l’emarginazione del vecchio mondo contadino. Nella notte del 23 novembre, il cuore di Iuliano si spezza a contatto con una realtà intrisa di miseria e di inganni, di lutti e di promesse; e vive la tragedia della distruzione dei paesi-presepe dell’ Alta Irpinia, degli emigrati che arrivano prima dei soccorsi ufficiali di uno Stato tuttora «assente». Ed arrivano per scavare con le mani i loro morti e per seppellirli mentre sono travolti da un fiume vorticoso di impegni verbali e di nuove promesse. Se il cuore di Peppino accetta la generosa e tempestiva solidarietà umana, la sua ragione, la sua fiera dignità civile, si ribellano di fronte a nuovi, ripetuti, turpi inganni. Si ripete la storia di sempre: dopo ogni sciagura naturale che si abbatte sul Sud, il potere scopre l’esistenza di una questione meridionale e si affanna in nuove promesse che non saranno mantenute. E Peppino Iuliano si fa il diretto portavoce dello sdegno e dell’umiliazione delle aree terremotate e dei fratelli meridionali ingannati e delusi: i versi di Per non morire e Oltre la speranza – due raccolte di poesie che hanno visto la luce nei mesi successivi al terremoto -  sono il calvario quotidiano di un giovane meridionale che si ribella, con il cuore e la ragione, ad una nuova stagione di promesse e di inganni. Sono versi taglienti come le pietre del profondo Sud; e lasciano il segno sia sulle maschere incartapecorite dei detentori del potere sia sulla coscienza candida dei giovani che sono restati per dare vita ad un nuovo processo di sviluppo: «Ma i figli sono degni dei padri, / continueranno la lotta con forza / per non morire». Ed è proprio con Per non morire ed Oltre la speranza che la poesia di Iuliano si carica di nuovi valori civili e sociali e consuma una nuova stagione di dolore e di rabbia civile per il Mezzogiorno ferito dalla violenza della natura e saccheggiato dal potere clientelare. La poesia di Iuliano è proposta di lotta e di impegno civile, essa si traduce – come aveva già indicato Rocco Scotellaro ai suoi contadini – in scelte operative per placare l’immenso bisogno di libertà e dignità. Con tutta la serena forza della coscienza che non si piega, Peppino indica ai giovani, come aveva fatto Rocco, l’imperativo morale di «non distrarsi al bivio»:

I giovani lotteranno – per la casa e la vita futura –
senza più vendersi – coscienza ed umanità
(Come risorgere).

Le devastanti conseguenze del terremoto propongono in primo piano l’esigenza morale, prima ancora che politica, di definire una organica linea di azione, di impegno civile, di lotta democratica, di più diretta partecipazione delle masse alla vita comunitaria. E come sempre nel Sud l’interrogativo che si pone la povera gente, il cafone schiacciato da secoli bui di rassegnazione e di paura, è lo stesso che si pone l’intellettuale, il poeta quando vive immerso nel suo tempo ed a contatto diretto con la realtà che lo circonda. Sulle macerie della sua casa e su quelle dell’ Altirpinia, Giuseppe Iuliano si pone l’interrogativo che aveva lacerato la coscienza di Rocco Scotellaro: «Noi che facciamo?», ed allora non si ritrae, non si chiude in se stesso, non si guarda allo specchio. Egli sa che quell’interrogativo non riguarda solo gli altri, riguarda innanzitutto se stesso: con altri giovani si butta anima e corpo nell’azione civile e sociale, promovendo nuove iniziative associative culturali e giornalistiche, squarcia la membrana dei lirismi arcadici e degli estetismi decadenti e con la sua poesia – una voce forte e fiera, vibrante d’indignazione civile e carica di speranze – canta il definitivo tramonto delle vecchie concezioni e degli inadeguati comportamenti dei nostri contadini. All’estetismo decadente della solitudine del contadino in mezzo ad altri uomini – i contadini soli e chini sulla terra avara; i contadini soli e deboli di fronte alle prepotenze del potere e dei suoi manutengoli; i contadini soli ed indifesi di fronte alle avversità della natura: frane e terremoti; alluvioni e siccità; - Giuseppe Iuliano oppone un fermo e severo richiamo alla solidarietà, all’unione degli sforzi, alla comune battaglia contro le satrapie locali. «Risorgeranno insieme / raccogliendo nel tempo / le ceneri disperse, / senza dover più niente / ai satrapi mediatori»: e senza nulla concedere ai notabili locali, ai mediatori del potere, Peppino con Michele Lombardi, Luigi Prudente ed altri giovani avvia la costituzione e realizza, per la prima volta a Nusco e nell’ Altirpinia, una cooperativa culturale «Solidarietà», che rappresenta la più compiuta e piena presa di coscienza dei limiti e delle debolezze della società contadina, polverizzata in minuscoli frammenti e, di fatto, impotente ad affrontare le impegnative scelte ed azioni per un nuovo tipo di sviluppo economico. Ciò conferma che l’impegno civile di Iuliano non si esaurisce con la sua poesia civile: la sua coscienza di uomo libero che sente su se stesso l’ingiustizia che grava sui fratelli meridionali («Restiamo sulla nuda terra, / bagnata di sangue / e di cocenti lacrime, / contro altri saccheggi») lo spinge all’azione per promuovere e realizzare nuove iniziative di ampio respiro sociale. Ed in questa direzione Iuliano realizza nei fatti e nel comportamento civile di ogni giorno quel rapporto tra cultura e politica (eticamente intesa) e «piega» la sua solitaria coscienza individuale ad un impegno sociale, al dramma collettivo della sua comunità locale, dell’ Altirpinia e del Mezzogiorno.

Da questo complesso groviglio di valori culturali e di sensibilità sociale, di solidarietà e di intensa partecipazione, si snoda la poesia di Giuseppe Iuliano: una poesia che nell’arco di sette anni (da Malinconia di terra a Una misura di sale) non conosce battute d’arresto nella sua dura e vigorosa denuncia sociale e nello slancio generoso e ragionato di indicare, sul terreno proprio della battaglia civile e del confronto delle idee, le linee di un riscatto e di uno sviluppo globale che l’ Altirpinia, come del resto tutte le altre aree dell’«osso» meridionale, attendono da secoli. Queste ragioni  sono al fondo della poesia di Iuliano, un poeta civile che ha rotto il limbo dell’utopia, che non conosce l’isolamento fantastico, e che si colloca al centro della battaglia democratica e nel cuore di quel filone della cultura meridionale – laica, civile, autonoma ed anticonformista – che mai si è attardata in posizioni di retroguardia e di autocompiacimenti.
A Peppino Iuliano tocca a pieno titolo un posto di rilievo nella lirica civile meridionale, e Una misura di sale suggella definitivamente il legame ideale che unisce i versi di Peppino a quelli delle grandi luci della poesia meridionale, prima tra tutte alla poesia di Rocco. Leggendo le trentuno poesie di  Una misura di sale è lecito porsi la domanda che angosciava Pietro Lacaita e che lo stesso rivolse poi ai lettori del suo «Oltre Eboli»: per chi e perché scrivere? Ora, leggendo Una misura di sale siamo consapevoli che, poeti come Giuseppe Iuliano sono in grado di rispondere all’interrogativo dell’editore di Manduria: perché essi scrivono parlano alla ragione umana, alla coscienza civile e scrivono vivendo in prima persona il dramma meridionale. E scrivono per tutte quelle coscienze libere che non si stancano di combattere contro pregiudizi e paure, arroganze e viltà, ingiustizie e soprusi: antichi retaggi di una società meridionale nella quale il peso dei vecchi «sistemi» è tuttora forte e condizionante.

A questa realtà meridionale la lirica civile e sociale del Sud non ha reso un omaggio rituale con le sue esercitazioni poetiche e «l’esaltazione sensibilistica ed estetizzante» (Asor Rosa) ma ha operato da sempre, da Scotellaro a Iuliano, per avviare l’ingresso definitivo del «contadino-personaggio» nel mondo della vita e del lavoro «con il suo intervento attivo, col suo linguaggio, pensando e parlando cioè direttamente, in prima persona, senza mediazioni politico-letterarie» (Vittorio Fiore). Perciò, la poesia civile e sociale della protesta meridionale è impegno di lotta, è azione di rinnovamento, è libertà e verità, è al tempo stesso denuncia e proposta. Questa poesia ha abbandonato, come scrisse Quasimodo, le  «modulazioni astratte del sentimento» per scegliere definitivamente – come ha fatto Peppino – il campo della protesta morale, i sentieri della battaglia delle idee, la strategia dell’azione riformatrice. Le contemplazioni intimistiche e l’autocompiacimento narcisista sono fuori dell’ottica di Iuliano. Le immagini evocate dalla sua poesia civile sono forti e vigorose, taglienti come le staffilate, i suoi versi sono stimoli all’azione civile perché «battono sul cuore dell’uomo» (Quasimodo). Essi non esprimono rimpianti per le  «muse dei boschi» e il «silenzio delle valli» ofantine ma esprimono l’indignazione propria di ogni coscienza libera di fronte alle antiche e nuove ingiustizie. Questa poesia di libertà e di verità, di denuncia e di indignazione civile è la poesia di Peppino Iuliano, un poeta che non resta «neutrale» di fronte al dramma dei suoi fratelli, ma vive con essi la disperata esistenza meridionale, senza arrendersi alla ineluttabilità e senza piangere inutili e sterili lacrime.
E’ stato osservato da Lewis che la poesia meridionale del dopoguerra si ricollega alla «cultura della povertà», ad una cultura che esalta al tempo stesso le necessità dell’assuefazione e gli slanci della reazione (valori assai cari alla poesia di Rocco) in quanto essi rappresentano i due momenti essenziali della condizione esistenziale dei «poveri» che prendono coscienza della «loro posizione marginale in una società stratificata in classi, molto individualista, capitalista».
La poesia civile meridionale è un inno di protesta e di denuncia, di indignazione e di rifiuto della società chiusa ed immobile, della società classista e, pertanto, il rapporto tra cultura meridionale e società meridionale è il vecchio e sempre attuale banco di prova degli intellettuali che non vogliono ridursi in «predicatori» arrabbiati e dei «politici» che non vogliono trasformarsi in meccanici strumenti del potere. La poesia civile del Sud, rivolta essenzialmente alla società subalterna ed emarginata dei contadini e dei cafoni, possiede una fierezza intellettuale e una dignità morale che porta, senza ambiguità e contraddizioni, al rifiuto netto e radicale delle condizioni dell’emarginazione e del sottosviluppo. Essa conduce, altresì, dopo secoli di paure e di servilismi del mondo contadino, al pieno recupero dei valori delle lotte sociali e bracciantili che si sviluppano dalle ultime fiammate della civiltà contadina per l’assegnazione delle terre, fino ai drammi dell’emigrazione, dell’urbanesimo, del post-industrialismo.
Bisogna convenire con la ferma conclusione di Leonardo Sacco: «è tempo di riconoscere la necessità di intervenire nel Mezzogiorno con mentalità e metodi molto diversi da quelli spesso usati anche dalle forze di sinistra». La cultura e la poesia meridionale riprendendo l’insegnamento di Rocco Scotellaro sono chiamate a svolgere una insostituibile funzione di stimolo e di pressione perché le masse popolari e le forze sociali e politiche sentano la forte consapevolezza di una diretta partecipazione alla lotta civile e politica. E’ altresì necessario che all’interno dei partiti nazionali – nei quali l’incrostazione del potere centrale e della burocrazia di partito non concedono spazio vitale alle  «ragioni» del meridionalismo – la cultura meridionale abbia possibilità concrete ed operative di contribuire alla determinazione di scelte e comportamenti. «Questa terra, amara Betlemme, / madre stanca di falsi salvatori / cerca, da anni, la giusta pace», scriverà Iuliano in  «Terra del Sud», (la prima poesia dopo il prologo), quasi a definire il suo punto di attacco contro le «trame sottili degli uomini, / che violentano il Sud / con nuovi sette dolori».

Nella poesia di Iuliano è forte, aspro, tenace il respiro ideale e culturale della poesia civile del Sud, in particolare quella della prima generazione dei poeti meridionali (da Rocco Scotellaro a Vittorio Fiore, da Luigi Compagnone a Vito Riviello, da Alfonso Gatto a Domenico Rea) che cantarono l’ultima epopea del mondo contadino ossessionato dalla lotta sociale per la conquista della terra, ed i cui protagonisti erano quei braccianti poveri e diseredati che Scotellaro aveva amato come la «turba di pezzenti» e la «truppa di riserva». Contadini che non avevano trent’anni fa lacrime per piangere e fiato per imprecare, eppure trovavano la forza con i versi di Scotellaro di chiedere ed esigere migliori e più civili condizioni di vita:

Gridano al Comune di volere – il tozzo di pane e una giornata –
e scarpe e strade e tutto –
(E ci mettiamo a maledire insieme).

Come la poesia di Rocco Scotellaro, anche i versi di Una misura di sale non si consumano ed esauriscono nella pura e semplice denuncia sociale, ma tendono a sviluppare un processo continuo di crescita e sviluppo della coscienza individuale e collettiva, nella incessante sfida quotidiana per un mondo più umano e più giusto. Questa sfida è raccolta da Iuliano e in essa coinvolge i giovani:

Se desideri  - un mondo migliore - sfidalo senza paura –
e lascia la pazienza ai deboli - che non hanno forza –
per la lotta (Quel suono).

E alla lotta civile per un Sud migliore ci si prepara, come avvertiva Vittorio Fiore in Ero nato sui mari del tonno, con una massiccia ed attiva partecipazione collettiva delle masse popolari («Torneremo alle grandi speranze, / tra i caldi greti dei fiumi / in mezzo alla nostra terra»). Una terra che nessuno ti regala, né i vecchi né i nuovi baroni del potere clientelare. Il diritto al lavoro e ad un avita più serena bisogna conquistarlo. E per Iuliano

La storia non inganna: - basta solo uno squillo!

per scatenare nei cuori dei meridionali la scintilla di una passione lacerante, di una speranza che non potrà tardare a venire: uno sviluppo più civile che renderà finalmente uguali i fratelli italiani del Nord e del Sud.

La seconda generazione dei poeti meridionali, cresciuta negli anni roventi della polemica sull’industrializzazione del Sud ed attenta e sensibile ai temi della promozione sociale dell’ex contadino ad operaio, svilupperà una lirica civile che non si accontenta più di operare il recupero dei vecchi valori e delle «radici» della società contadina, sibbene si impegnerà a definire il ruolo del lavoratore agricolo che ha abbandonato i campi per inserirsi nella società industriale. Ai poeti di questa seconda generazione meridionalista (A.M. Moriconi e Mario Dilio; Ennio Bonea e Gianni Custodero; Cosma Siani e Giuseppe Rosato; Mario Trufelli e Tommaso Di Ciaula) non sfugge l’insidia delle  «retoriche antitetiche» (come le ha definite Carlo Alberto Augieri) e che determinarono una larga dose di mistificazione sul movimento contadino meridionale. Perciò con essi la poesia del Sud tende a penetrare e a conquistare la complessa ed alienante esperienza della civiltà industriale, non senza aver sottolineato lo sconvolgente dramma dell’emigrazione, che è conseguenza del mito del posto in fabbrica ma anche la disperata liberazione da un mondo povero e chiuso. Toccherà, tra gli altri, a Tommaso Di Ciaula (ex bracciante pugliese: di quelli che a Vittorio Fiore «riportano dalle piazze le voci che all’incerte luci dell’alba / all’asta comprano i braccianti») cantare la nuova sofferenza, il nuovo duro calvario dei lavoratori meridionali sradicati dalle campagne e inseriti nelle catene di montaggio. La condizione è dura: non c’è lavoro nel Sud che non costi sangue e sudore (e qualche misura di sale per misero compenso). Tommaso Di Ciaula, l’ex bracciante, è ora l’uomo della saldatrice:

Io sono il diavolo della saldatrice: - dietro questa maschera –
dietro questo fumo – il mio volto è torvo –
io non sono felice
. (Io sono l’uomo della saldatrice)

ed esprime la sua infelicità, perché la catena di montaggio come il duro lavoro dei campi alimenta odi e rancori tra i pochi fortunati e i molti esclusi. Sono sempre in troppi, in milioni, i lavoratori meridionali alla ricerca del posto di lavoro e di una dignitosa occupazione. Un tema che ricorre insistente nella poesia di Iuliano è la diaspora meridionale, la fuga dalla terra del Sud, la rottura dei legami familiari; temi di fondo della poesia della seconda generazione che si chiamano con Mario Dilio («Il secondo salario» e «La mia fabbrica»), con Giuseppe Rosato («Noi restiamo a cantare»), con Gianni Custodero («Gli anni dei miracoli») ed «Il vizio antico», con Mario Trufelli («Siamo più soli»: l’ode è in onore di Rocco Scotellaro). E Iuliano non sa sottrarsi al fascino disperato dell’abbandono dei vecchi sentieri che coinvolge un fiume di meridionali con l’emigrazione perché attratti dalle industrie del Nord, e

Dalla terra – fuggi verso altre terre –
disperso e ignorato dagli uomini

in quanto la dura condizione del meridionale consiste in una nuova espiazione, che si aggiunge alle altre che ha dovuto sopportare con la malaria, le frane, i terremoti, l’agricoltura povera, ed è quella

di sopportare – nel nome di Dio, dei re –
e delle nuove dinastie – le insaziabili voglie –
di eterni comandi.
(Carta d’identità).

La lezione di Scotellaro e Fiore viene fatta propria dai poeti della terza generazione meridionalista: essi si cimentano in prima persona nelle battaglie di libertà e di progresso, perché insieme ai fratelli meridionali – ora non più  «turba di pezzenti» ma sempre emarginati dal processo di sviluppo – sono impegnati a strappare «ai padroni, le maschere coi denti».
A questa generazione appartengono – tra gli altri – Giuseppe Liuccio e Rosa Maria Fusco, Giuseppe Settembrino, Luciano Stolfi, Giuseppe Monaco e Peppino Iuliano. Nello sviluppo della poesia meridionale di questi ultimi dieci anni c’è la ricerca di una feconda sintesi tra la sfera del privato e l’azione sociale: già Dante Maffia con l’Eredità infranta e con Le favole impudiche aveva cantato una Calabria in preda all’ansia lacerante di nuovi livelli di vita civile, il rifiuto delle umiliazioni patite dal «terrone» nelle città del Nord e dall’emigrato in Europa. Eppure in Maffia, come poco più tardi nel Liuccio de Il fiore dei poveri il privato ed il sociale si integrano e si sovrappongono, non costituiscono due mondi separati ed incomunicabili. Lo stesso Iuliano, pur vanificando e demistificando «parole soavi» e «pensieri sublimi / che fanno vibrare / le corde dell’anima» per proporre un appesi di verità e di lotta, intende sempre la sfera privata come collegata al tumulto dei sentimenti, delle rabbie, delle ingiustizie che discendono da una società chiusa negli egoismi ed interessi delle classi egemoni. Il lirismo di Giuseppe Liuccio, rivolto più alle cose che alle parole, è sempre fortemente partecipe del dramma del Sud: «Nutrito di sudore / in grembo a mia madre / ho pianto / alle bocche sguaiate dei pozzi / bevendo giustizia / nei sogni / gustando domani / migliori di ieri».
Iuliano, come Liuccio, non appartiene alla schiera di coloro che eludono le scelte: questa sua poesia civile, pur accarezzando le «radici» incorrotte della vecchia società contadina con tutti i suoi sogni e le sue speranze

Anche da noi – libertà sei una parola –
che riempie la bocca – della gente ribelle
(Anche da noi)

è sempre l’urlo vibrante e strozzato della denuncia sociale che domina su tutto. E così, grida Iuliano:

Le nostre maledizioni, - vendette dei deboli, -
non rovinano i castelli – dei nuovi signori
(Desiderio).

Alle arroganze vecchie  e nuove dei baroni feudali e dei mazzieri fascisti, come al rozzo e volgare clientelismo dei nuovi signori del sistema di potere dominante, Giuseppe Iuliano contrappone con Una misura di sale l’esigenza di una radicale trasformazione delle strutture della democrazia «formale» con nuovi livelli di partecipazione e di emancipazione delle masse, di «liberazione» del cittadino dalle antiche paure e dalle nuove soggezioni. Alla magia e al simbolismo della cosiddetta «civiltà contadina», Iuliano contrappone gli aneliti di giustizia, le speranze di progresso, le lotte di libertà, i nuovi meriti e gli antichi bisogni di un mondo travolto ed umiliato dalla gestione clientelare e spartitoria della vita pubblica, dalla vergognosa e disumana pratica del «miracolismo» legato a promesse vuote ed effimere sicchè

Pezzi di carta – simboli d’affetti – mai goduti –
legano le famiglie – alla promessa
(Pezzi di carta).

Il poeta intende, vive e soffre il travaglio del mondo contadino subalterno ed emarginato, ma con la sua poesia spezza «i ceppi che stringono il corpo ferito», rivolgendosi ai tanti figli del Sud che, disperati e dispersi lungo gli aspri ed avari dorsali appenninici, continuano a restare soli e chini su una terra che «non appartiene al mondo civile» e

derisa – non sa farsi rispettare – e lamenta –
senza consensi – le attese riforme.

Ai «contumaci della storia» Iuliano ricorda che bisogna rompere le perfide incrostazioni del potere clientelare, perché la terra del Sud «chiusa / nel vortice del ricatto / non sa alzare la voce / sopportando in silenzio / assurde decisioni». Ciò significa che non possiamo lasciare deleghe in bianco ai  «satrapi mediatori», ai detentori del potere politico, i quali hanno le stesse maschere dei vecchi padroni. Ed è per questo che il «sottile gioco delle idee» - che è poi il vecchio e logoro modo di far politica nel Sud: un sistema intriso di arroganza e sopruso, di blandizie e di ricatti, di illusioni e di cocenti delusioni -; e, questo perverso meccanismo del potere che ingloba i notabili di tutte le risme ed i voltagabbana di ogni stagione politica,

regala gli ultimi sussulti – di vecchi comandamenti –
e tenta nuove trame – rifacendosi il viso prezzolato –
nei lupanari di potere. –
(Senz’amore).

I prezzolati di ieri e di oggi continuano a mantenere i fili di un sistema di potere che nel Sud schiaccia i più deboli perché ha mostrato sempre il suo volto ripugnante: quello di essere forte con i deboli e debole con i forti. Ma la giustizia, come avverte Iuliano, non ha protettori perché ha sempre rifiutato i maneggi e le operazioni clientelari e truffaldine «di esperti ruffiani / che carezzano, al soldo, / un falso amore / che non può durare». Il trasformismo della classe dirigente meridionale, la sua snervata e subalterna soggezione agli interessi delle classi dominanti e dell’egemonia dei gruppi economici del Nord ha alimentato la sfiducia del popolo nelle istituzioni rappresentative della democrazia parlamentare, prima e dopo del fascismo. Il fenomeno degli «ascari» è tutto questo, ma è anche il voltafaccia ed il tradimento di una classe dirigente meridionale che si è legata al carro dei potenti di turno, venendo meno alla sua funzione etico-politica di rappresentare le  «ragioni» storiche della condizione meridionale. Peppino Iuliano si fa carico di queste «ragioni» e con Una misura di sale ripropone, in chiave poetica, il discorso severo e rigoroso dei meridionalisti della ragione, raccontando storie umane a chi odia gli inganni e vuole «spazi di democrazia».

Una misura di sale – il tipico condimento dei poveri – era nel mondo chiuso dei «baroni» e dei «contadini» il prezzo di una giornata di lavoro dei braccianti meridionali. A chi ricorda con enfasi e sterile malinconia la cosiddetta «civiltà contadina», bisogna opporre la considerazione che essa è stata, semmai, una stagione di miseria e di povertà, di sopraffazioni e di emarginazione. E, pertanto, Iuliano ha il merito con queste poesie, di aver bruciato le vele alla antica retorica dei «ruralisti», alla sociologia cattolica non meno che al populismo demagogico, e di aver approfondito una realtà sociale e civile di arretratezza largamente diffusa nelle campagne meridionali, dalle quali prorompono ancora oggi, come dalle piazze pugliesi, le voci dell’amara palude, di quella «malinconica terra che mi uccide» e dove «anche l’Addolorata / ha spade d’argento nel petto» (V. Fiore). Certo, i braccianti pugliesi e cilentani, irpini e calabresi – precettati ancora sulle piazze avvolte dal buio della notte da «caporali» senz’anima – non vengono più pagati con una misura di sale, l’antico condimento del cibo dei poveri. Ed anche se Peppino non ci dice in cosa consista la misura di sale dei nostri vecchi braccianti – una misura che poteva raccogliersi nel pugno di una mano o in un bicchiere di latta – è certo che quella misura poteva contenere tanto poco sale e tanto poco olio da non poter sfamare una famiglia. Ma quel pugno di sale e quel bicchiere d’olio – mentre gli  «ascari» meridionali si intruppavano nelle maggioranze parlamentari per sostenere gli interessi dell’industria del nord e degli agrari del sud – doveva servire, insieme a tanta acqua, a dare un pallido sapore al pane o alla insufficiente minestra. Ma è anche vero che il condimento dei poveri, questa insufficiente misura di sale ha segnato per secoli il comune destino di braccianti e contadini, rendendo fratelli – ed uguali (come scrive Iuliano) – i più deboli e sfortunati. E mentre i contadini di Rocco e di Peppino nelle assolate terre del Sud intingevano il pane bagnato d’acqua nel sale e nell’olio, i luigini meridionali usurpavano le terre demaniali, sopprimevano gli usi civici, calpestavano dignità e libertà. Il contrasto tra contadini e luigini è il punto centrale dello scontro in atto nel mezzogiorno da secoli; e tale contrasto non è stato superato, né con l’Unità, né con la democrazia postfascista. Esso diventa il punto centrale della tematica di Carlo Levi, di Rocco Scotellaro, dei meridionalisti più severi ed attenti al processo di crescita civile del Sud. Ne ha dato una spiegazione Carlo Levi nell’Orologio: «Sono contadini tutti quelli che fanno le cose, che le amano, che se ne contentano. I Luigini sono gli altri. La grande maggioranza della sterminata, informe, ameboide piccola borghesia, con tutte le sue specie, sottospecie e varianti, con tutte le sue miserie, i suoi moralismi ed immoralismi, e ambizioni sbagliate, e idolatriche paure». Ora, come sottolinea acutamente Leonardo Sacco, i problemi del Mezzogiorno possono essere visti in modi diversi e da vari punti di vista: ma il più giusto è di vederli ed affrontarli «dall’angolazione della parte più povera, più bisognosa, dalla parte dell’osso del Mezzogiorno». A questo richiamo non si sottrae Iuliano, anch’egli come Scotellaro e Sacco, figlio dell’osso meridionale:

Apparteniamo all’osso – alla terra più aspra – che pasticcia –
ancora la lingua – e non si fida dello Stato.
(Senza differenze).

E come possono i meridionali fidarsi di uno Stato assente, gestito su delega e lottizzato tra padrini e padroni, baroni e luigini? La poesia sferzante di Iuliano non concede tregua agli «occupatori» del potere locale e centrale, a tutti coloro che con retoriche blandizie come con arrogante sicumera ed impunità somministrano le

Parole audaci e snervanti – di nuovi paladini, -
padrini sporchi di sangue – padroni mai sazi di soldi,

impegnati a difendere la «vergognosa causa / di gente logora di affanni», perché giustizia sia fatta. E,

La pietà si fa subito serva – e regala sussidi –
e carità di stato. –
(Paladini padrini padroni).

Ed allora, quando la misura di sale non serve più a sfamare la «turba di pezzenti» e quando il mondo contadino, da Scotellaro a Iuliano, avverte l’esigenza di cambiare e di intraprendere i nuovi sentieri della libertà compiuta – la libertà non solo «di» (quella classica e «formale») ma soprattutto la libertà «da» (quella dai bisogni) – il grido che prorompe dal cuore del poeta è un inno possente, un urlo lacerante verso la conquista della nuova libertà:

Anche da noi – libertà sei sangue –
da un petto squarciato – che chiede solo giustizia. -
………………………………………………………
L’ansia di vivere – della mia gente – si chiama libertà –
e trascura ogni altra ragione. –
(Anche da noi).

E’ questa di Iuliano una poesia che si iscrive nella grande cultura meridionale e trova posto – un posto di primo piano – nel filone di quel meridionalismo della ragione che oggi è la risposta più matura e compiuta contro le miserie e gli intrallazzi del potere clientelare ed è anche la misura di sale necessaria per ravvivare il dibattito delle idee sui grandi temi del nuovo destino del Sud.
Alla stagione dei pseudo-intellettuali asserviti al sistema di potere dominante, Peppino Iuliano contrappone una poesia civile che rifiuta ogni pregiudizio razzistico ed ogni tipo di approccio sentimentale alla questione meridionale: in questa poesia – ed Una misura di sale ce lo conferma ampiamente – prevale la ragione ferita e non il sentimentalismo sdolcinato, prevale la severa indicazione di una linea di azione civile che dovrà tradursi in volontà morale e politica di cambiare le cose, per rendere giustizia al Sud, per farlo progredire verso una più intima e solida integrazione con il resto d’Italia e con l’Europa.
Questi versi di Peppino sono come i semi dispersi dai nostri vecchi contadini: semi dispersi non al vento ma sulla terra perché possano poi germogliare e dare nuova vita. I semi dispersi di Peppino sono destinati a essere immagazzinati dalle formiche e non divorati dai passeri. In fondo noi siamo, come scrisse Tommaso Fiore, un «popolo di formiche» perché amiamo conservare ciò che ci serve, perché la povertà contadina ci ha insegnato a lesinare su tutto, a vivere con una misura di sale, un tozzo di pane, ed un bicchiere d’acqua. Ed ecco come i «semi dispersi» di Iuliano sono a loro volta creature siloniane. Ed «il seme sotto la neve» è un seme che germoglia anche sotto la coltre bianca, ed è destinato a schiudersi alla vita con la primavera che ritorna. Per Ignazio il «seme sotto la neve» è un «sentimento elementare di fraternità», è l’«istintivo attaccamento alla povera gente» di altra povera gente, è la speranza genuina e generosa dei «cafoni» che cercano la strada del coraggio e dell’autonomia. Per Giuseppe Iuliano i «semi dispersi» dai contadini sulle terre dell’osso rappresentano un «sacrificio di libertà / mai godute»; e perciò

L’ultima scelta – resta sempre la lotta,

purchè non sopraggiunga – come sempre – una «sorda invocazione» che ruba ai poveri la vendetta. Allora – come sempre – scenderanno sul Mezzogiorno

Giustizieri decisi

i quali, protetti e aiutati dai satrapi mediatori,

con mano sicura – bruciano sul rogo del potere – l’idea fissa di cambiare.

La poesia di Peppino ci avverte a «non mollare», pena la vanificazione di lunghe lotte e di decisi impegni. Ma i «semi dispersi» saranno raccolti da altri cuori generosi per costruire quella «nuova civiltà» meridionale nella quale

Non è più tempo - di pazienti rimandi –
e di suadenti parole – per sanare i continui bisogni.

Ed allora non sarà stato vano il seme disperso da Peppino: un seme che germoglierà perché abbiamo la piena coscienza che la misura di sale oggi sufficiente per placare i nuovi e continui bisogni è una misura di libertà. E la libertà è per la democrazia come il sale per i poveri. Noi reclamiamo più libertà perché il sale della democrazia ci schiuda le porte di un avvenire più umano. E di questa ferma consapevolezza siamo grati a Peppino, questo giovane incorrotto ed incorruttibile che non ha conosciuto il sale dei poveri ma crede fortemente e si batte duramente per assicurare agli altri il sale della democrazia.

Franco Compasso

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Prologo

Tu che cerchi

parole soavi

di pensieri sublimi,

che fanno vibrare

le corde dell’anima,

rimarrai deluso.

Ti prego, non continuare!

 

Distenditi all’ombra

guarda le stelle

e sogna il tuo mondo;

ingannalo di miti

coloralo di illusioni.

Non ho messaggi per te.

 

Se la luna e l’amore

sono i veri problemi

volta le spalle

e non chiedermi nulla.

Siamo lontani ed estranei.

 

Se i ceppi stringono

il corpo ferito

e soffri pene di libertà,

ascolta la voce.

Siamo uguali.

 

Tu che odi gli inganni

e vuoi spazi

di democrazia

per scegliere,

cerca la solidarietà.

Se credi nell’uomo

senza interessi

sfoglia pure queste pagine.

Ti racconterò storie umane.

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Terra del Sud

 

Questa terra, amara Betlemme,

madre stanca di falsi salvatori

cerca, da anni, la giusta pace.

I campi, terre ballerine,

riscatto di malarici briganti

saldo di crociere di emigranti

da sempre miraggio dei poveri,

pagano tributi umani

alla perfida storia

delle uguaglianze.

Un misto di sangue e di rabbia

soffoca le ultime energie

e acceca di ripetuti bagliori

disperati contadini piegati

da inutili terre occupate

e da trame sottili degli uomini,

che violentano il Sud

con nuovi sette dolori.

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Senza differenze

Apparteniamo all’osso

alla terra più aspra

che pasticcia

ancora la lingua

e non si fida dello Stato.

Tanti sassi

paesi e città

 il nostro mondo,

l’orizzonte da non varcare,

diventano confine,

croce per chi resta e chi va

senza differenze.

Nella forzata scelta

gelosi custodiamo le radici

seminate in anni

 e terre diverse,

ma attaccate nel profondo

a pietre sconnesse

e sconsacrate

che rivendicano pur esse

un’incredibile anima.

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Il mito della terra

 

Non cercare pretesti

per spiegare

il tempo perduto.

Non usare troppe parole

per farti ascoltare.

Non servono capacità!

La forza del ricatto

piega

ogni discussione

e ti mantiene in vita.

Il sacro nome

portato in giro

nella processione delle idee

miracola e santifica.

Quante grazie

dà la nuova potestà

ed illumina i devoti

fedeli della nuova religione.

Strani riti

di prodotti della terra,

ex-voto dei poveri

candele della nuova speranza

onorano i santi.

Quanti impositori

ieri miseri

e forti dei gomiti

cingono oggi le aureole

e danno benedizioni?

Anni santi

di elezioni

rinnovano

preghiere e indulgenze.

Si aprono sulla terra

porte di paradiso

senza meriti umani.

Gente contenta

fa parte della muta

e cerca di mordere

nella battuta di caccia

la preda uomo.

Altra stanca e delusa

prepara la redenzione,

osannando liturgie di lotte

fatte di martìri cruenti

e di disperate liberazioni.

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Nel buio di sempre

 

C’è sempre il Sud,

vecchio di dolore

e di maledizione,

fuori del tempo

e del benessere.

Il pianto delle madri

segue un abito bianco

che invola nella cascata di riso

speranze di vita.

Offre ragioni al cuore

per capire i figli lontani

che masticano pane e lingue

per assicurasi il futuro.

Canta storie antiche

di solidarietà

alle gelide carezze della morte.

Gente sperduta

tra monti e contrade

non trova diverse

un’alba dalla sera.

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Desiderio

 

Le nostre maledizioni,

vendette dei deboli,

non rovinano i castelli

dei nuovi signori.

I forconi e le falci

nicchiano sotto le pietre,

nascondendo sbiaditi ricordi

di vecchie epopee contadine.

Segreti giuramenti

spezzano vogliose ritorsioni

e rintanano desiderate rivalse.

Nei sacrifici umani

solo la speranza non crolla

e rivendica timida e fioca

nell’inviolabile sogno

il sapore vero

di stregate libertà.

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Emigrante o carabiniere

 

Sognavamo ciminiere

che sposavano di nero

l’azzurro dei cieli

e coloravano di rosa

l’incerto futuro.

Il nostro mondo

apparve diverso

per essere uguale.

Chiedevamo lavoro

per garantire alla terra

ricchezza e braccia

e per dare ai figli

famiglia ed amore

senza tempo.

Ad occhi aperti

siamo diventati emigranti,

cresciuti in nuove colonie,

logorati dalla speranza

di tornare.

Abbiamo stretto i denti

per non essere vinti

e per non maledire

l’estranea patria.

Siamo diventati carabinieri

per difendere uno stato

che mai fu nostro

e per fare giustizia

senza alcun beneficio.

Per vivere

ogni anno ritorniamo

sotto cieli puliti

per guardare le stelle

e parlare, mai stanchi,

di vecchie storie

e di amare realtà.

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Una donna sola

 

L’amore sfiorò

il ventre e le labbra

regalando rapidi abbracci.

Le carezze

coprirono veloci

gli spazi desiderati

e colmarono i sensi

di meraviglia,

lasciando sulla pelle

brividi di sentimento.

La gioia di lunga vita

svanì

e divenne attesa.

Con la nuova stagione

spiegasti il corredo

di pizzi nostrani,

carichi di sogni

di generazioni di donne,

per dare al tuo uomo

lontano in San Gallo

l’illusione di averti con sé.

Soli invece

nell’assurdo destino.

La grazia femminile

giovane vigore soffocato

dalle umane desiderate insidie,

conserva la giurata fedeltà.

Donna di mille fatiche

 ignorato modello

d’invidiabili virtù

racconti ai giorni

la tua storia di madre.

Un figlio ed altri ancora

ti fanno compagnia,

senza saper dire, basta!

Per il sospirato ritorno

spendi l’ultimo sorriso

e stanca e rugosa

guardi i passeri cresciuti

spiccare dall’impossibile nido

nuovi voli.

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Un confine dentro di noi

 

Come ricci

ad ogni sventura

ci chiudiamo

nella nostra pelle.

Tutto resta dentro di noi.

Inseguiti, calpestati

gemiamo di dolore

senza offrire la resa.

La saggezza dei padri

non serve per cambiare;

l’ingenuità

è considerata ignoranza

e non convince

l’abile croupier

mistificatore d’imbrogli.

La vita marginale

non conosce

i numeri delle leggi;

campa

ancora alla giornata

e mescola ricordi di feste

con altre d’importazione.

I pensieri diversi

al primo albeggiare

diventano ombre

per cacciare nell’oblio

occasioni di peccato

e di fatali punizioni.

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Terra d’esproprio

 

Sud

riempi la bocca

di ciarlatani di mestiere

che hanno gola profonda

e mano rapace.

Quanta gente

illusa partigiana

presta fede e simpatie

e odia e rompe

la difficile unità

dei poveri.

 

Sud

c’inganni ogni giorno.

Stanco di litanie

non osi ribellarti

e sopporti con incredibile pazienza

insidie e miserabili raggiri

di nuovi capitani di ventura.

Terra d’esproprio

sorgi e difenditi

e sbatti alla malora

i sempiterni feudi.

 

Sud

non più servo e fedele

accendi le stoppie del cuore

e conquista la mente sconvolta

con nuove ragioni

per non cedere

alle storiche violenze.

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Una misura di sale

 

Noi

gli eterni assistiti,

comprati al mercato delle braccia

per qualche misura

d’olio e di sale,

siamo invecchiati nei latifondi

mordendo il giogo

delle frequenti tirannie.

Le giurate vendette

soffocate dalla giustizia

dei potenti

stentano a ricomporre

il mondo civile,

compromesso da ragion di stato

sottili, audaci, impossibili

per la sopravvivenza dei deboli.

Indifferenze spregiudicate

non temono ritorsioni

e umiliano provate sofferenze

e sorde ribellioni.

Anni di suicide rinunce

anni di solitarie attese

rifiutano altri rinvii

e chiedono all’umanità dei popoli

la testa e la spada di Bruto.

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Carta d’identità

 

Tu non conosci

le parole difficili

e scrivi il tuo nome

con un segno di croce.

La maledizione dei poveri

continua a regalarti

anni di fiele

ed ereditate miserie;

quante sventure

ti procura

cafone impaurito

che cerchi

ancora testimoni

per garantire la tua identità.

Sei diviso e diverso

conti sempre gli abusi,

sacri come un vangelo,

e difendi incurante

il tuo mondo che muore.

Non trovi pace.

Per continuare la vita

hai alzato gli occhi

dalle ginocchia.

Dalla terra

fuggi verso altre terre

disperso e ignorato dagli uomini

per espiare il peccato

di sopportare

nel nome di Dio, dei re

e delle nuove dinastie

le insaziabili voglie

di eterni comandi.

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Contumaci della storia

 

La nostra terra

s’ammala di rogna

non appartiene al mondo civile.

Derisa

non sa farsi rispettare

e lamenta

senza consensi

le attese riforme.

Chiusa

nel vortice del ricatto

non sa alzare la voce

sopportando in silenzio

assurde decisioni.

Debole

chiede aiuto

non minaccia, non pretende

il rispetto del diritto.

Invoca mediazioni

aspettando favori.

La soffocata coscienza

che alitava il desiderio di vita

non s’agita, non dura

e subisce senza riguardi

un’indegna fine.

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Quel suono

 

Se aspetti

che tutto cambi

all’improvviso

senza cedere nulla

della vita

ingoierai sempre amaro

e sarai fedele servitore.

 

Se vuoi startene

a guardare

con qualche critico pensiero

affogherai nel silenzio

le pene dell’anima

mentre altri

decideranno per te.

 

Se desideri

un mondo migliore

sfidalo senza paura

e lascia la pazienza ai deboli

che non hanno forza

per la lotta.

 

La storia non inganna:

basta solo uno squillo!

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Senz’amore

 

Ormai siamo lontani

divisi su strade diverse

che portano alla giusta fine.

Il sottile gioco delle idee

regala gli ultimi sussulti

di vecchi comandamenti

e tenta nuove trame

rifacendosi il viso prezzolato

nei lupanari di potere.

Le notti vendute

in letti di sangue

hanno sacrificato alla vergogna

giovani libertà.

Ma giustizia non ha protettori

e rifiuta le abili mani

di esperti ruffiani

che carezzano, al soldo,

un falso amore

che non può durare.

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Disoccupato

 

Mani inoperose

invidiano l’odiato callo

e svettano al cielo

nella preghiera invettiva.

La mente confusa

scossa da violenti plagi

e da nuove lusinghe

è facile preda

dei bisogni.

La vita non regala nulla

creando altre occasioni

per illudere

e stanca e bugiarda

raccomanda pazienza.

Non ci sarà pace.

Mani libere

rispetteranno l’umano sonno

di falliti programmatori

ma cercheranno giustizia

violando l’estraneo

usato patrimonio.

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Il prezzo della fuga

 

Non bastano il sole e la terra 

e l’amore di donna

per farci restare.

Partenze costrette,

non più ansie

di «virtute e conoscenze»,

ripetono sofferti distacchi

di famiglie sognanti

il mitico Eldorado.

Nomi e fatti

sbiaditi nel tempo

vivi tra ricordi occasionali

cedono alla nostalgia

palpiti di vissuto.

L’angoscia rinnova la fuga

e spinge il sacrificio sortilegio

in una sorda continuità

ma soffoca il presente

in luoghi lontani

nella continua ricerca

di nuove dimensioni.

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I nuovi untori

 

Come zingari

percorriamo cammini

senza certezza di soste.

In giro

offriamo pegni di sudore

per non chiedere elemosine

e non vendere fortune.

Riusciamo

a leggere nelle mani

la linea della vita

che ha tracce invisibili

e troppe diramazioni.

Ormai si sa

che la nostra carne

è abituata  a soffrire

soffoca rancori

sputa santi

e paga litanie.

Come zingari

siamo tenuti lontani

per evitare

bastardi contagi

di civiltà.

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Pezzi di carta

 

Pezzi di carta

simboli d’affetti

mai goduti

legano le famiglie

alla promessa.

Rinnovano

con accorata preghiera

identiche raccomandazioni

ed assicurano

nell’immutabilità delle cose

l’atteso ritorno.

Tutto è pronto per Natale:

il maiale ingrassato,

il raccolto ultimato

ed il desiderio

d’intima compagnia

sempre più forte.

 

Arrivano come ladri.

Ad ogni colpo

senza tempo di scelta

afferrano le provviste umane

d’impossibili gioie familiari.

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Attimi di pace

Buon anno e buon viaggio!

Così la mia gente

per una fatale tradizione

usa farsi gli auguri.

Le strette di mano

somme di auspici

beneaugurati e malefici

ravvivano le morte speranze

e recuperano nascosti desideri.

L’umana pacifica contentezza

frena gli impulsi

ed i vecchi rancori

regalando alla festa

insperati segni di quiete.

Domani, alle prime luci,

la tregua finirà:

fra mesi la nuova resa.

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La vera colpa

 

Su terre coperte d’erbacce

tra case sepolte

di campi abbandonati

oggi crepe e tane

dimore e volpi

non volano più aquile reali

ma corvi e civette.

La gazzarra

del fastidioso coro

è musica per sordi

intellettuali e gente qualunque

d’applauso.

Rivendicate emancipazioni

promuovono

deviate libertà

di scherzi erotici

e di drogate felicità

di giovani liberi

di finire sul proprio corpo.

Troppe cose

non sono cambiate!

Restano

la rassegnazione dei vecchi

e le stupide indifferenze di tutti

per il raggiunto benessere.

Ognuno per sé

senza lasciare traccia.

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Unità

 

Quando chiedevi voti

promettevi

incontri personali.

Non t’abbiamo mai visto!

Godi allegre fortune

coperto da troppe protezioni

e parli astuto ipocrita

come se non ti fossi mai sporcato.

Anche tu hai un prezzo.

 

Quando cercavamo lavoro

garantivi

interventi sicuri.

Non siamo ancora occupati!

Custodiamo tanti problemi

e sempre allo scoperto

lottiamo decisi

per non vendere la vita.

Insieme saremo uomini liberi.

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Paladini padrini padroni

 

Nei volti tirati o rugosi

di vittime destinate al sacrificio

brilla la rabbia sofferta

della continua attesa.

Parole audaci e snervanti

di nuovi paladini,

padrini sporchi di sangue

padroni mai sazi di soldi,

difendono la vergognosa causa

di gente logora di affanni.

Le voci si sommano contorte

urlano possenti

contro le false deleghe,

confondendo le ansie

di sospirate uguaglianze sociali.

Giustizia è fatta.

La pietà si fa subito serva

e regala sussidi

e carità di stato.

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Fior di mimosa

 

Donna,

non più vestale

di focolari spenti,

provi a stringere

il fior di mimosa.

Il vecchio scialle

eredità dei tempi poveri

portato da nonne e figlie

non ti basta più.

Con le mani leste

occupate tra campi e animali

afferri il vivere con affanno,

ignara del gesto

della nuova vendicata schiavitù.

Donna,

a sera, diventi desiderio.

Il profumo di terra

come filtro d’amore

riempie i sogni e i sensi

di impenetrabili magie.

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Anche da noi

 

Anche da noi

libertà sei una parola

che riempie la bocca

della gente ribelle.

Sei un’idea fissa

che conquista la mente

confusa da tante promesse.

 

Anche da noi

libertà sei sangue

da un petto squarciato

che chiede solo giustizia.

Sei ripetuto coraggio

di vivere speranze

senz’alcuna certezza.

 

Anche da noi

libertà non affranchi i servi

pagati con l’obolo

dell’arrivismo.

Sei una bandiera pulita

che sfugge gli intrighi

e resiste ai colpi di vento.

 

L’ansia di vivere

della mia gente

si chiama libertà

e trascura ogni altra ragione.

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Caporale

 

Al tremolio di luce

partono a frotte

per la solita gita

i volontari del lavoro nero.

L’esercito bracciantile

della serra

disarmato dalla vita

combatte lotte

senza vittorie.

Donne contadine

sparse nella piana

riempiono di voci la campagna

sollecitando il canto del gallo

svegliato contr’ora.

La terra poco avara

premia la fatica

colmando le tasche piene

del solito padrone.

Lo stanco caporale

di vedetta all’ombra

s’ingozza e beve;

il servizio l’affatica

gli assicura la giornata

sulla pelle della gente.

Caporale mercenario

hai venduto il mio sudore

per un misero salario

in un campo di carote.

Ma il prezzo

è troppo basso

non mi basta per campare,

chiedo e lotto per avere

il controllo sindacale.

Il bisogno ci allontana

resto solo senza voce.

E’ finito il mio contratto

non c’è più da lavorare:

caporale imbroglione

anche tu dovrai pagare!

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Feticcio

 

Porto una zampa di talpa

cucita in un pezzo di tela,

dono misterioso di mio nonno

che volle proteggermi

dalla sfortuna

e dall’invidia della gente.

Tagliò con la falce

la zampa di un animale vivo

che bucava la terra;

portò la magica reliquia

in America

a sistemare binari

e a raccogliere pidocchi

in Austria

prigioniero della grande guerra.

L’ha tenuta nascosta

nelle pieghe del cappello

che ancora si toglie

quando incontra i signori.

Una zampa non cambia la sorte;

altre talpe vendicano il fantasma

smuovono i campi

rovinano i raccolti.

Mio nonno non l’ha capito

e mi tocca la tasca

per avere altre fortune.

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Gente diversa

 

La mia generazione

disdegna gli odorosi incensi

degli altari profanati.

Non brucia ceri né recita preghiere

e consuma in monotoni giorni

le allegre energie di giovinezza

carica di funesti pensieri.

Vagabondi costretti

inventori di lamentevoli economie

improvvisano vendite

di profumi e sigarette.

Il sacro rito del bisogno

snoda moderne processioni,

facendo sbattere la porta

all’impaurita umanità

stravolta da mille prodotti.

L’eterna religione del privato

rispetta il credo del suo adagio:

l’uomo sazio non crede al digiuno.

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Tra mafia e camorra

 

La nostra vita

è legge del silenzio.

Forze estranee

impietose

minacciano d’ogni male

i deboli equilibri

della nostra esistenza.

Cadono le braccia

segnate da troppe prove

contente

di non perdere il poco.

La voce flebile

non affianca la rivolta

s’addomestica

o soffoca

nel rantolo d’un colpo.

Ciechi e muti

ridotti all’obbedienza

passiamo su corpi inanimati

sospettosi di farci sentire.

Impunite disonestà

attaccano privilegi e paure

e creano usuali cordogli

di nuove vittime.

Con falsa coscienza

vendiamo e compriamo

compiaciute inquietudini.

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Semi dispersi

 

L’ultima scelta,

sacrificio di libertà

mai godute,

resta sempre la lotta.

La pazienza perde il giudizio

e disperata

vuol vendere la vita

per qualche fiotto di sangue.

Un grido smorza la furia

dell’incerta violenza

e fa ritrovare la pace.

La paura sa chiedere perdono.

L’amore

sorda invocazione

di buona volontà dei poveri

prende tempo

e ruba la vendetta.

Giustizieri decisi

con mano sicura

bruciano sul rogo del potere

l’idea fissa di cambiare.

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La nuova civiltà

 

Non è più tempo

di vivere fatali destini

e di credere al malefico canto

delle civette.

Magici scongiuri

non recano provvide sfortune

all’invidia dei poveri.

 

Non è più tempo

di cercare avidi tesori sepolti

e di aspettare miracoli

per vivere senza problemi.

Le braccia

hanno scavato i poderi

per far produrre la terra.

 

Non è più tempo

di pazienti rimandi

e di suadenti parole

per sanare i continui bisogni.

Le ragioni hanno rotto i silenzi

e forzano le porte della tirannia

che rinnova sacrileghi olocausti.

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