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Hanno detto..

RACCOLTA “SEMI DIVERSI”

 

INDICE:

Prefazione di Luigi Compagnone

Giammai invocheremo

Ora,

Radici di malerbe sterili

Una croce in pietra

Centauri

Cori al decibel

Nella scodella vuota

Arrivano alla città

La Valletta figlia abortiva

Macchie di vapore e fumo

Charleroi

Se ti basta

Quante mani stringono

Sensali di libertà

Quando la forza

L’ora delle tenebre

Le piazze muovono altre folle

Uomini, fossili di trincea

Sospiri

Prestiti di fantasia

Donna

Ora,

Più in là  

 

 

PREFAZIONE

La poesia di Iuliano non va a caccia di farfalle. Intendo per farfalle le folgorazioni, le vibrazioni, i trasalimenti, i sussulti, le arcane stupefazioni. Su un piano formale, intendo per farfalle le frantumazioni della parola. Le afasie linguistiche, le furbizie sintattiche, i giochino stilistici. Iuliano ne fa a meno. Non è sensibile al post-moderno. Ma la sua poesia ha stanza nel “moderno”, o meglio, nella contemporaneità del nostro sentire.
Iuliano è ossessionato da mille “umane richieste”. Non invoca le classicissime muse. Né “dei” né “santi”. Né “canti sublimi”. Sa bene che i “canti sublimi” sono imbrogli poetici, imbrogli “classici”. Questo, forse, lo ha ereditato da Rocco Scotellaro. Ha ereditato, da Rocco, i “semi asprigni, selvaggi”. Refrattario al sublime, anche Iuliano canta
terra terra, ossia vicino alle zolle, alle pietre, ai semi: e al seme della sua poesia. Un seme che respinge il “vento ruffiano” delle frantumazioni e delle afasie, di cui sopra. Il vento ruffiano delle “tristi annate” poetiche.
Io leggo questa raccolta come si legge un “poemetto”, cioè un discorso compatto e totalizzante. Compatto nella sua unità “ideologica”. Iuliano accenna a un a”resurrezione” dei poveri, in cui s’inveri“
il Cristo di carne”. Dunque come me non crede nel cristianesimo reale, che non ha carne. Questa, forse, l’ “ideologia” cui alludevo, il suo sentimento, il suo “paesaggio” di dentro e di fuori.
Paesaggio di “case basse / incredibili Harlem / nelle terre del Sud, / tra gente dello stesso colore / trovi bianchi-negri / che non cantano spirituals / e tardano a vincere / nuove guerre di secessione. / La stella di David / non riesce a brillare, / non ha posto nel cielo / e s’attacca a capriccio / a nuovi deportati”.
Si dirà, e lo dice lui stesso, che questa è una “voglia matta di giustizia”. Tale voglia la gridano tutti, no? Ma importante è che la gridi un poeta. Però Iuliano non la
grida. Più positivamente, la dice. Con raccolto cuore, con raccolta intelligenza. Quindi la rappresenta. Rappresentare il reale, per aggiungere una cosa di più al reale. Rappresentare il reale, le contraddizioni del reale, le spine del reale, significa in poesia amare il reale. Amarlo con odio, odiarlo con amore. Senza svicolare da esso. E senza svicolare da parole esatte, concrete, reali. Tanto, ripeto, per non andare a caccia delle suddette farfalle. E per inverare il tutto nelle parole, non già nei termini (secondo la sacrosanta distinzione leopardiana), e per ricrearlo nel vero, non per addomesticarlo nel falso dei poeti eludenti, elidenti, illudenti.
Sentiamo questi versi : “Volteggiano le ruspe / dei subappalti / e rompono il midollo / di balze e colline / scoprendo tra le pieghe / mura e paesi / d’antica civiltà / che resta ignota / e crolla sotto il peso / del silenzio / al prezzo di affari e contributi”.
Ma questa è demagogia, mi direte. E’ quasi articolo di giornale. E mi potete anche rispolverare il vecchio ritornello di “poesia e non poesia”. Certo, questi versi possono sembrare una
caduta. Ma anche le cadute sono necessarie ai poeti. Perché poi ti accorgi che queste cadute, tali se ti metti a isolare versi qua e là, non lo sono più nella poesia di Iuliano, che procede anche per accumuli d’immagini e parole desuete alla “bella” poesia: affari, contributi, imbrogli, pensione-salario, decibel, latifondo, esproprio, espatrio, lavoro-questua, clientele, bisogni sociali, ragion di Stato, Cruise, congressi, un elenco senza fine, un lessico da tribuna stampa.
Sì, ma tale lessico fa voce nella pagina. Come lo fanno – per legge di rovente contrasto – parole come “Madonna dell’Arco” o “Montevergine”, o “scodella vuota” / di creta smaltata con fiori”, o “pulcini / storditi e vivaci / per l’allegra zuppa”, ecc. Dunque il moderno o il post-moderno, e l’arcaico. Il Nord, e il Sud della tradizione. Il Nord illuminato e illuminista, e il Sud degli ex-voto. Ma ecco che questo pazzo Iuliano vi scopre una tremenda omologazione. Non proprio quella di Pasolini, o forse sì. Scopre, insomma, che “la Valletta figlia abortiva / di quartieri cittadini / è l’eremo meridionale di Torino”.
Ah, siamo dunque davvero tutti cittadini d’ Italia. Anzi, tutti cittadini del vasto mondo. Tanto è vero che questo folle Iuliano ti fa apparire davanti agli occhi le “vie affollate di Charleroi” (Belgio), e “il bar di Bisaccia” (Avellinese).
Forse perché in questo sconnesso mondo Iuliano vede ovunque “stregoni laici e confessionali / senza carismi / di luce divina” e “intrighi, profezie e misteri / con malvagie alchimie dialettiche”? E perché vede ovunque una “cova di sorci e di carbone”?
Io amo, insisto, questa poesia che non va a caccia di farfalle. Ne amo l’ira, il dolore, l’ironia, il disprezzo, l’amore. Ne amo le tonde parole senza afasia, tonde e vere come il vivere e il morire. E disperate come la speranza.

Luigi Compagnone 

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Giammai invocheremo

muse, dei e santi

perché diano ispirazione

di canti sublimi.

Le nostre voci non chiedono

responsi o vaticini

né sacrifici di sangue

per vivere in pace

la stessa uguaglianza

sognata da sempre

lottata nel tempo

e ancora presente

nelle umane richieste:

non supplicano gli alterni Olimpi

malvagi, corrotti e vinti

dalle lusinghe di potere eterno

che fissa termini e patti

di nuovi imperi;

non tacciono

ai sofisticati imbrogli

di accordi sottobanco

o a false maggioranze

che spremono ai fianchi

la gente più debole.

Sono voci libere

che ignorano la resa

per scelta e coraggio di lotta civile;

sono semi asprigni, selvaggi

separati con cura

per non maledire altri raccolti di bufo.

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Ora,

i semi non devono marcire.

Grembi di terra

accolgono

nei solchi preparati

pugni di semi sparsi

con mano misurata

o invisibili polveri

portate alla rinfusa

dal vento ruffiano.

Freddo, neve e sole

nascondono la vita

e l’eterne stagioni,

coltivando segreti progetti.

La zolla si gonfia e si spacca.

Nel subbuglio un filo

rompe sottili diaframmi

e all’improvviso

raggiunge la luce.

Fremiti silenziosi

generano ansie di sopravvivenza

di cure morbose

o di abbandoni

e di desideri di morte.

Esili germogli cadono

senza risorgere;

altri resistono

alla forza del loglio e del grano,

non si fanno soffocare.

Sono semi diversi.

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Radici di malerbe sterili

tossiche o malate,

raccolti di terre aride

o figlie di tristi annate,

sono strappate e arse

come inutili rovi.

Genie di uomini,

semi di fiore dei poveri,

forti di braccio e di collo

temprati al rampino,

resistono al taglio di falce

o al cappio della mano.

E se non resistono

muoiono in piedi

con orgogliosa fierezza

per non cadere in ginocchio.

Cristi di carne

hanno i chiodi fissi alla terra

e l’ossa rotte bucate

da continue dure fatiche

e dalla sferza dei giorni

che piegano le forze

alle prove della vita.

La terra non dà garanzie:

è un paradiso

di cose proibite

per chi suda lavoro

e aspetta di avere

il compenso dei poveri

per risorgere come il Cristo di carne.

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Una croce in pietra

è il segno distintivo

il blasone antico

il nome di paese

il tuo confine.

Fra case basse

incredibili Harlem

nelle terre del Sud,

tra gente delle stesso colore

trovi bianchi-negri

che non cantano spitituals

e tardano a vincere

nuove guerre di secessione.

La stella di David

non riesce a brillare,

non ha posto nel cielo

e s’attacca a capriccio

a nuovi deportati.

La stella del Sud

non conta le punte

o vanti d’eredità

di biblici liberatori

che pur ebbero in sorte

una terra promessa.

La stella della diaspora

sortilegio di terre povere

e della malvagità degli uomini

diventa croce

pesante come pietra di case

compagna di vecchi destini

desiderio lontano e vicino

di stesse uguaglianze.

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Centauri

sognatori di rombi a sei cilindri

vestono casual

e conoscono a memoria

ritmi country o dance.

In posti diversi

di un’ Italia diversa

giovinezza non ha differenze.

Soffre e piange per amori traditi,

sogna intime carezze

e aspetta invitanti sorrisi

che fanno correre il cuore.

Lontani paesi ingannano le attese,

si trovano confine

portando antichi segni e colpe

d’inferiorità.

La voglia matta di giustizia

non s’impunta, non pretende

ma geme ai bisogni della vita

trovandosi cliente fortunata.

Giovani coscienze cadono,

rinnegano le idee

vendute al lavoro sicuro

o vecchie malate e invalide

per una pensione-salario.

Nel Sud libertà dura vent’anni

e qualche nuova canzone

ribelle per poche stagioni

nel vuoto di una cuffia

o tra lampi colorati di Bussole incantate.

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Cori al decibel

vespai di motori

sventrano la terra

rompendo gli invidiabili confini

del latifondo.

Nel braccio di ferro

chi punì chi chiedeva pane e terra

e accorciò i poderi

per strade e ferrovia

cede debole all’esproprio

senza maledizione

con rischio calcolato

per convenienza.

Sulla terra venduta

per filantropia

sorgono imperi di fabbriche

con nuove schiavitù

e posti di lavoro-questua

negli uffici di partito.

Volteggiano le ruspe

dei sub-appalti

e rompono il midollo

di balze e colline

scoprendo tra le pieghe

mura e paesi

d’antica civiltà

che resta ignota

e crolla sotto il peso

del silenzio

al prezzo di affari e contributi.

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Nella scodella vuota

di terra smaltata con fiori

leggevi nel fondo

vecchie condizioni di miseria.

Pane, vino e cipolle

assicuravano ciambotte

sazie e contentezza

consumate assieme a pulcini

storditi e vivaci

per l’allegra zuppa.

Col tempo

la scodella si riempì all’orlo

onorando mense fumanti

non più di fetide cipolle.

Non più fame.

Una fuga di gente

contadini-operai

abbandonarono i campi

raggiunsero il mondo;

popolarono miniere,

strade e fabbriche

curvando le spalle

solo al peso del lavoro.

Con gli anni

le radici partirono a gruppi,

altre nacquero altrove

vantando precisi diritti di sole.

Il legame di sangue

con terre e parenti finì.

Non più meridionali.

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Arrivano alla città

frammenti di tribù

o intere calate nomadi

col desiderio di un contratto.

Ma Roma non sorride

a chi l’ha sempre maledetta

e apre le braccia

di borgata Focaccia o Casalotti

serrando speranze cittadine

e deluse rivalse sociali

che aspettano altre risposte.

Roma resta ancora nemica.

Le parole hanno perso l’accento

diventato per forza burino

ma non hanno rotto l’incanto

per convincere la sorda città.

Un lume e un fiore

per santi nostrani

offendono le sue santità

storiche ed eterne

come certe miserie

di provato disinteresse

o di discorsi inutili

che non si affrontano più.

Continue suppliche

e promesse di voti

investono le immagini

di Madonna dell’Arco

o Montevergine

protettrici di gente contadina

con l’ansia negli occhi di vita civile.

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La Valletta figlia abortiva

di quartieri cittadini

è l’eremo meridionale di Torino.

Stanze squallide, pollai di famiglie,

nidi promiscui di verminosa miseria

sono sempre nere

come gli umori di chi abita.

Altre chiuse al sole, malate,

conservano nelle inviolabili notti

letti caldi, ricovero d’uomini

logore catene di montaggio.

Scocche al fuoco o verniciate

colorano il sonno di piccoli risparmi;

bulloni e frese

avvitano nel vuoto

rimpianti e ricatti.

Il pane di mensa

non più misurato

soddisfa avide bocche

che vociano decise

flessioni e turni

e scioperi ad oltranza.

Torino è un sol corteo.

Alla Valletta

trionfano voci femminili

e strilli di ragazzi

tra gole rauche

che propongono

nuovi programmi.

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Macchie di vapore e fumo

di treni e bastimenti

s’alzano nel cielo senza direzione.

S’allungano nere

poi grigie e bianche

per svanire per sempre

nel sole e nelle ombre.

Qui si incontrano

vicino a stelle indifferenti

umane speranze e sogni

di facili guadagni

compagni di fortune sicure.

Ognuno tornerà

con le mani piene

ed avrà voce ed occhi

per trattar da pari a pari

ricchi massari

o signori possidenti.

Alla festa del patrono

non offrirà muzzetti votivi

ornati di penne e ceri

ma dollari e franchi

che ammantano la statua

benedicente don Ciccillo

e casa sua.

Il sibilo dell’espresso

e lo sciamare di auto

avvertono di superare il confine

e portano nell’esilio volontario

un paesano cittadino del mondo.

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Charleroi

è una cova di sorci e di carbone

nera di giorno e di notte

come l’acqua di una fogna.

Talpe al grisou

unghiano le cave

popolando

il regno delle ombre.

Tetti simmetrici

puntellati di stelle

sono casa e cielo

sopra il Belvedere

di vagoni da luna-park

senza biglietterie

che rompono il silenzio

con fermate a tutte le stazioni.

Al capolinea

arrivano improvvisi ascensori

di pensieri

che fanno carico di luce ed aria

nelle vie affollate di Charleroi

o davanti al bar di Bisaccia.

La sosta ubriaca

di ripetuti sguardi

di vecchie foto

e di sorsi di birra.

Colpi di tosse

smuovono

lattine vuote

sporche di birra vomitata.

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Se ti basta

la mano del Signore

e uno spruzzo d’acqua benedetta

puoi vivere in pace cent’anni

e diventare santo

per poco.

Se ti accontenti

di niente

per correre senza fermate

col fiato che manca

e ti spezza le forze

ti raccoglieranno la vita

senza rimpianti.

Se aspetti

nuove realtà

e credi che gli altri

crepino da soli

per farti largo

morirai di noiosa impotenza

senza trovare alternative.

Se attimi di felicità

ti rendono euforica la mente

nel sudore e nella follia

conserva tutto a ricordo

per non conoscere

il tradimento dei sogni.

Troppi se alieni dalla ragione

fermano passi d’autonomia

immobili in ogni direzione

incapaci di acquistar coscienza.

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Quante mani stringono

boccali colmi di vino

di creta o di vetro comune

ignorando tintinnii di Boemia

e valzer di Strauss.  

Sorsi avidi

strozzano la gola

cacciando gli occhi lucidi

alla forza dell’alcool

e alla decenza del galateo.

Vino acidoso

di viticci anonimi

senza titoli e origini

plebeo come il tuo volgo

gonfi la lingua tinta

e sciogli verità e spropositi.

Sollevi la pena

allontani la noia

regali feste

con brindisi di champagne

a basso costo

che invocano salute

contro ogni forma di male.

Scartato dalla mensa dei potenti

sdegnati di simile veleno

diventi nettare sublime,

dai pace e godimento

ai sensi

regalando attimi di quiete

alla mente confusa

da troppi pensieri.

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Sensali di libertà

avventurieri al soldo

strateghi di schiavitù

sono in letargo.

Passata la furia

di rischiar la testa

riposano vincitori

su comodi giacigli.

Ventri gonfi digeriscono

abbuffate di popolo

non più ribelle

avido del solito pastone.

La bocca si allarga e si gonfia;

dispensa di ingorde voglie

cadenza i colpi di mascella

e perde schiume di saliva e unto

che rigano le grasse gote.

La voce perde il giudizio

saziando la rabbia

e la fame arretrata.

L’idea non resiste all’offerta

e vende al sistema

silenzi compiaciuti

di essere comprati;

non si cura di pensare

di affrancarsi dai bisogni

ammalata di favori

di illusori privilegi

insipide felicità incolori

ormai senza volto.

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Quando la forza

di ogni forma di comando

stringerà le spire

soffocando velleità di nuovo

non ti darai prigioniero.

Se la piovra

ti torcerà il collo

per non farti parlare

con la promessa

di libertà di servire

strappale il cuore,

tagliale le braccia.

Semi di libertà

rifiutano gli assilli

non hanno protezioni

né costi di mercato;

crescono da soli

in mezzo alla gramigna

come pianta libera

laddove brilla il sole.

Semi di libertà

non vendono coscienze

non sono prigionieri;

nascondono rivolte

riempiono le voci

armano la mano

piegano col martello che rompe

false catene ideologiche

il patto di sangue di astuti compari.

Semi di libertà, per voi viviamo.

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L’ora delle tenebre

ignora il sacrificio

premia i vili

inventa la giustizia.

Sporca di nero

muri di case vivi di calce

per cantare evviva

ai nuovi tribuni.

Il tempo ha sbiadito

le scritte

ma gli osanna

sopravvivono agli anni

e ricordano atti temerari

di ripetuti inganni impietosi.

Stregoni laici o confessionali

senza carismi

di luce divina

inventano

intrighi, profezie e misteri

con malvagie alchimie dialettiche.

Mosaici di manifesti

chiacchierano

tornate elettorali

di unità di popolo

da Eboli all’Europa.

Le parole non hanno distanze

volano negli spazi infiniti

e portano formule e proposte

modelli cittadini

di crescite civili,

libertà non liberate.

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Le piazze muovono altre folle

e gridano in coro

canti di vittoria.

Calendari segnano

giorni veri di festa

riconciliano gli uomini

portano pace sicura.

La concordia

trova spazi di umanità

dimenticando i vecchi rancori;

gli affanni

di clientele scelte

di lavori fortunati

di espatri clandestini

di legioni straniere

di molti bisogni sociali

sgranano famiglie

come misteri dolorosi

di rosari

con l’amen che spesso urla bestemmie;

le ragioni

opposte al ricatto

stringono i pugni

non sono prigioniere.

Orgogliose di diverse decisioni

rivendicano con identiche parole

e gesti irrequieti d’impazienza

mali, servitù e ragion di stato

all’umana debole giustizia

che tutto sa, condanna o tace.

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Uomini, fossili di trincea

eroi sordi alla pazienza

con in petto ferite e medaglie,

vanno alla carica

con baionette di sangue.

La follia percorre la terra

la paura uccide la pietà

cacciandola col ferro.

L’odiata forza

rovescia troni e miserie

e chiede giorni di pace.

Ma la storia non cambia.

Soldati di nuovi eserciti

con la divisa delle tessere

violentano nel sangue,

senza lampo di cannoni

o crepitare di mitraglie

il seme della libertà.

Alla luce e a piena gola

la vendetta affoga la vita

restituendola ad oscuri silenzi.

La lotta finisce senza trattati.

La sconfitta riporta

nei vecchi confini

con la paura di averli varcati.

Il tempo cede

a rispettose ubbidienze,

illudendo con la forza

stuprate vittorie

che durano sui popoli una triste stagione.

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Sospiri

di proposte di pace

in numeri di varietà

confondono ali

di missili e colombe

in assurdi connubi

di pacifiche convivenze nucleari.

Voci disfatte e querule

creano paura

appesantiscono l’attesa

favoriscono la resa

con gabbiani a comando

che stridono sangue e morte.

Tarli di paura in paranoia

schierano gli uomini

contaminati nell’atomo

della cultura di potere.

Margini umani

gente qualunque

non hanno allergie al Cruise

o a piogge avvelenate.

Resistono temerari

a chiedere giustizia

vortice consumato di speranze

chimera distratta e lontana

ma desiderio continuo di vera pace,

che ogni uomo si vanta 

di creare, di far rispetto e legge

e spreme fino all’osso,

fino al seme.

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Prestiti di fantasia

senza interessi

carezzano il gioco di parole

messe assieme

con artificio e foga

senza destare sospetti.

Non tutti ricordano il nome

dopo l’uso

e stringono la mano

prima dell’uso

e tentano altre stregonerie 

come in un mercato persiano

nel clamore di suoni e voci

e nella nebbia arrendevole

di un tiro di pipa.

Congressi e consigli

rompono e fanno tresche

scoprendo malizie politiche

e accordi da banco dei pegni

e da macello

sull’usata pelle che non ha voce

e aspetta gestioni pulite

ad occhi aperti

fissi sulle discriminanti

di partito e fede.

Virtù di fantasia

assapora inutili piaceri

come amore di donna comprata

che ti lascia malato e deluso

col desiderio di doverci tornare.

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Donna

anche tu sei un seme diverso.

Non hai tempo per invidiare

gioielli di Cartier

e modelli e sete di Valentino

vantando crociere e fuoribordo

e amicizie di alto casato.

Sei preda del sole del Sud

che brucia la pelle

senza toccare i vanitosi lidi

del Caraibi  o Saint-Tropez.

La tua vita sfida la fortuna

senza usare filtri magici

o tentare i numeri della roulette.

Donna

non sei chiamata madama

né nobildonna

non hai titoli e blasoni

né posto nei giochi di società.

Spendi la tua parsimonia

senza problemi

di maneggi, tenute e ville

e servi da comandare

in teatri, night e party

che ti rubano il sonno.

Compagna di vita

senza passatempi

amore senza prezzo

non cercare nel ventre

le ragioni del riscatto,

i tuoi semi sono uguali.

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Ora,

i semi sono dispersi nella terra.

Nel solco la vita rifiuta

i fissati destini

e prepara gemme di colore

ai cicli assorti della natura

e alla pazienza degli uomini.

Distese di polvere o fango

uniformi sotto cieli infiniti

miraggi di industrie nostrane

creature senza paternità

che portano l’Europa a casa

davanti l’uscio

aspettano il miracolo

abbandonate come spose avvizzite

povere di grazia che falsa l’età

incapaci di darsi o negarsi,

senza più voglie,

ma col ventre ancora maturo.

Tra i campi del Sud

nascono spontanee

erbe tenaci

che soffocano vanitosi papaveri

vistosi nell’anonima pianura

forti di gambi concimati,

protetti nel bunker della serra

sottratti all’insidia degli insetti.

Ma cadono agli attacchi della vita

gonfi di acqua e verderame

e di profumato veleno.

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Più in là

oltre i confini della paura

nei posti più diversi

cresce un fiore senza nome,

con radici nella storia,

vivo da un semplice seme.


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