RACCOLTA “SEMI
DIVERSI” INDICE:Prefazione di Luigi Compagnone
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La
poesia di Iuliano non va a caccia di farfalle. Intendo per farfalle le
folgorazioni, le vibrazioni, i trasalimenti, i sussulti, le arcane
stupefazioni. Su un piano formale, intendo per farfalle le frantumazioni
della parola. Le afasie linguistiche, le furbizie sintattiche, i
giochino stilistici. Iuliano ne fa a meno. Non è sensibile al
post-moderno. Ma la sua poesia ha stanza nel “moderno”, o meglio,
nella contemporaneità del nostro sentire. Luigi Compagnone |
muse, dei e santi perché diano ispirazione di canti sublimi. Le nostre voci non chiedono responsi o vaticini né sacrifici di sangue per vivere in pace la stessa uguaglianza sognata da sempre lottata nel tempo e ancora presente nelle umane richieste: non supplicano gli alterni Olimpi malvagi, corrotti e vinti dalle lusinghe di potere eterno che fissa termini e patti di nuovi imperi; non tacciono ai sofisticati imbrogli di accordi sottobanco o a false maggioranze che spremono ai fianchi la gente più debole. Sono voci libere che ignorano la resa per scelta e coraggio di lotta civile; sono semi asprigni, selvaggi separati con cura per non maledire altri raccolti di bufo. Ora,
i semi non devono marcire. Grembi di terra accolgono nei solchi preparati pugni di semi sparsi con mano misurata o invisibili polveri portate alla rinfusa dal vento ruffiano. Freddo, neve e sole nascondono la vita e l’eterne stagioni, coltivando segreti progetti. La zolla si gonfia e si spacca. Nel subbuglio un filo rompe sottili diaframmi e all’improvviso raggiunge la luce. Fremiti silenziosi generano ansie di sopravvivenza di cure morbose o di abbandoni e di desideri di morte. Esili germogli cadono senza risorgere; altri resistono alla forza del loglio e del grano, non si fanno soffocare. Sono semi diversi. tossiche o malate, raccolti di terre aride o figlie di tristi annate, sono strappate e arse come inutili rovi. Genie di uomini, semi di fiore dei poveri, forti di braccio e di collo temprati al rampino, resistono al taglio di falce o al cappio della mano. E se non resistono muoiono in piedi con orgogliosa fierezza per non cadere in ginocchio. Cristi di carne hanno i chiodi fissi alla terra e l’ossa rotte bucate da continue dure fatiche e dalla sferza dei giorni che piegano le forze alle prove della vita. La terra non dà garanzie: è un paradiso di cose proibite per chi suda lavoro e aspetta di avere il compenso dei poveri per risorgere come il Cristo di carne. è il segno distintivo il blasone antico il nome di paese il tuo confine. Fra case basse incredibili Harlem nelle terre del Sud, tra gente delle stesso colore trovi bianchi-negri che non cantano spitituals e tardano a vincere nuove guerre di secessione. La stella di David non riesce a brillare, non ha posto nel cielo e s’attacca a capriccio a nuovi deportati. La stella del Sud non conta le punte o vanti d’eredità di biblici liberatori che pur ebbero in sorte una terra promessa. La stella della diaspora sortilegio di terre povere e della malvagità degli uomini diventa croce pesante come pietra di case compagna di vecchi destini desiderio lontano e vicino di stesse uguaglianze. Centauri
sognatori di rombi a sei cilindri vestono casual e conoscono a memoria ritmi country o dance. In posti diversi di un’ Italia diversa giovinezza non ha differenze. Soffre e piange per amori traditi, sogna intime carezze e aspetta invitanti sorrisi che fanno correre il cuore. Lontani paesi ingannano le attese, si trovano confine portando antichi segni e colpe d’inferiorità. La voglia matta di giustizia non s’impunta, non pretende ma geme ai bisogni della vita trovandosi cliente fortunata. Giovani coscienze cadono, rinnegano le idee vendute al lavoro sicuro o vecchie malate e invalide per una pensione-salario. Nel Sud libertà dura vent’anni e qualche nuova canzone ribelle per poche stagioni nel vuoto di una cuffia o tra lampi colorati di Bussole incantate. Cori al
decibel
vespai di motori sventrano la terra rompendo gli invidiabili confini del latifondo. Nel braccio di ferro chi punì chi chiedeva pane e terra e accorciò i poderi per strade e ferrovia cede debole all’esproprio senza maledizione con rischio calcolato per convenienza. Sulla terra venduta per filantropia sorgono imperi di fabbriche con nuove schiavitù e posti di lavoro-questua negli uffici di partito. Volteggiano le ruspe dei sub-appalti e rompono il midollo di balze e colline scoprendo tra le pieghe mura e paesi d’antica civiltà che resta ignota e crolla sotto il peso del silenzio al prezzo di affari e contributi. Nella
scodella vuota
di terra smaltata con fiori leggevi nel fondo vecchie condizioni di miseria. Pane, vino e cipolle assicuravano ciambotte sazie e contentezza consumate assieme a pulcini storditi e vivaci per l’allegra zuppa. Col tempo la scodella si riempì all’orlo onorando mense fumanti non più di fetide cipolle. Non più fame. Una fuga di gente contadini-operai abbandonarono i campi raggiunsero il mondo; popolarono miniere, strade e fabbriche curvando le spalle solo al peso del lavoro. Con gli anni le radici partirono a gruppi, altre nacquero altrove vantando precisi diritti di sole. Il legame di sangue con terre e parenti finì. Non più meridionali. Arrivano alla
città
frammenti di tribù o intere calate nomadi col desiderio di un contratto. Ma Roma non sorride a chi l’ha sempre maledetta e apre le braccia di borgata Focaccia o Casalotti serrando speranze cittadine e deluse rivalse sociali che aspettano altre risposte. Roma resta ancora nemica. Le parole hanno perso l’accento diventato per forza burino ma non hanno rotto l’incanto per convincere la sorda città. Un lume e un fiore per santi nostrani offendono le sue santità storiche ed eterne come certe miserie di provato disinteresse o di discorsi inutili che non si affrontano più. Continue suppliche e promesse di voti investono le immagini di Madonna dell’Arco o Montevergine protettrici di gente contadina con l’ansia negli occhi di vita civile. La Valletta
figlia abortiva
di quartieri cittadini è l’eremo meridionale di Torino. Stanze squallide, pollai di famiglie, nidi promiscui di verminosa miseria sono sempre nere come gli umori di chi abita. Altre chiuse al sole, malate, conservano nelle inviolabili notti letti caldi, ricovero d’uomini logore catene di montaggio. Scocche al fuoco o verniciate colorano il sonno di piccoli risparmi; bulloni e frese avvitano nel vuoto rimpianti e ricatti. Il pane di mensa non più misurato soddisfa avide bocche che vociano decise flessioni e turni e scioperi ad oltranza. Torino è un sol corteo. Alla Valletta trionfano voci femminili e strilli di ragazzi tra gole rauche che propongono nuovi programmi. Macchie di
vapore e fumo
di treni e bastimenti s’alzano nel cielo senza direzione. S’allungano nere poi grigie e bianche per svanire per sempre nel sole e nelle ombre. Qui si incontrano vicino a stelle indifferenti umane speranze e sogni di facili guadagni compagni di fortune sicure. Ognuno tornerà con le mani piene ed avrà voce ed occhi per trattar da pari a pari ricchi massari o signori possidenti. Alla festa del patrono non offrirà muzzetti votivi ornati di penne e ceri ma dollari e franchi che ammantano la statua benedicente don Ciccillo e casa sua. Il sibilo dell’espresso e lo sciamare di auto avvertono di superare il confine e portano nell’esilio volontario un paesano cittadino del mondo. Charleroi
è una cova di sorci e di carbone nera di giorno e di notte come l’acqua di una fogna. Talpe al grisou unghiano le cave popolando il regno delle ombre. Tetti simmetrici puntellati di stelle sono casa e cielo sopra il Belvedere di vagoni da luna-park senza biglietterie che rompono il silenzio con fermate a tutte le stazioni. Al capolinea arrivano improvvisi ascensori di pensieri che fanno carico di luce ed aria nelle vie affollate di Charleroi o davanti al bar di Bisaccia. La sosta ubriaca di ripetuti sguardi di vecchie foto e di sorsi di birra. Colpi di tosse smuovono lattine vuote sporche di birra vomitata. Se ti basta
la mano del Signore e uno spruzzo d’acqua benedetta puoi vivere in pace cent’anni e diventare santo per poco. Se ti accontenti di niente per correre senza fermate col fiato che manca e ti spezza le forze ti raccoglieranno la vita senza rimpianti. Se aspetti nuove realtà e credi che gli altri crepino da soli per farti largo morirai di noiosa impotenza senza trovare alternative. Se attimi di felicità ti rendono euforica la mente nel sudore e nella follia conserva tutto a ricordo per non conoscere il tradimento dei sogni. Troppi se alieni dalla ragione fermano passi d’autonomia immobili in ogni direzione incapaci di acquistar coscienza. Quante mani
stringono
boccali colmi di vino di creta o di vetro comune ignorando tintinnii di Boemia e valzer di Strauss. Sorsi avidi strozzano la gola cacciando gli occhi lucidi alla forza dell’alcool e alla decenza del galateo. Vino acidoso di viticci anonimi senza titoli e origini plebeo come il tuo volgo gonfi la lingua tinta e sciogli verità e spropositi. Sollevi la pena allontani la noia regali feste con brindisi di champagne a basso costo che invocano salute contro ogni forma di male. Scartato dalla mensa dei potenti sdegnati di simile veleno diventi nettare sublime, dai pace e godimento ai sensi regalando attimi di quiete alla mente confusa da troppi pensieri. Sensali di
libertà
avventurieri al soldo strateghi di schiavitù sono in letargo. Passata la furia di rischiar la testa riposano vincitori su comodi giacigli. Ventri gonfi digeriscono abbuffate di popolo non più ribelle avido del solito pastone. La bocca si allarga e si gonfia; dispensa di ingorde voglie cadenza i colpi di mascella e perde schiume di saliva e unto che rigano le grasse gote. La voce perde il giudizio saziando la rabbia e la fame arretrata. L’idea non resiste all’offerta e vende al sistema silenzi compiaciuti di essere comprati; non si cura di pensare di affrancarsi dai bisogni ammalata di favori di illusori privilegi insipide felicità incolori ormai senza volto. Quando la
forza
di ogni forma di comando stringerà le spire soffocando velleità di nuovo non ti darai prigioniero. Se la piovra ti torcerà il collo per non farti parlare con la promessa di libertà di servire strappale il cuore, tagliale le braccia. Semi di libertà rifiutano gli assilli non hanno protezioni né costi di mercato; crescono da soli in mezzo alla gramigna come pianta libera laddove brilla il sole. Semi di libertà non vendono coscienze non sono prigionieri; nascondono rivolte riempiono le voci armano la mano piegano col martello che rompe false catene ideologiche il patto di sangue di astuti compari. Semi di libertà, per voi viviamo. L’ora delle
tenebre
ignora il sacrificio premia i vili inventa la giustizia. Sporca di nero muri di case vivi di calce per cantare evviva ai nuovi tribuni. Il tempo ha sbiadito le scritte ma gli osanna sopravvivono agli anni e ricordano atti temerari di ripetuti inganni impietosi. Stregoni laici o confessionali senza carismi di luce divina inventano intrighi, profezie e misteri con malvagie alchimie dialettiche. Mosaici di manifesti chiacchierano tornate elettorali di unità di popolo da Eboli all’Europa. Le parole non hanno distanze volano negli spazi infiniti e portano formule e proposte modelli cittadini di crescite civili, libertà non liberate. Le piazze
muovono altre folle
e gridano in coro canti di vittoria. Calendari segnano giorni veri di festa riconciliano gli uomini portano pace sicura. La concordia trova spazi di umanità dimenticando i vecchi rancori; gli affanni di clientele scelte di lavori fortunati di espatri clandestini di legioni straniere di molti bisogni sociali sgranano famiglie come misteri dolorosi di rosari con l’amen che spesso urla bestemmie; le ragioni opposte al ricatto stringono i pugni non sono prigioniere. Orgogliose di diverse decisioni rivendicano con identiche parole e gesti irrequieti d’impazienza mali, servitù e ragion di stato all’umana debole giustizia che tutto sa, condanna o tace. Uomini,
fossili di trincea
eroi sordi alla pazienza con in petto ferite e medaglie, vanno alla carica con baionette di sangue. La follia percorre la terra la paura uccide la pietà cacciandola col ferro. L’odiata forza rovescia troni e miserie e chiede giorni di pace. Ma la storia non cambia. Soldati di nuovi eserciti con la divisa delle tessere violentano nel sangue, senza lampo di cannoni o crepitare di mitraglie il seme della libertà. Alla luce e a piena gola la vendetta affoga la vita restituendola ad oscuri silenzi. La lotta finisce senza trattati. La sconfitta riporta nei vecchi confini con la paura di averli varcati. Il tempo cede a rispettose ubbidienze, illudendo con la forza stuprate vittorie che durano sui popoli una triste stagione. Sospiri
di proposte di pace in numeri di varietà confondono ali di missili e colombe in assurdi connubi di pacifiche convivenze nucleari. Voci disfatte e querule creano paura appesantiscono l’attesa favoriscono la resa con gabbiani a comando che stridono sangue e morte. Tarli di paura in paranoia schierano gli uomini contaminati nell’atomo della cultura di potere. Margini umani gente qualunque non hanno allergie al Cruise o a piogge avvelenate. Resistono temerari a chiedere giustizia vortice consumato di speranze chimera distratta e lontana ma desiderio continuo di vera pace, che ogni uomo si vanta di creare, di far rispetto e legge e spreme fino all’osso, fino al seme. Prestiti di
fantasia
senza interessi carezzano il gioco di parole messe assieme con artificio e foga senza destare sospetti. Non tutti ricordano il nome dopo l’uso e stringono la mano prima dell’uso e tentano altre stregonerie come in un mercato persiano nel clamore di suoni e voci e nella nebbia arrendevole di un tiro di pipa. Congressi e consigli rompono e fanno tresche scoprendo malizie politiche e accordi da banco dei pegni e da macello sull’usata pelle che non ha voce e aspetta gestioni pulite ad occhi aperti fissi sulle discriminanti di partito e fede. Virtù di fantasia assapora inutili piaceri come amore di donna comprata che ti lascia malato e deluso col desiderio di doverci tornare. Donna
anche tu sei un seme diverso. Non hai tempo per invidiare gioielli di Cartier e modelli e sete di Valentino vantando crociere e fuoribordo e amicizie di alto casato. Sei preda del sole del Sud che brucia la pelle senza toccare i vanitosi lidi del Caraibi o Saint-Tropez. La tua vita sfida la fortuna senza usare filtri magici o tentare i numeri della roulette. Donna non sei chiamata madama né nobildonna non hai titoli e blasoni né posto nei giochi di società. Spendi la tua parsimonia senza problemi di maneggi, tenute e ville e servi da comandare in teatri, night e party che ti rubano il sonno. Compagna di vita senza passatempi amore senza prezzo non cercare nel ventre le ragioni del riscatto, i tuoi semi sono uguali. Ora,
i semi sono dispersi nella terra. Nel solco la vita rifiuta i fissati destini e prepara gemme di colore ai cicli assorti della natura e alla pazienza degli uomini. Distese di polvere o fango uniformi sotto cieli infiniti miraggi di industrie nostrane creature senza paternità che portano l’Europa a casa davanti l’uscio aspettano il miracolo abbandonate come spose avvizzite povere di grazia che falsa l’età incapaci di darsi o negarsi, senza più voglie, ma col ventre ancora maturo. Tra i campi del Sud nascono spontanee erbe tenaci che soffocano vanitosi papaveri vistosi nell’anonima pianura forti di gambi concimati, protetti nel bunker della serra sottratti all’insidia degli insetti. Ma cadono agli attacchi della vita gonfi di acqua e verderame e di profumato veleno. Più in là
oltre i confini della paura nei posti più diversi cresce un fiore senza nome, con radici nella storia, vivo da un semplice seme. |