RACCOLTA “UNA MISURA DI SALE” INDICE:
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L’itinerario culturale
di Giuseppe Iuliano si arricchisce di una nuova, importante,
fondamentale tappa con questa silloge di trentuno poesie intitolata Una
misura di sale. La nuova raccolta di liriche – che già dal suo
titolo così significativo e carico di provocazioni anticipa i temi ed i
contenuti di una aspra e dura denuncia – segna il definitivo collaudo
di una giovane e generosa coscienza meridionale aliena dai piagnistei e
dai vittimismi. Essa, altresì, legittima Giuseppe Iuliano come uno tra
i poeti meridionali più sensibile ai drammi della vita quotidiana, alle
paure e alle speranze di un Sud che, sebbene calpestato ed umiliato da
secoli di malgoverno e di gestione clientelare, non si arrende e
combatte per conquistare i sentieri di libertà e di giustizia dai «quali
non si torna indietro». A questo mondo e a questa realtà. Giuseppe
Iuliano rende il forte tributo civile di una coscienza dura e pura, di
un impegno attivo e dinamico nella società, consapevole com’è che il
ruolo dell’intellettuale come del poeta nel Sud lacerato da antichi
drammi e nuove ingiustizie non può mai essere quello di uno spettatore
inerte e passivo. E Giuseppe Iuliano, come già trent’anni prima Rocco
Scotellaro, sente e vive in prima persona la tragedia meridionale e sa
che il suo posto è tra i contadini del Sud per combattere insieme la
fatalità e la rassegnazione e per conquistare insieme l’alba nuova
di un nuovo sviluppo, di una nuova libertà: quella libertà
liberatrice dal bisogno, dalle paure, dalla disoccupazione,
dall’emigrazione che permea di sé tutta la poesia civile del Sud. Se i
ceppi stringono – il corpo ferito – e soffri pene di libertà, - Riprendendo e sviluppando i temi della questione sociale, che è il cuore della questione meridionale – e che già avevano ispirato i versi di Malinconia di terra (1976) e Il Sud non è forse…(1980) – Giuseppe Iuliano con Una misura di sale porta avanti, con la sua poesia civile, la fiera, sdegnata, virile denuncia dei mali del Sud. Una misura di sale: è la ferma severa dignità del rifiuto del passato e l’impegno a cambiare per conquistare il nuovo. Tra Malinconia di terra e Una misura di sale, la poesia di Iuliano vive e soffre la disperata esperienza del terremoto e questa nuova tragedia meridionale polverizza non solo le case di sabbia, ma mette a nudo la povertà, la miseria, l’emarginazione del vecchio mondo contadino. Nella notte del 23 novembre, il cuore di Iuliano si spezza a contatto con una realtà intrisa di miseria e di inganni, di lutti e di promesse; e vive la tragedia della distruzione dei paesi-presepe dell’ Alta Irpinia, degli emigrati che arrivano prima dei soccorsi ufficiali di uno Stato tuttora «assente». Ed arrivano per scavare con le mani i loro morti e per seppellirli mentre sono travolti da un fiume vorticoso di impegni verbali e di nuove promesse. Se il cuore di Peppino accetta la generosa e tempestiva solidarietà umana, la sua ragione, la sua fiera dignità civile, si ribellano di fronte a nuovi, ripetuti, turpi inganni. Si ripete la storia di sempre: dopo ogni sciagura naturale che si abbatte sul Sud, il potere scopre l’esistenza di una questione meridionale e si affanna in nuove promesse che non saranno mantenute. E Peppino Iuliano si fa il diretto portavoce dello sdegno e dell’umiliazione delle aree terremotate e dei fratelli meridionali ingannati e delusi: i versi di Per non morire e Oltre la speranza – due raccolte di poesie che hanno visto la luce nei mesi successivi al terremoto - sono il calvario quotidiano di un giovane meridionale che si ribella, con il cuore e la ragione, ad una nuova stagione di promesse e di inganni. Sono versi taglienti come le pietre del profondo Sud; e lasciano il segno sia sulle maschere incartapecorite dei detentori del potere sia sulla coscienza candida dei giovani che sono restati per dare vita ad un nuovo processo di sviluppo: «Ma i figli sono degni dei padri, / continueranno la lotta con forza / per non morire». Ed è proprio con Per non morire ed Oltre la speranza che la poesia di Iuliano si carica di nuovi valori civili e sociali e consuma una nuova stagione di dolore e di rabbia civile per il Mezzogiorno ferito dalla violenza della natura e saccheggiato dal potere clientelare. La poesia di Iuliano è proposta di lotta e di impegno civile, essa si traduce – come aveva già indicato Rocco Scotellaro ai suoi contadini – in scelte operative per placare l’immenso bisogno di libertà e dignità. Con tutta la serena forza della coscienza che non si piega, Peppino indica ai giovani, come aveva fatto Rocco, l’imperativo morale di «non distrarsi al bivio»: I
giovani lotteranno – per la casa e la vita futura – Le devastanti conseguenze del terremoto propongono in primo piano l’esigenza morale, prima ancora che politica, di definire una organica linea di azione, di impegno civile, di lotta democratica, di più diretta partecipazione delle masse alla vita comunitaria. E come sempre nel Sud l’interrogativo che si pone la povera gente, il cafone schiacciato da secoli bui di rassegnazione e di paura, è lo stesso che si pone l’intellettuale, il poeta quando vive immerso nel suo tempo ed a contatto diretto con la realtà che lo circonda. Sulle macerie della sua casa e su quelle dell’ Altirpinia, Giuseppe Iuliano si pone l’interrogativo che aveva lacerato la coscienza di Rocco Scotellaro: «Noi che facciamo?», ed allora non si ritrae, non si chiude in se stesso, non si guarda allo specchio. Egli sa che quell’interrogativo non riguarda solo gli altri, riguarda innanzitutto se stesso: con altri giovani si butta anima e corpo nell’azione civile e sociale, promovendo nuove iniziative associative culturali e giornalistiche, squarcia la membrana dei lirismi arcadici e degli estetismi decadenti e con la sua poesia – una voce forte e fiera, vibrante d’indignazione civile e carica di speranze – canta il definitivo tramonto delle vecchie concezioni e degli inadeguati comportamenti dei nostri contadini. All’estetismo decadente della solitudine del contadino in mezzo ad altri uomini – i contadini soli e chini sulla terra avara; i contadini soli e deboli di fronte alle prepotenze del potere e dei suoi manutengoli; i contadini soli ed indifesi di fronte alle avversità della natura: frane e terremoti; alluvioni e siccità; - Giuseppe Iuliano oppone un fermo e severo richiamo alla solidarietà, all’unione degli sforzi, alla comune battaglia contro le satrapie locali. «Risorgeranno insieme / raccogliendo nel tempo / le ceneri disperse, / senza dover più niente / ai satrapi mediatori»: e senza nulla concedere ai notabili locali, ai mediatori del potere, Peppino con Michele Lombardi, Luigi Prudente ed altri giovani avvia la costituzione e realizza, per la prima volta a Nusco e nell’ Altirpinia, una cooperativa culturale «Solidarietà», che rappresenta la più compiuta e piena presa di coscienza dei limiti e delle debolezze della società contadina, polverizzata in minuscoli frammenti e, di fatto, impotente ad affrontare le impegnative scelte ed azioni per un nuovo tipo di sviluppo economico. Ciò conferma che l’impegno civile di Iuliano non si esaurisce con la sua poesia civile: la sua coscienza di uomo libero che sente su se stesso l’ingiustizia che grava sui fratelli meridionali («Restiamo sulla nuda terra, / bagnata di sangue / e di cocenti lacrime, / contro altri saccheggi») lo spinge all’azione per promuovere e realizzare nuove iniziative di ampio respiro sociale. Ed in questa direzione Iuliano realizza nei fatti e nel comportamento civile di ogni giorno quel rapporto tra cultura e politica (eticamente intesa) e «piega» la sua solitaria coscienza individuale ad un impegno sociale, al dramma collettivo della sua comunità locale, dell’ Altirpinia e del Mezzogiorno. Da questo complesso
groviglio di valori culturali e di sensibilità sociale, di solidarietà
e di intensa partecipazione, si snoda la poesia di Giuseppe Iuliano: una
poesia che nell’arco di sette anni (da Malinconia di terra a Una
misura di sale) non conosce battute d’arresto nella sua dura e
vigorosa denuncia sociale e nello slancio generoso e ragionato di
indicare, sul terreno proprio della battaglia civile e del confronto
delle idee, le linee di un riscatto e di uno sviluppo globale che l’
Altirpinia, come del resto tutte le altre aree dell’«osso»
meridionale, attendono da secoli. Queste ragioni sono
al fondo della poesia di Iuliano, un poeta civile che ha rotto il limbo
dell’utopia, che non conosce l’isolamento fantastico, e che si
colloca al centro della battaglia democratica e nel cuore di quel filone
della cultura meridionale – laica, civile, autonoma ed anticonformista
– che mai si è attardata in posizioni di retroguardia e di
autocompiacimenti. A questa realtà
meridionale la lirica civile e sociale del Sud non ha reso un omaggio
rituale con le sue esercitazioni poetiche e «l’esaltazione
sensibilistica ed estetizzante» (Asor Rosa) ma ha operato da sempre, da
Scotellaro a Iuliano, per avviare l’ingresso definitivo del «contadino-personaggio»
nel mondo della vita e del lavoro «con il suo intervento attivo, col
suo linguaggio, pensando e parlando cioè direttamente, in prima
persona, senza mediazioni politico-letterarie» (Vittorio Fiore). Perciò,
la poesia civile e sociale della protesta meridionale è impegno di
lotta, è azione di rinnovamento, è libertà e verità, è al tempo
stesso denuncia e proposta. Questa poesia ha abbandonato, come scrisse
Quasimodo, le «modulazioni
astratte del sentimento» per scegliere definitivamente – come ha
fatto Peppino – il campo della protesta morale, i sentieri della
battaglia delle idee, la strategia dell’azione riformatrice. Le
contemplazioni intimistiche e l’autocompiacimento narcisista sono
fuori dell’ottica di Iuliano. Le immagini evocate dalla sua poesia
civile sono forti e vigorose, taglienti come le staffilate, i suoi versi
sono stimoli all’azione civile perché «battono sul cuore dell’uomo»
(Quasimodo). Essi non esprimono rimpianti per le «muse dei boschi» e il «silenzio delle valli» ofantine ma
esprimono l’indignazione propria di ogni coscienza libera di fronte
alle antiche e nuove ingiustizie. Questa poesia di libertà e di verità,
di denuncia e di indignazione civile è la poesia di Peppino Iuliano, un
poeta che non resta «neutrale» di fronte al dramma dei suoi fratelli,
ma vive con essi la disperata esistenza meridionale, senza arrendersi
alla ineluttabilità e senza piangere inutili e sterili lacrime. Nella poesia di Iuliano è forte, aspro, tenace il respiro ideale e culturale della poesia civile del Sud, in particolare quella della prima generazione dei poeti meridionali (da Rocco Scotellaro a Vittorio Fiore, da Luigi Compagnone a Vito Riviello, da Alfonso Gatto a Domenico Rea) che cantarono l’ultima epopea del mondo contadino ossessionato dalla lotta sociale per la conquista della terra, ed i cui protagonisti erano quei braccianti poveri e diseredati che Scotellaro aveva amato come la «turba di pezzenti» e la «truppa di riserva». Contadini che non avevano trent’anni fa lacrime per piangere e fiato per imprecare, eppure trovavano la forza con i versi di Scotellaro di chiedere ed esigere migliori e più civili condizioni di vita: Gridano al Comune di volere –
il tozzo di pane e una giornata – Come la poesia di Rocco Scotellaro, anche i versi di Una misura di sale non si consumano ed esauriscono nella pura e semplice denuncia sociale, ma tendono a sviluppare un processo continuo di crescita e sviluppo della coscienza individuale e collettiva, nella incessante sfida quotidiana per un mondo più umano e più giusto. Questa sfida è raccolta da Iuliano e in essa coinvolge i giovani: Se
desideri - un mondo
migliore - sfidalo senza paura – E alla lotta civile per un Sud migliore ci si prepara, come avvertiva Vittorio Fiore in Ero nato sui mari del tonno, con una massiccia ed attiva partecipazione collettiva delle masse popolari («Torneremo alle grandi speranze, / tra i caldi greti dei fiumi / in mezzo alla nostra terra»). Una terra che nessuno ti regala, né i vecchi né i nuovi baroni del potere clientelare. Il diritto al lavoro e ad un avita più serena bisogna conquistarlo. E per Iuliano La storia non inganna: - basta solo uno squillo! per scatenare nei cuori dei meridionali la scintilla di una passione lacerante, di una speranza che non potrà tardare a venire: uno sviluppo più civile che renderà finalmente uguali i fratelli italiani del Nord e del Sud. La seconda generazione dei poeti meridionali, cresciuta negli anni roventi della polemica sull’industrializzazione del Sud ed attenta e sensibile ai temi della promozione sociale dell’ex contadino ad operaio, svilupperà una lirica civile che non si accontenta più di operare il recupero dei vecchi valori e delle «radici» della società contadina, sibbene si impegnerà a definire il ruolo del lavoratore agricolo che ha abbandonato i campi per inserirsi nella società industriale. Ai poeti di questa seconda generazione meridionalista (A.M. Moriconi e Mario Dilio; Ennio Bonea e Gianni Custodero; Cosma Siani e Giuseppe Rosato; Mario Trufelli e Tommaso Di Ciaula) non sfugge l’insidia delle «retoriche antitetiche» (come le ha definite Carlo Alberto Augieri) e che determinarono una larga dose di mistificazione sul movimento contadino meridionale. Perciò con essi la poesia del Sud tende a penetrare e a conquistare la complessa ed alienante esperienza della civiltà industriale, non senza aver sottolineato lo sconvolgente dramma dell’emigrazione, che è conseguenza del mito del posto in fabbrica ma anche la disperata liberazione da un mondo povero e chiuso. Toccherà, tra gli altri, a Tommaso Di Ciaula (ex bracciante pugliese: di quelli che a Vittorio Fiore «riportano dalle piazze le voci che all’incerte luci dell’alba / all’asta comprano i braccianti») cantare la nuova sofferenza, il nuovo duro calvario dei lavoratori meridionali sradicati dalle campagne e inseriti nelle catene di montaggio. La condizione è dura: non c’è lavoro nel Sud che non costi sangue e sudore (e qualche misura di sale per misero compenso). Tommaso Di Ciaula, l’ex bracciante, è ora l’uomo della saldatrice: Io
sono il diavolo della saldatrice: - dietro questa maschera – ed esprime la sua infelicità, perché la catena di montaggio come il duro lavoro dei campi alimenta odi e rancori tra i pochi fortunati e i molti esclusi. Sono sempre in troppi, in milioni, i lavoratori meridionali alla ricerca del posto di lavoro e di una dignitosa occupazione. Un tema che ricorre insistente nella poesia di Iuliano è la diaspora meridionale, la fuga dalla terra del Sud, la rottura dei legami familiari; temi di fondo della poesia della seconda generazione che si chiamano con Mario Dilio («Il secondo salario» e «La mia fabbrica»), con Giuseppe Rosato («Noi restiamo a cantare»), con Gianni Custodero («Gli anni dei miracoli») ed «Il vizio antico», con Mario Trufelli («Siamo più soli»: l’ode è in onore di Rocco Scotellaro). E Iuliano non sa sottrarsi al fascino disperato dell’abbandono dei vecchi sentieri che coinvolge un fiume di meridionali con l’emigrazione perché attratti dalle industrie del Nord, e Dalla terra – fuggi verso
altre terre – in quanto la dura condizione del meridionale consiste in una nuova espiazione, che si aggiunge alle altre che ha dovuto sopportare con la malaria, le frane, i terremoti, l’agricoltura povera, ed è quella di
sopportare – nel nome di Dio, dei re – La lezione di Scotellaro
e Fiore viene fatta propria dai poeti della terza generazione
meridionalista: essi si cimentano in prima persona nelle battaglie di
libertà e di progresso, perché insieme ai fratelli meridionali – ora
non più «turba di
pezzenti» ma sempre emarginati dal processo di sviluppo – sono
impegnati a strappare «ai padroni, le maschere coi denti». Anche
da noi – libertà sei una parola – è sempre l’urlo vibrante e strozzato della denuncia sociale che domina su tutto. E così, grida Iuliano: Le
nostre maledizioni, - vendette dei deboli, - Alle arroganze vecchie e nuove dei baroni feudali e dei mazzieri fascisti, come al rozzo e volgare clientelismo dei nuovi signori del sistema di potere dominante, Giuseppe Iuliano contrappone con Una misura di sale l’esigenza di una radicale trasformazione delle strutture della democrazia «formale» con nuovi livelli di partecipazione e di emancipazione delle masse, di «liberazione» del cittadino dalle antiche paure e dalle nuove soggezioni. Alla magia e al simbolismo della cosiddetta «civiltà contadina», Iuliano contrappone gli aneliti di giustizia, le speranze di progresso, le lotte di libertà, i nuovi meriti e gli antichi bisogni di un mondo travolto ed umiliato dalla gestione clientelare e spartitoria della vita pubblica, dalla vergognosa e disumana pratica del «miracolismo» legato a promesse vuote ed effimere sicchè Pezzi
di carta – simboli d’affetti – mai goduti – Il poeta intende, vive e soffre il travaglio del mondo contadino subalterno ed emarginato, ma con la sua poesia spezza «i ceppi che stringono il corpo ferito», rivolgendosi ai tanti figli del Sud che, disperati e dispersi lungo gli aspri ed avari dorsali appenninici, continuano a restare soli e chini su una terra che «non appartiene al mondo civile» e derisa
– non sa farsi rispettare – e lamenta – Ai «contumaci della storia» Iuliano ricorda che bisogna rompere le perfide incrostazioni del potere clientelare, perché la terra del Sud «chiusa / nel vortice del ricatto / non sa alzare la voce / sopportando in silenzio / assurde decisioni». Ciò significa che non possiamo lasciare deleghe in bianco ai «satrapi mediatori», ai detentori del potere politico, i quali hanno le stesse maschere dei vecchi padroni. Ed è per questo che il «sottile gioco delle idee» - che è poi il vecchio e logoro modo di far politica nel Sud: un sistema intriso di arroganza e sopruso, di blandizie e di ricatti, di illusioni e di cocenti delusioni -; e, questo perverso meccanismo del potere che ingloba i notabili di tutte le risme ed i voltagabbana di ogni stagione politica, regala
gli ultimi sussulti – di vecchi comandamenti – I prezzolati di ieri e di oggi continuano a mantenere i fili di un sistema di potere che nel Sud schiaccia i più deboli perché ha mostrato sempre il suo volto ripugnante: quello di essere forte con i deboli e debole con i forti. Ma la giustizia, come avverte Iuliano, non ha protettori perché ha sempre rifiutato i maneggi e le operazioni clientelari e truffaldine «di esperti ruffiani / che carezzano, al soldo, / un falso amore / che non può durare». Il trasformismo della classe dirigente meridionale, la sua snervata e subalterna soggezione agli interessi delle classi dominanti e dell’egemonia dei gruppi economici del Nord ha alimentato la sfiducia del popolo nelle istituzioni rappresentative della democrazia parlamentare, prima e dopo del fascismo. Il fenomeno degli «ascari» è tutto questo, ma è anche il voltafaccia ed il tradimento di una classe dirigente meridionale che si è legata al carro dei potenti di turno, venendo meno alla sua funzione etico-politica di rappresentare le «ragioni» storiche della condizione meridionale. Peppino Iuliano si fa carico di queste «ragioni» e con Una misura di sale ripropone, in chiave poetica, il discorso severo e rigoroso dei meridionalisti della ragione, raccontando storie umane a chi odia gli inganni e vuole «spazi di democrazia». Una misura di sale – il tipico condimento dei poveri – era nel mondo chiuso dei «baroni» e dei «contadini» il prezzo di una giornata di lavoro dei braccianti meridionali. A chi ricorda con enfasi e sterile malinconia la cosiddetta «civiltà contadina», bisogna opporre la considerazione che essa è stata, semmai, una stagione di miseria e di povertà, di sopraffazioni e di emarginazione. E, pertanto, Iuliano ha il merito con queste poesie, di aver bruciato le vele alla antica retorica dei «ruralisti», alla sociologia cattolica non meno che al populismo demagogico, e di aver approfondito una realtà sociale e civile di arretratezza largamente diffusa nelle campagne meridionali, dalle quali prorompono ancora oggi, come dalle piazze pugliesi, le voci dell’amara palude, di quella «malinconica terra che mi uccide» e dove «anche l’Addolorata / ha spade d’argento nel petto» (V. Fiore). Certo, i braccianti pugliesi e cilentani, irpini e calabresi – precettati ancora sulle piazze avvolte dal buio della notte da «caporali» senz’anima – non vengono più pagati con una misura di sale, l’antico condimento del cibo dei poveri. Ed anche se Peppino non ci dice in cosa consista la misura di sale dei nostri vecchi braccianti – una misura che poteva raccogliersi nel pugno di una mano o in un bicchiere di latta – è certo che quella misura poteva contenere tanto poco sale e tanto poco olio da non poter sfamare una famiglia. Ma quel pugno di sale e quel bicchiere d’olio – mentre gli «ascari» meridionali si intruppavano nelle maggioranze parlamentari per sostenere gli interessi dell’industria del nord e degli agrari del sud – doveva servire, insieme a tanta acqua, a dare un pallido sapore al pane o alla insufficiente minestra. Ma è anche vero che il condimento dei poveri, questa insufficiente misura di sale ha segnato per secoli il comune destino di braccianti e contadini, rendendo fratelli – ed uguali (come scrive Iuliano) – i più deboli e sfortunati. E mentre i contadini di Rocco e di Peppino nelle assolate terre del Sud intingevano il pane bagnato d’acqua nel sale e nell’olio, i luigini meridionali usurpavano le terre demaniali, sopprimevano gli usi civici, calpestavano dignità e libertà. Il contrasto tra contadini e luigini è il punto centrale dello scontro in atto nel mezzogiorno da secoli; e tale contrasto non è stato superato, né con l’Unità, né con la democrazia postfascista. Esso diventa il punto centrale della tematica di Carlo Levi, di Rocco Scotellaro, dei meridionalisti più severi ed attenti al processo di crescita civile del Sud. Ne ha dato una spiegazione Carlo Levi nell’Orologio: «Sono contadini tutti quelli che fanno le cose, che le amano, che se ne contentano. I Luigini sono gli altri. La grande maggioranza della sterminata, informe, ameboide piccola borghesia, con tutte le sue specie, sottospecie e varianti, con tutte le sue miserie, i suoi moralismi ed immoralismi, e ambizioni sbagliate, e idolatriche paure». Ora, come sottolinea acutamente Leonardo Sacco, i problemi del Mezzogiorno possono essere visti in modi diversi e da vari punti di vista: ma il più giusto è di vederli ed affrontarli «dall’angolazione della parte più povera, più bisognosa, dalla parte dell’osso del Mezzogiorno». A questo richiamo non si sottrae Iuliano, anch’egli come Scotellaro e Sacco, figlio dell’osso meridionale: Apparteniamo
all’osso – alla terra più aspra – che pasticcia – E come possono i meridionali fidarsi di uno Stato assente, gestito su delega e lottizzato tra padrini e padroni, baroni e luigini? La poesia sferzante di Iuliano non concede tregua agli «occupatori» del potere locale e centrale, a tutti coloro che con retoriche blandizie come con arrogante sicumera ed impunità somministrano le Parole
audaci e snervanti – di nuovi paladini, - impegnati a difendere la «vergognosa causa / di gente logora di affanni», perché giustizia sia fatta. E, La
pietà si fa subito serva – e regala sussidi – Ed allora, quando la misura di sale non serve più a sfamare la «turba di pezzenti» e quando il mondo contadino, da Scotellaro a Iuliano, avverte l’esigenza di cambiare e di intraprendere i nuovi sentieri della libertà compiuta – la libertà non solo «di» (quella classica e «formale») ma soprattutto la libertà «da» (quella dai bisogni) – il grido che prorompe dal cuore del poeta è un inno possente, un urlo lacerante verso la conquista della nuova libertà: Anche da noi – libertà sei
sangue – E’ questa di Iuliano
una poesia che si iscrive nella grande cultura meridionale e trova posto
– un posto di primo piano – nel filone di quel meridionalismo
della ragione che oggi è la risposta più matura e compiuta contro
le miserie e gli intrallazzi del potere clientelare ed è anche la
misura di sale necessaria per ravvivare il dibattito delle idee sui
grandi temi del nuovo destino del Sud. L’ultima
scelta – resta sempre la lotta, purchè non sopraggiunga – come sempre – una «sorda invocazione» che ruba ai poveri la vendetta. Allora – come sempre – scenderanno sul Mezzogiorno Giustizieri decisi i quali, protetti e aiutati dai satrapi mediatori, con mano sicura – bruciano sul rogo del potere – l’idea fissa di cambiare. La poesia di Peppino ci avverte a «non mollare», pena la vanificazione di lunghe lotte e di decisi impegni. Ma i «semi dispersi» saranno raccolti da altri cuori generosi per costruire quella «nuova civiltà» meridionale nella quale Non è più tempo - di pazienti
rimandi – Ed allora non sarà stato vano il seme disperso da Peppino: un seme che germoglierà perché abbiamo la piena coscienza che la misura di sale oggi sufficiente per placare i nuovi e continui bisogni è una misura di libertà. E la libertà è per la democrazia come il sale per i poveri. Noi reclamiamo più libertà perché il sale della democrazia ci schiuda le porte di un avvenire più umano. E di questa ferma consapevolezza siamo grati a Peppino, questo giovane incorrotto ed incorruttibile che non ha conosciuto il sale dei poveri ma crede fortemente e si batte duramente per assicurare agli altri il sale della democrazia. |
Franco Compasso |
Prologo
Tu che cerchi parole soavi di pensieri sublimi, che fanno vibrare le corde dell’anima, rimarrai deluso. Ti prego, non continuare! Distenditi all’ombra guarda le stelle e sogna il tuo mondo; ingannalo di miti coloralo di illusioni. Non ho messaggi per te. Se la luna e l’amore sono i veri problemi volta le spalle e non chiedermi nulla. Siamo lontani ed estranei. Se i ceppi stringono il corpo ferito e soffri pene di libertà, ascolta la voce. Siamo uguali. Tu che odi gli inganni e vuoi spazi di democrazia per scegliere, cerca la solidarietà. Se credi nell’uomo senza interessi sfoglia pure queste pagine. Ti racconterò storie umane. Terra
del Sud
Questa terra, amara Betlemme, madre stanca di falsi salvatori cerca, da anni, la giusta pace. I campi, terre ballerine, riscatto di malarici briganti saldo di crociere di emigranti da sempre miraggio dei poveri, pagano tributi umani alla perfida storia delle uguaglianze. Un misto di sangue e di rabbia soffoca le ultime energie e acceca di ripetuti bagliori disperati contadini piegati da inutili terre occupate e da trame sottili degli uomini, che violentano il Sud con nuovi sette dolori. Senza
differenze
Apparteniamo all’osso alla terra più aspra che pasticcia ancora la lingua e non si fida dello Stato. Tanti sassi paesi e città il nostro mondo, l’orizzonte da non varcare, diventano confine, croce per chi resta e chi va senza differenze. Nella forzata scelta gelosi custodiamo le radici seminate in anni e terre diverse, ma attaccate nel profondo a pietre sconnesse e sconsacrate che rivendicano pur esse un’incredibile anima. Il
mito della terra
Non cercare pretesti per spiegare il tempo perduto. Non usare troppe parole per farti ascoltare. Non servono capacità! La forza del ricatto piega ogni discussione e ti mantiene in vita. Il sacro nome portato in giro nella processione delle idee miracola e santifica. Quante grazie dà la nuova potestà ed illumina i devoti fedeli della nuova religione. Strani riti di prodotti della terra, ex-voto dei poveri candele della nuova speranza onorano i santi. Quanti impositori ieri miseri e forti dei gomiti cingono oggi le aureole e danno benedizioni? Anni santi di elezioni rinnovano preghiere e indulgenze. Si aprono sulla terra porte di paradiso senza meriti umani. Gente contenta fa parte della muta e cerca di mordere nella battuta di caccia la preda uomo. Altra stanca e delusa prepara la redenzione, osannando liturgie di lotte fatte di martìri cruenti e di disperate liberazioni. Nel
buio di sempre
C’è sempre il Sud, vecchio di dolore e di maledizione, fuori del tempo e del benessere. Il pianto delle madri segue un abito bianco che invola nella cascata di riso speranze di vita. Offre ragioni al cuore per capire i figli lontani che masticano pane e lingue per assicurasi il futuro. Canta storie antiche di solidarietà alle gelide carezze della morte. Gente sperduta tra monti e contrade non trova diverse un’alba dalla sera. Desiderio
Le nostre maledizioni, vendette dei deboli, non rovinano i castelli dei nuovi signori. I forconi e le falci nicchiano sotto le pietre, nascondendo sbiaditi ricordi di vecchie epopee contadine. Segreti giuramenti spezzano vogliose ritorsioni e rintanano desiderate rivalse. Nei sacrifici umani solo la speranza non crolla e rivendica timida e fioca nell’inviolabile sogno il sapore vero di stregate libertà. Emigrante
o carabiniere
Sognavamo ciminiere che sposavano di nero l’azzurro dei cieli e coloravano di rosa l’incerto futuro. Il nostro mondo apparve diverso per essere uguale. Chiedevamo lavoro per garantire alla terra ricchezza e braccia e per dare ai figli famiglia ed amore senza tempo. Ad occhi aperti siamo diventati emigranti, cresciuti in nuove colonie, logorati dalla speranza di tornare. Abbiamo stretto i denti per non essere vinti e per non maledire l’estranea patria. Siamo diventati carabinieri per difendere uno stato che mai fu nostro e per fare giustizia senza alcun beneficio. Per vivere ogni anno ritorniamo sotto cieli puliti per guardare le stelle e parlare, mai stanchi, di vecchie storie e di amare realtà. Una
donna sola
L’amore sfiorò il ventre e le labbra regalando rapidi abbracci. Le carezze coprirono veloci gli spazi desiderati e colmarono i sensi di meraviglia, lasciando sulla pelle brividi di sentimento. La gioia di lunga vita svanì e divenne attesa. Con la nuova stagione spiegasti il corredo di pizzi nostrani, carichi di sogni di generazioni di donne, per dare al tuo uomo lontano in San Gallo l’illusione di averti con sé. Soli invece nell’assurdo destino. La grazia femminile giovane vigore soffocato dalle umane desiderate insidie, conserva la giurata fedeltà. Donna di mille fatiche ignorato modello d’invidiabili virtù racconti ai giorni la tua storia di madre. Un figlio ed altri ancora ti fanno compagnia, senza saper dire, basta! Per il sospirato ritorno spendi l’ultimo sorriso e stanca e rugosa guardi i passeri cresciuti spiccare dall’impossibile nido nuovi voli. Un
confine dentro di noi
Come ricci ad ogni sventura ci chiudiamo nella nostra pelle. Tutto resta dentro di noi. Inseguiti, calpestati gemiamo di dolore senza offrire la resa. La saggezza dei padri non serve per cambiare; l’ingenuità è considerata ignoranza e non convince l’abile croupier mistificatore d’imbrogli. La vita marginale non conosce i numeri delle leggi; campa ancora alla giornata e mescola ricordi di feste con altre d’importazione. I pensieri diversi al primo albeggiare diventano ombre per cacciare nell’oblio occasioni di peccato e di fatali punizioni. Terra
d’esproprio
Sud riempi la bocca di ciarlatani di mestiere che hanno gola profonda e mano rapace. Quanta gente illusa partigiana presta fede e simpatie e odia e rompe la difficile unità dei poveri. Sud c’inganni ogni giorno. Stanco di litanie non osi ribellarti e sopporti con incredibile pazienza insidie e miserabili raggiri di nuovi capitani di ventura. Terra d’esproprio sorgi e difenditi e sbatti alla malora i sempiterni feudi. Sud non più servo e fedele accendi le stoppie del cuore e conquista la mente sconvolta con nuove ragioni per non cedere alle storiche violenze. Una
misura di sale
Noi gli eterni assistiti, comprati al mercato delle braccia per qualche misura d’olio e di sale, siamo invecchiati nei latifondi mordendo il giogo delle frequenti tirannie. Le giurate vendette soffocate dalla giustizia dei potenti stentano a ricomporre il mondo civile, compromesso da ragion di stato sottili, audaci, impossibili per la sopravvivenza dei deboli. Indifferenze spregiudicate non temono ritorsioni e umiliano provate sofferenze e sorde ribellioni. Anni di suicide rinunce anni di solitarie attese rifiutano altri rinvii e chiedono all’umanità dei popoli la testa e la spada di Bruto. Carta
d’identità
Tu non conosci le parole difficili e scrivi il tuo nome con un segno di croce. La maledizione dei poveri continua a regalarti anni di fiele ed ereditate miserie; quante sventure ti procura cafone impaurito che cerchi ancora testimoni per garantire la tua identità. Sei diviso e diverso conti sempre gli abusi, sacri come un vangelo, e difendi incurante il tuo mondo che muore. Non trovi pace. Per continuare la vita hai alzato gli occhi dalle ginocchia. Dalla terra fuggi verso altre terre disperso e ignorato dagli uomini per espiare il peccato di sopportare nel nome di Dio, dei re e delle nuove dinastie le insaziabili voglie di eterni comandi. Contumaci
della storia
La nostra terra s’ammala di rogna non appartiene al mondo civile. Derisa non sa farsi rispettare e lamenta senza consensi le attese riforme. Chiusa nel vortice del ricatto non sa alzare la voce sopportando in silenzio assurde decisioni. Debole chiede aiuto non minaccia, non pretende il rispetto del diritto. Invoca mediazioni aspettando favori. La soffocata coscienza che alitava il desiderio di vita non s’agita, non dura e subisce senza riguardi un’indegna fine. Quel
suono
Se aspetti che tutto cambi all’improvviso senza cedere nulla della vita ingoierai sempre amaro e sarai fedele servitore. Se vuoi startene a guardare con qualche critico pensiero affogherai nel silenzio le pene dell’anima mentre altri decideranno per te. Se desideri un mondo migliore sfidalo senza paura e lascia la pazienza ai deboli che non hanno forza per la lotta. La storia non inganna: basta solo uno squillo! Senz’amore
Ormai siamo lontani divisi su strade diverse che portano alla giusta fine. Il sottile gioco delle idee regala gli ultimi sussulti di vecchi comandamenti e tenta nuove trame rifacendosi il viso prezzolato nei lupanari di potere. Le notti vendute in letti di sangue hanno sacrificato alla vergogna giovani libertà. Ma giustizia non ha protettori e rifiuta le abili mani di esperti ruffiani che carezzano, al soldo, un falso amore che non può durare. Disoccupato
Mani inoperose invidiano l’odiato callo e svettano al cielo nella preghiera invettiva. La mente confusa scossa da violenti plagi e da nuove lusinghe è facile preda dei bisogni. La vita non regala nulla creando altre occasioni per illudere e stanca e bugiarda raccomanda pazienza. Non ci sarà pace. Mani libere rispetteranno l’umano sonno di falliti programmatori ma cercheranno giustizia violando l’estraneo usato patrimonio. Il
prezzo della fuga
Non bastano il sole e la terra e l’amore di donna per farci restare. Partenze costrette, non più ansie di «virtute e conoscenze», ripetono sofferti distacchi di famiglie sognanti il mitico Eldorado. Nomi e fatti sbiaditi nel tempo vivi tra ricordi occasionali cedono alla nostalgia palpiti di vissuto. L’angoscia rinnova la fuga e spinge il sacrificio sortilegio in una sorda continuità ma soffoca il presente in luoghi lontani nella continua ricerca di nuove dimensioni. I
nuovi untori
Come zingari percorriamo cammini senza certezza di soste. In giro offriamo pegni di sudore per non chiedere elemosine e non vendere fortune. Riusciamo a leggere nelle mani la linea della vita che ha tracce invisibili e troppe diramazioni. Ormai si sa che la nostra carne è abituata a soffrire soffoca rancori sputa santi e paga litanie. Come zingari siamo tenuti lontani per evitare bastardi contagi di civiltà. Pezzi
di carta
Pezzi di carta simboli d’affetti mai goduti legano le famiglie alla promessa. Rinnovano con accorata preghiera identiche raccomandazioni ed assicurano nell’immutabilità delle cose l’atteso ritorno. Tutto è pronto per Natale: il maiale ingrassato, il raccolto ultimato ed il desiderio d’intima compagnia sempre più forte. Arrivano come ladri. Ad ogni colpo senza tempo di scelta afferrano le provviste umane d’impossibili gioie familiari. Attimi
di pace
Buon anno e buon viaggio! Così la mia gente per una fatale tradizione usa farsi gli auguri. Le strette di mano somme di auspici beneaugurati e malefici ravvivano le morte speranze e recuperano nascosti desideri. L’umana pacifica contentezza frena gli impulsi ed i vecchi rancori regalando alla festa insperati segni di quiete. Domani, alle prime luci, la tregua finirà: fra mesi la nuova resa. La
vera colpa
Su terre coperte d’erbacce tra case sepolte di campi abbandonati oggi crepe e tane dimore e volpi non volano più aquile reali ma corvi e civette. La gazzarra del fastidioso coro è musica per sordi intellettuali e gente qualunque d’applauso. Rivendicate emancipazioni promuovono deviate libertà di scherzi erotici e di drogate felicità di giovani liberi di finire sul proprio corpo. Troppe cose non sono cambiate! Restano la rassegnazione dei vecchi e le stupide indifferenze di tutti per il raggiunto benessere. Ognuno per sé senza lasciare traccia. Unità
Quando chiedevi voti promettevi incontri personali. Non t’abbiamo mai visto! Godi allegre fortune coperto da troppe protezioni e parli astuto ipocrita come se non ti fossi mai sporcato. Anche tu hai un prezzo. Quando cercavamo lavoro garantivi interventi sicuri. Non siamo ancora occupati! Custodiamo tanti problemi e sempre allo scoperto lottiamo decisi per non vendere la vita. Insieme saremo uomini liberi. Paladini
padrini padroni
Nei volti tirati o rugosi di vittime destinate al sacrificio brilla la rabbia sofferta della continua attesa. Parole audaci e snervanti di nuovi paladini, padrini sporchi di sangue padroni mai sazi di soldi, difendono la vergognosa causa di gente logora di affanni. Le voci si sommano contorte urlano possenti contro le false deleghe, confondendo le ansie di sospirate uguaglianze sociali. Giustizia è fatta. La pietà si fa subito serva e regala sussidi e carità di stato. Fior
di mimosa
Donna, non più vestale di focolari spenti, provi a stringere il fior di mimosa. Il vecchio scialle eredità dei tempi poveri portato da nonne e figlie non ti basta più. Con le mani leste occupate tra campi e animali afferri il vivere con affanno, ignara del gesto della nuova vendicata schiavitù. Donna, a sera, diventi desiderio. Il profumo di terra come filtro d’amore riempie i sogni e i sensi di impenetrabili magie. Anche
da noi
Anche da noi libertà sei una parola che riempie la bocca della gente ribelle. Sei un’idea fissa che conquista la mente confusa da tante promesse. Anche da noi libertà sei sangue da un petto squarciato che chiede solo giustizia. Sei ripetuto coraggio di vivere speranze senz’alcuna certezza. Anche da noi libertà non affranchi i servi pagati con l’obolo dell’arrivismo. Sei una bandiera pulita che sfugge gli intrighi e resiste ai colpi di vento. L’ansia di vivere della mia gente si chiama libertà e trascura ogni altra ragione. Caporale
Al tremolio di luce partono a frotte per la solita gita i volontari del lavoro nero. L’esercito bracciantile della serra disarmato dalla vita combatte lotte senza vittorie. Donne contadine sparse nella piana riempiono di voci la campagna sollecitando il canto del gallo svegliato contr’ora. La terra poco avara premia la fatica colmando le tasche piene del solito padrone. Lo stanco caporale di vedetta all’ombra s’ingozza e beve; il servizio l’affatica gli assicura la giornata sulla pelle della gente. Caporale mercenario hai venduto il mio sudore per un misero salario in un campo di carote. Ma il prezzo è troppo basso non mi basta per campare, chiedo e lotto per avere il controllo sindacale. Il bisogno ci allontana resto solo senza voce. E’ finito il mio contratto non c’è più da lavorare: caporale imbroglione anche tu dovrai pagare! Feticcio
Porto una zampa di talpa cucita in un pezzo di tela, dono misterioso di mio nonno che volle proteggermi dalla sfortuna e dall’invidia della gente. Tagliò con la falce la zampa di un animale vivo che bucava la terra; portò la magica reliquia in America a sistemare binari e a raccogliere pidocchi in Austria prigioniero della grande guerra. L’ha tenuta nascosta nelle pieghe del cappello che ancora si toglie quando incontra i signori. Una zampa non cambia la sorte; altre talpe vendicano il fantasma smuovono i campi rovinano i raccolti. Mio nonno non l’ha capito e mi tocca la tasca per avere altre fortune. Gente
diversa
La mia generazione disdegna gli odorosi incensi degli altari profanati. Non brucia ceri né recita preghiere e consuma in monotoni giorni le allegre energie di giovinezza carica di funesti pensieri. Vagabondi costretti inventori di lamentevoli economie improvvisano vendite di profumi e sigarette. Il sacro rito del bisogno snoda moderne processioni, facendo sbattere la porta all’impaurita umanità stravolta da mille prodotti. L’eterna religione del privato rispetta il credo del suo adagio: l’uomo sazio non crede al digiuno. Tra
mafia e camorra
La nostra vita è legge del silenzio. Forze estranee impietose minacciano d’ogni male i deboli equilibri della nostra esistenza. Cadono le braccia segnate da troppe prove contente di non perdere il poco. La voce flebile non affianca la rivolta s’addomestica o soffoca nel rantolo d’un colpo. Ciechi e muti ridotti all’obbedienza passiamo su corpi inanimati sospettosi di farci sentire. Impunite disonestà attaccano privilegi e paure e creano usuali cordogli di nuove vittime. Con falsa coscienza vendiamo e compriamo compiaciute inquietudini. Semi
dispersi
L’ultima scelta, sacrificio di libertà mai godute, resta sempre la lotta. La pazienza perde il giudizio e disperata vuol vendere la vita per qualche fiotto di sangue. Un grido smorza la furia dell’incerta violenza e fa ritrovare la pace. La paura sa chiedere perdono. L’amore sorda invocazione di buona volontà dei poveri prende tempo e ruba la vendetta. Giustizieri decisi con mano sicura bruciano sul rogo del potere l’idea fissa di cambiare. La
nuova civiltà
Non è più tempo di vivere fatali destini e di credere al malefico canto delle civette. Magici scongiuri non recano provvide sfortune all’invidia dei poveri. Non è più tempo di cercare avidi tesori sepolti e di aspettare miracoli per vivere senza problemi. Le braccia hanno scavato i poderi per far produrre la terra. Non è più tempo di pazienti rimandi e di suadenti parole per sanare i continui bisogni. Le ragioni hanno rotto i silenzi e forzano le porte della tirannia che rinnova sacrileghi olocausti.
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