RACCOLTA “ANTINOMIE E MASCHERE”
INDICE: Introduzione di Francesco D'Episcopo |
PrologoO Musa conservami la gloria del canto da sempre ispirazione esclusiva del tuo nome divino. Sono poeta al contrario. Non canto virtù e gesta e folli amori di dame e cavalieri prossimi a giostre e crociate, né mi consolo di buoni sentimenti vivi di scelte parole nuove di vocabolario. Non conosco il mestiere di vate né l’esercizio di arpa e chitarra per creare melodia. Sono cantastorie di vita malata di uguale che inseguo a pari tra gente comune sedotta nel corpo e nell’anima. Alla Musa non chiedo protezione di diventare grande per la comoda strada di Minnesinger. Estranea non mi lusinga la grazia del profeta di mestiere di astrazioni custode. Alla voce di dentro stridente e sgradevole affido la forza di gola i pensieri e la mente. Sfido chiunque a soffocarli; dovrà strapparmi i denti e l’anima. A me stessoSiamo moltitudine. Affannati corriamo scalzi o con scarpe e ci sgomitiamo per ristrettezza di spazio fino alla caduta. Spiccioli di continenti nella divisione continua siamo distanti isole senza approdo tra oceani d’indifferenza nell’assalto di venti e maree. Soli, grani di rosario confusi dal senso di colpa e da impulsi coraggiosi viviamo crescenti solitudini. Nel silenzio troviamo castelli di fantasia e ragioni di ottimismo necessità di compagnia ad ogni percorso. Ansie di verità non consentono soste e vestono il sorriso all’occasione di maschere comode buone a legittimar la vita. A me stesso devo per forza una cosciente complicità. AllucinazioneNebbie di fuliggine affumano e inchiostrano l’allucciolio del giorno. Ombre vaganti o fisse hanno la vista confusa già in debito di gradi per immagini incerte sfocate e che per lo sforzo di mira lentamente s’accecano. Astinenza d’eroina è voglia di succo e miele e di paradiso da tagliare in zolle di bianco mistero da covare in nidi di vespe; furtiva lesta suicida rompe arnie e favi e con gli aghi piantati a trasfusione nella linfa e nello spirito si caccia. Parola contraria ha forza di barriera al vento che si perde al soffio e non trova rimedio al veleno, reliquia stretta i dose tra le pieghe, venerata nel rito dei serpenti. Digiuni di continua quaresima sono rinuncia ai recinti del male e alle visioni da voler provare per ritrovarsi nella fuga che svende, al prezzo della vita, schegge di paradiso e le sue pietre. AmarezzaA volte faccio la conta non per virtù di cristiano come indugio serale all’esame di coscienza. Impulsi sono affanni del momento di salvare l’invisibile bisognoso di indulgenze e di scontare peccati. Ma il commesso mi rende stranìto rispetto al subìto, non per desiderio di rifarmi un’innocenza impossibile in questo tempo di borghese indifferenza. Anime sporche affollano i giorni e diventano spinte ideali molle compresse in negativo per legittimare l’uso del quotidiano. Ed io cellula persa muovo con la folla a litigare sul divisibile o a contentarmi di poco e di parole giuste che dalla notte dei tempi danno il premio di niente. AntinomieSui tetti l’ardesia respinge a rifiuto le vampe del sole e quando l’acqua s’infila a scariche fitte o tintinnio di grandine è comoda impeciata. Sui muri immagini sante e stampe incorniciate sono privati desideri pietà per i vecchi fuga dei giovani, ognuno pronto al suo lungo viaggio. Dentro, l’idea sogna e si dispera e quando s’apre è scatola vuota, confezione di paglia che mal s’adatta al rango di spaventapasseri o di uguali immobili comparse. ApparenzeTenere come punto d’arrivo l’ideale non è più costante come un tempo. Maschere figure d’opportunismo non rischiano la faccia né spazi di convenienza e s’adeguano in continua metamorfosi per logica deduzione al compromesso. La finzione si muove a regolo e scruta gli angoli oltre le misure generosa di misteri di nuovi e vecchi comandi, pronti all’uso come conserve sottovuoto. All’occasione impastiamo di carne, con fare obbligato, marionette di comodità assenti sudice razziste, voci e demoni disponibili che smuovono il divenire alle apparenze. Cielo e terraImmersi nel mare di Velia, senza veste sacrificale, purifichiamo il corpo alla leggenda dell’estate. Sacerdoti senza voti espiamo con pratiche borghesi i misteri della vita. Al cielo sopra di noi solo gli occhi invocano il sereno e la forza di sole che imbruna la pelle. Null’altro al cielo. Miti in successione affollano la terra e s’agitano tra frange d’alghe ed acque senza fondo a ripetere con vociante rito i nuovi bisogni, nell’alterna sequenza del tempo. ContinuitàIn fila fuori stagione, pazienti formiche da sempre modello operaio senza movimento, trascinano secchi vinaccioli scampati alla violenza del torchio. Il sofferto peso allo strascico conferma per diversità il rosario della vita qui sconsolato e vero altrove una mutua preghiera che canta cori di osanna. Il lamento della terra è di stirpe non voce isolata per uso di sponda prossima all’interesse. Mani scarnificate deformi alla pressa o al montaggio ruvide di serchie raspano il quotidiano. Altre sudate e libere garanti impegnano i patti e li rinnovano a vista perché interpreti di mimica sanno spiegare il senso di parola. Navette di formiche di braccia prensili, esempio, non inventano le svolte della storia che si lascia spingere inerte come solito chicco spremuto. ContorniSparse in disordine foglie secche giallognole soddisfano capricci del vento in evoluzione prima d’addensarsi morbide coperte di strame. L’insolito fruscìo cadenza il passo frettoloso d’arrivo e cela insidie d’equilibrio con le mani sovrapposte a mantellare lembi di vestito. L’aria libera al gioco di correnti sevizia lo scoperto di pungenti fitte e livida s’abbuia a minacciar tempesta. Paesi di morta solitudine rincorrono sé stessi a cercar ombre parlanti per conservare la voce pur essa d’autunno in prestito a terre lontane. Tra monti e valli al letargo vanno vita e coscienza per stagioni e mesi, fino a ritrovarsi per incanto al sole, tra verdi foglie corredo di ghirlande che insaporano di umano la beffarda feria di agosto. ConversioneQuando il groviglio del quotidiano non trova scampo e travolge cuore e mente fino all’abisso, improvviso s’infiamma e tuona il vulcano dello spirito che incandescente magma rimesta e vomita fiele dalle gonfie viscere. Il fuoco e le sue lingue scoppiettanti traboccano e avvampano l’esterno, forza di erosione che frantuma e scintilla e diventa valanga senza scampo. Quando l’intreccio dei giorni è putrido pantano, il comodo ristagno è complice silenzio ed alleva e nasconde il vizio fecondo di far fruttare nel Campo dei miracoli. Con un coltello affilato squarcio i lacci della vita per non intrecciare reti e con bronchi da mantice soffio sulle vampe che, avide di sacrificio e senza pietà, mi convertono al vero. CrocoSplendide ninfee occupano vanesie, con la pompa della loro carnalità di foglie, specchi di acqua e di sole. Meduse di seducente figura incantano per trasparenti movenze in libera danza tra anemoni e coralli; matrone senza grembo indugiano molli nella tunica di vetro ed hanno scatto di nervi come cento molle compresse alla percezione di un segno. Freddi fondali oscuri labirinti o luccicanti superfici sono colonie di alghe prole di promiscuità che è meraviglia di specie di natura alla vista, da conservare come bene di scrigno per non far morire la vita. Un croco sfida la neve unghia l’asfalto e le sue barriere di catrame per non rinunciare alla luce. Un croco veste la nuova stagione con abiti di festa. Esulta la natura al nunzio perché torna primavera. DesiderioSono farfalle o cieche falene che mi danzano intorno sbandate per scegliere la spalla a riposo? Immobile m’accontento del gioco del lento ondeggiare senza volo. S’alzano poi girano, in morbidi volteggi, mosse ripetute a strappo o d’improvvisa decisione. E mi inebrio di natura. Non sono farfalle sfingi e chimere mostri senz’ali con coda di serpente che m’interrogano sulla vita con ossessione e mi accoltellano d’impazienza. Amo la faccia pulita, l’anima di donna e il suo desiderio di carne. E allora vivo! DicotomiaCon forza di braccia e qualche nuova convinzione rimestiamo la calce per fissare le pietre della Casa comune, zoccolo rugginoso di muri in rovina vivi di stecchi appuntiti. A farsi capire basta la canna del fucile, erede di ragioni antiche e vecchi pregiudizi; ingenuità primitive fanno gridare alla guerra, lupo e sciacallo di caccia. Una lancia squarcia l’orgoglio e il ventre di donna e v’innesta fecondo il sangue di vita che gemma e ribolle al primo vagito. Amore e odio, angeli e demoni possibili di ogni distanza, sono all’estremo foibe senza fondo. DissensiNella mia terra crescono alberi con gemme malate e frutti marci prima della pienezza di stagione. Al macero per destino vanno quanto per altri è primizia, segno riverito di provvidenza. Alla natura sudori inutili consacrano le semenze e le fatiche del giorno provvide d’attesa. Dalle mie parti le piante colano resina e invogliano vampe di fuoco, lingue di purificazione e d’incenso. Altrove gli uomini raccontano storie continue di fortune e meraviglie per grembi fecondi, immuni alla disperazione. Frammenti di terra sono frontiere di potenza, isole o continenti di lingua e razza prossimi o alla deriva. DissolvenzeC’è un fiore che mi somiglia per nome. E se il myosotis affida al ricordo fastelli di sentimento, da custodire con fuoco vestale, posso credere nella vita. Ma il rododendro non mi dà pace, né mi lusinga la vista per grazia di rosa o di altri colori; è seme tra pietre di roccia che mi porto dentro con segni di differenza. E nel pensiero in subbuglio cerco concimi di speranza per prepararmi la terra alle nuove semine. ElegiaOgni giorno eleviamo al sordo cielo canti sparsi di preghiera. Sono serti di parole messe in fila con cura o liberate al momento dalla morsa della bocca che sa recitare modulando la gola un mosaico credibile di possibilità. Tessere in riproduzione sono immagini di forme e colori, arazzi d’idee vive alla luce del sole o confuse e smorte alla paura. Ma spontanee logiche alla rinfusa diventano misura di sale di pensiero. Noi uomini conosciamo a memoria elenchi di parole e la loro conveniente destinazione. EpìforaSono squarci alla tomaia da rigenerare le crepe e i buchi che sfondano, tigne dell’incomprensione, la sagoma del paese-stivale. Orme di varia misura di nudo calcagno estremità per natura facili all’usura fanno sopportare al piede l’odiato callo. Il camminare insieme s’arresta al fosso della Lega malvagia che tarla la forza d’un secolo e le comuni barricate, erette su nuove trincee. L’altra fede è nido di vipere che ingrassano di veleno a fronte d’infette sanguette, vitigni sterili avidi di salasso. Le prefiche intonano per professione canti funebri alla morte che invece nasconde la falce e il suo trionfo. EstasiTra sbuffi di fumo correnti d’aria sono mantici per respirare. Nel silenzio passi felpati calpestano ciuffi d’erica o s’abbandonano distratti per una sosta sull’erba medica. Le mani spremono il mentastro povero d’essenze e si tingono di verde come carta assorbente. E non si fermano prima di scorgere il finocchio selvatico succo aromatico da masticare come frutto orientale. Ma in due il cielo è parete di stelle e l’erba soffice giaciglio. Ai sussurri d’amore il respiro raccoglie per incanto il ritmo del cuore. FantasieNostalgie, cose semplici d’innocenza serrate con cura nel ricordo da aprire con chiavi di sogno, mi siete dentro le pieghe segrete. E quando l’attimo di solitudine vi libera la fantasia corre con ali d’illusione, con ingenuità di passato fino al presente. Nel prosieguo mi consolano anticipi di futuro, fragili ragnatele per un mondo a misura, che fremono alla vita finalmente languida ma, di cose negate, possibile. E quando magia di ricordi si rompe e torna al vero, altre speranze compagne di delusioni continuano e, rincorrendosi, combinano nell’immaginario nuovi e vecchi desideri. Filo spinatoSiamo un limite. Internati tra nebbie e ombre proviamo a farci compagnia. Anche le parole buone per capire diventano definizioni incrociate da sciogliere. L’umanità respira a fatica e soffia fiato nella bocca per rianimare, ma poi conserva scorte di veleno e mefite per soffocare in silenzio. Le pazzie slave sono macchie di sangue scuro nell’olio di Babilonia ma Baghdad conserva con fascino di mistero sogni di favola, dannati nel ventre di Somalia gonfia di fame. Cingiamo palizzate a difesa e intanto stendiamo a più strati, su un filo spinato lungo e spesso, catene di solidarietà con anelli d’indifferenza. FotogrammiVecchi, lucertole al sole strisciano a fatica per brevi cammini con gambe pesanti arcuate. Cullano il passo ondeggianti alle mareggiate della vita o canne storte si raddrizzano per poco alla furia del vento; qualcuna cade e si spezza alla prima tormenta, altre resistono ancora con attorciglianti radici. Vecchi, siete l’immagine delle prime rughe che poco m’importano ma che già avanzano verso il futuro inesorabili con poca introspezione e qualche incerta speranza. FraternitàFraternità, grani di spighe nati dallo stesso seme isolati da setacci di trebbia, neghi la stessa origine e t’affanni a costruire uguaglianze. Maledici le insidie delle stoppie tagliate a dismisura dalla falce e rifiuti lo stelo comune che nasconde la pula pungente e divisoria. Insegui ombre di diversità e predichi sfacciata tregua e comprensione ma conservi perfida e bugiarda mire di servitù. Fraternità sei voce doppia che mente: un desiderio consumato e nuovo che mantiene buio il giorno e sveglia, dal sonno , la notte. Graffiti di terraPer me esisteva solo il Sud: quello di case basse e panni stesi di stazioni senza fermate dove la voce era lamento e il giorno una bestemmia di pane. Serti di edera fragili e cocciute calamite di vita inarcavano gemme da terre d’arsura, percorsi di carovana di donne in fila alla fontana con orci di creta e rame a fare dispensa. Ogni altro paese era una scelta per sorte adottiva e matrigna, asilo all’esilio del grembo negato. Un nome straniero approssimava bocche nella pronuncia e nella diversità trovava principio d’invidia e confini d’indifferenza. Anche i segni di dentro, gramigna invasiva, conoscevano storie incresciose che i nuovi tempi, con buona memoria, ripetevano ai margini di una città e della sua fabbrica di gente. L’uomo è ancora un limite. E la coscienza da scomodare è un panno lussuoso sgargiante o modesto ma non più sulla pelle. E’ moda riconvertita che s’adatta all’uso, buona per ogni occasione. Il Sud resta un fallimento un binario tronco a suo dispetto e riannoda alla cavezza stanchi pentimenti per un’antica veglia. InnocenzaHo raccolto madreperle e gusci di scialbe conchiglie per sentire nel vuoto la profondità del mare. Ho coltivato sentimenti per sospiri d’amore bastevoli a trastullare fantasie e corpo di ogni possibilità. Ascolto le voci di torno con fare sospettoso, stanco di prestar fede ai luoghi comuni. Di tutto non mi resta che conservare impressioni e ricordi, foto incollate con cura su fogli d’albo trasparente che lentamente e per sempre si scolora. L’eterna parabolaVorrei fermare gli anni e legarli con catena di tempo per non perdere il gusto dei giorni e le cose che mi sono negate. Fremo a quanto mi spetta vela senza vento in secca o alla deriva con toppe di pazienza e squarci nella trama. Innalzo teli di speranza legati con fili di promesse e aspetto un vento qualsiasi per cominciare il viaggio. Piccoli bastimenti al traino s’alternano a farmi compagnia e poi disegnano la scia che subito si ricompone. Compro e vendo speranze da anni e da gente impietosa che mi negano il tempo perduto e mi tengono, incerto e possibile, il giorno che viene. Magia di neveDistese di bianco deserto stancano l’occhio alla vista uniforme di campi bruciati e scheletri di alberi compagni di lupi. Frammenti di cielo cadono, attese moine per un gioco o sferze maledette per chi nella tormenta sprofonda disperso, naufrago al buio. Il gelo raggruma le forze e il sangue impazzito torna a ribollire al ritmo a un filo di fumo a un fiato di voce. Brividi e paure si sciolgono, senza segreti, quando l’arcobaleno luminaria di cielo disegna colori e nell’aria ricomincia la vita. MalanimoBastimenti di carichi umani in fuga clandestina inseguono il viaggio di Ulisse. Profughi mendicanti mercenari di fame segnati dal nuovo Olimpo rifiutano nostalgia di terra di Durazzo e Tunisi e vanno pirati disperati all’assalto di un porto. Naufraghi per sirene di pubblicità televisivamente felici s’avvolgono in coperte di cartone che solo il mal di Lega rispedisce a mare indifferente come ogni altro rifiuto di città. MalìaC’è un segreto antico ormai senza misteri, nascondermi nella tua pelle di velluto che dà corpo al sogno, insieme trastullo e spirito di carne a deserti o raccolti di continue voglie. MaschereUn po’ di cipria e un naso finto cambiano la faccia in smorfia e procurano la risata. Cose buffe essenze di fragilità fanno dimenticare il vero e sono rimedio alla noia così uguale quanto il dolore e l’angoscia di tristezza. Stravaganze di panni e colori sgargianti di marionetta o dell’uomo in caricatura danno sapore ai giorni. Ma guardarsi per immagine pagliaccio dentro si è maschera al contrario senza ironia, uno sbuffo di cipria tra qualche finzione di un’elegante inutile smorfia. MetamorfosiIl Sud è un pensiero fisso, odore di croste secche e rivoltate fiori al balcone Madonne in processione scene di fatture e sangue di danze tarantolate e in più il richiamo della madre-terra, antico possessivo e santo. Il Sud è l’esercito dei senza, il treno del sole per nuovi vagoni da campi di filo spinato, un panno sporco consumato vera libertà di miseria e di stessi ideali. Il Sud è un continuo esame del sangue, con mille morbi e cento consulti e lutti ed inutili cure, infetto in tutto e nel nulla, ma sempre infetto. Il Sud è l’ultima cena di una comunione fallita, benedetta di vino acido e pane raffermo. Il Sud è il peso morto, una bisaccia vuota da colmare, una questua della vergogna per chi non sopporta le origini, il cantato accento e la vita concubina. Il Sud è una maledetta ossessione: chi è chiuso da cancelli di solitudine vorrebbe correre fuori per respirare a pari l’idea e nei bronchi. Il Sud non m’ispira parole né ritmi di poesia di mestiere di malinconiche pruderie di condita speranza per non morire dentro e fuori. Il Sud mi lega con funi di dolore alla sua croce di maldicenze, di loglio che ammorba e si distingue, perché la parabola del comune Vangelo si conservi la più prossima e vera. MimesiOrmai non stringo le mani, né mi segno di croce nei vuoti di giorno e nelle ombre pesanti, né all’improvviso quando disperazione mi vince. Fermo al ginocchio rigido alle pieghe che sa puntellare la terra con pratiche di pentimento vorrei risolvere a pari quanto dentro mi cruccia. Il petto non duole né aspetta al ritorno il colpo di pugno navetta per senso di colpa da scontare con rate di vita. E, invece, vanesio si gonfia di sfida. Quando mi rivolto insonne tra improvvisi opprimenti sudori e il male il dolore sembrano morte, una preghiera incompleta un salmo stonato sono pace, alla coscienza, nell’alternarsi di un attimo. MirabiliaEra un gioco di stagione. La metamorfosi del gelsomino dai piccoli fiori bianchi carichi di profumo prima di mutarsi in altri grandi e rosei era, oltre la bella vista, una risposta alla fame. Altre mani coglievano il bergamotto che cadeva al tatto maturo o alla forza della torsione per riempire le sporte. Altre mani affidavano all’ulivo benedetto, come nella settimana santa, certezze di vita e la discussa paga. Anche l’amore sapeva di quell’essenze ma senza inebriare per assuefazione dei sensi al ripetuto contatto dei giorni. Rami di mimosa intrecciarono promesse maritali o d’un momento, per diversità di storia.
confondiamo in uno il nostro respiro. MiserereMiserere di questa terra, profumo di acacia ricca di pruni selvaggi e di rovi contorti, nido di passeri e rondini covate di tante stagioni. Ora anche il falco, scacciato dai monti sovrano, soggiorna obbligato in cattività con avido becco. Miserere della mia gente povera di sensi alla voce di lupara che illumina la notte di vampe di fuoco e oscura il giorno col nero di lutto. Miserere di chi sforza la voce e intriga ragioni per impasto di leghe in successione, per sporcarsi la faccia d’inutili imbrogli e la coscienza persa alle pratiche di fede. Miserere di me, che mi consolo di un canto o di un verso per forza d’amore per non dannarmi il tempo che resta in qualche convinta pazzia. ModelliLontana è la voce dell’avo annoso tiglio secolare con segni di sferza alla scorza paziente cantore per stirpe di storie di santi e briganti e di spiriti maledetti. Al ricordo ha note più intense la nenia di Leontina strano nome di donna privo di storie austere ma referente unico di fiato materno ameno di cantilene di folletti e geni custodi spiritati di ricchezze. Racconti d’ingenua fattura insufficienti al tempo non durano, né seguono i sogni bastarde folle prove di pubblicità. Il pensiero procura sgomento sa di far torto al fisso racconto paterno, un romanzo di cose vissute di talpe assoldate a rifare gallerie di acquedotti e frane. Garzoni di Vulcano, lenti senza fibre legati mani e schiena al mantice, martellano ferro e incudine per non inghiottire a digiuno bocconi di aria e saliva. Il mondo con le sue albagìe è moderna favola rock, una storia da trovare in cerca di profezia. Supplice cantore contro l’abitudine provo, alla follia, nuove possibili verità. MomentiSemi di papavero e canapa strozzano il becco del passero e sono polvere di desiderio ai sensi. Sorsi di bacche spremute diventano calice di comunione senza penitenze e danno coraggio alla voce libera di profezia. Sospiri di un amore vero o in prestito sono intrecci di sogni e qualche segreta meraviglia. Qualche grano di polvere un goccio di essenza e il segreto abbandono sono pegno ai giorni che mi pesano uguali di noia, indifferenti agli occhi e alla parola. Oltre il muroAvere un golfo dentro di noi come barriera di mar Rosso chiusa alle rivalse degli uomini e ai loro coltelli affilati, è una guerra che non fa storia. Avere un cuore che brucia, inesauribile pozzo di petrolio, è sprofondare all’inferno senza peccati. A volte la vita è un muro di cemento sorda a ogni preghiera, che resiste trent’anni e non lascia passare una breccia. Poi, il crollo! PalpitiTu sei un insieme di cose confessate con un filo di voce o preparate con cura e mai dette. Tu sei un desiderio di parole inventate a caso o da mettere in rima per farne canzoni. Ma quando pensiero fisso riesci a deludere ed esaltare, diventi tormento e voglia di poesia. Sei molto di più quando, con desiderio, mi accendi l’anima. ParodiaPercorrere stanze di Minotauro, col fiato sospeso pronto a sfidare l’ignoto e le sue resistenze, è fatica della mente e degli occhi. Un angolo, uno spuntone sono riparo e insidia per chi non può usare la logica a difesa delle sue ragioni. Desiderio di luce ansia di respiro, urgenze da soddisfare a boccate, affrettano il passo e la gravità del rischio. Al filo di Arianna, sincero esclusivo o da dividere, leghiamo con nodi alla vita trecce di corda scardata dalla tigna, per complicità di donna e delle sue virtù di ripassar la tela. Per un amoreNon aspetto l’avvento di stagioni, né complicità di luna per confessare a una donna i silenzi e le attese del cuore. Libertà d’amore non serra i cancelli, né soffre le scaglie di cardo e di spine ma è giovane giunco adatto all’intreccio, è canna flessibile alla prova che resiste allo strappo. Parole d’amore estratti intimi di desiderio sono magie in disordine, messaggi d’intesa furtivi o manifesti da sempre compagnie dei sogni. Sguardi di donna sono trame di storie immaginarie, continue tentazioni del possibile da assicurare a sé. Per una donna che sorride sincera e mi conserva nel ventre la linfa della genesi nego verità e segreti e la forza del sangue che percorre e taglia strade di vene, geometrie che s’incontrano con altre esclusive a disegnar la vita. Quello che vorreiVorrei essere tuo: una dedica nel tempo come ogni giorno ha un santo, tutore di diversa protezione. Vorrei seguirti ombra e farti compagnia ovunque, per non maledire la solitudine. Vorrei fermare la tua corsa che il cuore non regge per il fiato corto al desiderio e alle tue frequenze alterne incomprensibili. Corri cervo o saetta e ti vengo dietro fino alla disperazione. Sfinito ripeto ogni volta nuove preghiere a te santa del peccato che mi appare l’unica liberazione. Grazia! Non negarmi la grazia. E sazio fino all’anima dentro la tua anima a nessuno cercherò con struggenti suppliche pietà di salvezza per assicurarmi l’ignoto. SaldiIn fila la più lunga sono binario di treno con incerta stazione d’arrivo. Apprendista di mille mestieri buoni a sopravvivere muovo occhi di sogni per conoscere il vero. E mi trovo con una bisaccia d’illusioni, gonfia di belle parole e di putridi vizi nascosti. Merce invenduta stantia e guasta, campione senza valore non servo alla convenienza. E fisso il mio prezzo al saldo, scarto di diverse stagioni, pur di valere qualcosa. Su banchi di fiera mi ritrovo folla in disordine, inutile mostra alla scelta delle mani. Allora, subito ricompro me stesso. SimboliFiori d’acacia sono grappoli di colore. Libertà di profumo si diffonde nell’aria e la natura respira con sensi di meraviglia. Archi e file di rami cornici di paesaggio valgono cose di città vanesie e intriganti per artificio degli uomini. Pastine di sambuco, presuntuosi merletti bianchi o vinaccia, scoraggiano raccolte serbando succhi amari midollo d’inutili mazze. Spontanee macchie a distanza sono famiglie di periferia e di erba selvaggia. Rami di sambuco e acacia provano impossibili innesti in fantasmi di parità, ibride comunioni di pace che rifiutano la tesa di fune alle nuove croci. SintesiQuanto ogni Sud di questo mondo si somiglia. Una somma di senza raccoglie sempre niente e non cambia la storia pratica per quello che conta non certo per altre virtù. E non solo affama per povertà di terra ma spezza la schiena e acceca per forza di partito, secondino di chiavi e di ogni pensiero chiuso alla luce del giorno. Una poesia vorrebbe a pareggio col sospiro con una parola buona con la voce forte cambiarsi dentro e la faccia. Ma una pagina ancora non è modo di vivere e si conferma storia di carta che al sogno confessa per sua libertà colpe e illusioni in un’interminabile serie. Soffi di ventoFamiglie, compagnie disarmate sgranate come chicchi di mais, borbottano misteri di dolori, millepiedi storditi dispersi ad ogni soffio di vento. Voci di mormorio fastidiose fino al rumore cicalano all’intrico; cornacchie spaventate a schiera o solitarie svolazzano stridule nell’aria perdendo penne e fiato. Poche trovano rifugio alla prima fermata; la voce contenta è uno zirlo che non sdegna la sosta. Qualcuna, più avanti, cerca fissa dimora e affida al nuovo giudizio dei popoli l’umana intesa. Altre ingravidano incerte e figliano lontano dall’invidia feconda e dal chiasso smisurato. Un soffio inventa direzioni. E’ favonio di frutti maturo; è sferza di borea e scirocco che disperde la terra. E quando, insieme, gli otri di Eolo si sgonfiano e vuotano le case, ravvivano le vampe e il viso di maledetta sorda nostalgia. SoggettiSoffi di creta con l’ansia di conoscere, pellegrini senza scapolare cerchiamo pagine ispirate prenotate al botteghino di Broadway o in fila per un biglietto all’Opera, convinti di conoscere per trame la storia umana. Scene vere o inventate dialoghi di possibilità ci trovano interpreti di ruolo, protagonisti o comparse. Ognuno si porta cucito addosso il destino amico o maledetto di miserie, di un attimo meteora o forse immagine fissa sotto la luce del sole. Noialtri, nell’anonimia, siamo scarti di spettacolo, moltitudini senza contratto in cerca di qualcuno e di noi stessi. Così assistiamo all’intreccio partecipi esclusi estranei insieme, a significar la vita, ognuno per la sua parte. SogniUn libro di avventure da scrivere era il desiderio di vita negli occhi di ragazzo. Una conquista di terre, giardino di delizie con acque sorgive in cascata, ci faceva padroni e migliori degli altri uguali o colorati nella pelle. Una caccia al tesoro di marenghi e dobloni, sepolti in leghe di mari, riempiva gli occhi colmi di obbliganti bisogni. Al sorriso di donne acerbe o appena in fiore toccavamo il frutto di mille movenze nella forma e di diversi aromatici sapori. Quanti sogni ci accompagnano ancora: alcuni sfocati nei contorni, altri forti e nuovi che fanno recenti promesse e intanto aiutano a vivere. Nel disincanto. Sui gradini di pietraAmato, di un amore esclusivo chiamato per nome che ognuno si porta dentro e sulla pelle e diventa persona, non sei una stanca parola. Amato, racconti il tempo vecchie leggende storie appassionate grandi o misere di statura ma per te di uguale rispetto quando lo spirito in pena è voce di preghiera.
Amato, di un amore scontato da confidare con gesto manifesto o nascosto, confessi indulgente nella piazza di Nusco. Seduti sotto il Tuo manto Ti teniamo compagnia con poca santità e qualche leggerezza.
Amato, al sole e al vento con mano benedetta, ansioso aspetti chi parte o arriva custode nel ricordo del tuo sguardo di pietra.
Amato, da mille anni amato laddove terra è seme di pianta e dell'uomo, rinnovi promesse di sangue ai figli prodighi stanchi e sordi e con il senso dell'umano a pezzi.
Amato, da mille anni Santo prepari con cura il tempo carico ed incerto d'ombre per le continue sfide della vita, al nostro eterno. Te deumBenedetto sei agli dei con l’infula che ti cinge a corona la mediata virtù di nuovo santo. Santo tante volte santo consacrato al tempo ma non all’eterno hai voce di miele e, quando ti serve, denti di veleno. Messia venuto dal nulla come tempesta di vento, unto dai nuovi profeti testimoni di Bibbia borghese ed insieme corsari d’affare, sei santino di grazia e d’abuso. La voce intona “Te Deum” che vuoi sentirti cantare con cori di osanna come ultimo figlio di David. Gli altri contano poco indice e mucchio da raccomandare all’altare o al coltello. Capricci di perfida santità innalzano santuari d’ipocrisia ed immolano come angeli sterminatori. TrigneTrigne, bacche vermiglie mature ad agosto, punteggiavano le siepi dopo la stagione delle more. Aspre come fiele di croce tossiche da far torcere il ventre seccavano la pozza della bocca e col succo calmavan fame e sete. Avido incosciente boccone masticato con smorfia di acidità fu pasto e sollievo alla mia adolescenza. Trigne, non più voglia di frutti, sono colori di natura in mostra ai margini della strada dove più volte, per anni, il giorno fu scommessa di pane e la vita un continuo desiderio di cose, come sempre. UmoriGuardare le stelle e riconoscere nella disposizione degli spazi di luce il segnato cammino e dare risposte certe alla propria storia di naviganti. Ma quando nebbia e nuvole s’impastano uniformi di grigio e di nero è una sfida insicura affidarci alla bussola e leggere la profondità del buio. Con occhi fissi al cielo o partecipi nel vuoto cerchiamo risposte urgenti alle prove della vita, per non naufragare. Svagati insolenti assorti facciamo nello scandire del tempo la nostra parte di testimoni falsi o credibili ai diversi continui aspetti del vivere che cela e manifesta per comode simbiosi grani d’incenso e fumi di verità. Una fiaba comuneUn arco di pietra, galleria tra due strade di paese una pubblica l’altra vicinale, diventava inatteso belvedere per chi si affacciava alla vista. Quando le ombre seguivano al sole l’azzurro diventava cupo e l’uniforme, come macigno della montagna del Toro, serrava a cancello il buio e le incerte distanze. D’estate vi danzavano lucciole e vi saltavano grilli con voli radenti di pipistrelli che trovavano asilo tra edere e crepe di un vecchio casale diruto. Sotto l’arco dai gradini a loggia le donne ruotavano il fuso o incrociavano i ferri per tramare la lana a ragazzi che nel cortile provavano giochi innocenti e le prime malizie. Quell’arco era piazza e quartiere per un modo scritto in una fiaba dove Cenerentola non ha visto Fatina e le zucche e i sorci non hanno trovato magie. Quell’arco di terra conserva il desiderio di cose i pochi ricordi e mi consegna nel sogno il passato e il prossimo in moto perpetuo. VaneggioNei segni di aria e fuoco o in altro aspetto di acqua e terra per incidenza d’oroscopo cerchiamo anticipi di giornata profezie di vita a mille lire. Astri in movimento titolari di affinità e flussi sono oracolo borghese assoluto come certe verità. E l’uso si adatta alla varietà del tempo ingenuo o ammaliziato. Prima bastavano un ragno e la sua monotona fatica a tessere fortune e avversità in parabola, come indici di borsa; o ancora formicolii al polso a sinistra in entrata e all’altra mano in disavanzo erano avviso e travaglio. Da sempre, a segni estranei affidiamo le sorti della vita destinata a sopportare il caso e i suoi nonsensi. Voci di dentroSono sentimenti i semi dell’anima da concimare all’occasione. Modi di essere nel silenzio e nella parola fanno chiunque persona. Talenti e riserve, bisacce di provviste della vita per innocenza o malizia, sono fantasmi di sogni da combinare. Al desiderio tacciono e vivono al pensiero fino all’amore giurato. E tutt’insieme danno sapore ai giorni e disegnano attimi d’immenso, quando l’offesa non accontenta la rabbia e il fallimento non porta alla fine. Sensazioni e voglie scuotono la pelle, l’istinto e le frequenze del cuore, perché fermare i sentimenti nella strozza è negare voce alla poesia. |