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RACCOLTA “ANTINOMIE E MASCHERE”

   

INDICE:  

Dedica

Introduzione di Francesco D'Episcopo

Prologo

A me stesso

Allucinazione

Amarezza

Antinomie

Apparenze

Cielo e terra

Continuità

Contorni

Conversione

Croco

Desiderio

Dicotomia

Dissensi

Dissolvenze

Elegia

Epìfora

Estasi

Fantasie

Filo spinato

Fotogrammi

Fraternità

Graffiti di terra

Innocenza

L’eterna parabola

Magia di neve

Malanimo

Malìa

Maschere

Metamorfosi

Mimesi

Mirabilia

Miserere

Modelli

Momenti

Oltre il muro

Palpiti

Parodia

Per un amore

Quello che vorrei

Saldi

Simboli

Sintesi

Soffi di vento

Soggetti

Sogni

Sui gradini di pietra

Te deum

Trigne

Umori

Una fiaba comune

Vaneggio

Voci di dentro  

A me stesso
supplice cantore d’illusioni
in un’eco senza voce

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Introduzione

 

Poesia come periferia

 

Non conosco il mestiere di vate
né l’esercizio di arpa e chitarra
per creare melodia.
Sono cantastorie di vita
malata di uguale
che inseguo a pari
tra gente comune
sedotta nel corpo e nell’anima.
(Prologo)

 

E’, questa, la professione programmatica di poetica, che Giuseppe Iuliano affida al prologo di questa nuova raccolta di pensieri e parole, che rimuovono, ab imis, lo spettro, sempre all’erta, di una sublimità consolante per sprofondare nelle sabbie mobili di una umanità viva e cocente, carica di antinomie e di allucinazioni. Una poesia, allora, che non vuole piacere, ma intende affidare la propria sorte persino alla sgradevolezza, che la verità racchiude, quando è chiamata a confrontarsi con le molteplici maschere, che la realtà impone:

 

Alla voce di dentro
stridente e sgradevole
affido la forza di gola
i pensieri e la mente.
Sfido chiunque a soffocarli;
dovrà strapparmi i denti e l’anima.
(Prologo)

 

Un radicale pessimismo è all’origine di una parola, che afferma e nega e se stessa. Nel tutto e nel niente, come ricorda tra l’altro un capolavoro della narrativa meridionale, Il resto di niente di Enzo Striano, è riposto il destino di una presenza provvisoria e provocatoria: quella che il Sud custodisce nei profumi e negli afrori della sua cultura e della sua storia.
Nonostante tutto, Iuliano non può che continuare a spremere il succo del proprio essere dall’antropologia di un quotidiano, che appartiene alla sua cultura e alla sua storia da sempre: dall’infanzia fiabesca alla maturità maledetta.
Nel continente meridionale, che isola e accomuna avide esistenze, le piante crescono tra le pietre, assurgendo a simbolo di un seme, che prolifica miracoli tra difficoltà e dissolvenze.
La stessa parola diviene cruciverba di una condizione, sospesa tra cielo e terra, tra meraviglia e stento del vivere; una vela rotta da secoli di pazienza (o impazienza):

 

Fremo a quanto mi spetta
vela senza vento
in secca o alla deriva
con toppe di pazienza
e squarci nella trama.
(L’eterna parabola)

Il problema, comunque, da antico e ciclico, diviene coinvolgente e contemporaneo, nel crescendo di un consumismo galoppante, che si risolve in un grottesco carnevale. La complessità delle contraddizioni, che la desolante doppiezza comporta, sortisce l’esito abnorme di aborti esistenziali, che sfiorano la soglia di una beffarda follia.
La poesia, ancora una volta, si segnala come antidoto a una dannazione dell’anima, che minaccia costantemente chi ha scelto la periferia come osservatorio privilegiato dell’umano sopravvivere. In questa poesia-periferia si raggomitola il bandolo di una possibile profezia, capace di sconfiggere una pericolosa pazzia.
Le possibilità di sopravvivenza sono racchiuse nella costanza di una vocazione fisicamente meridionale, all’interno della quale rivendica i suoi diritti all’amore, al desiderio, a una natura vissuta come paesaggio interiore e insostituibile, il mito-realtà della poesia.
Il tutto, mentre il niente della finzione continua a turbare i flussi di una coscienza, chiamata a misurarsi con gli enigmi di una società senza verità. Gli scombussolamenti, tipici della tradizione simbolista, conquistano nel corpus di Iuliano uno spazio di concretezza e di simultaneità espressive.
Resta, tuttavia, aspra, avida, la ciclica disillusione di una scrittura, capace di cambiare il mondo:

 

Ma una pagina
ancora non è
modo di vivere
e si conferma storia di carta
che al sogno confessa
per sua libertà
colpe e illusioni
in un’interminabile serie.
(Sintesi)

 

Ma una delle inconciliabili antinomie risiede proprio nella difficoltà di conciliare l’odio e l’amore di un mestiere, quello di scrittore, che si maledice e salva nella cosciente incoscienza di una parola da contendere tra angeli e diavoli.
Le “voci di dentro”, di eduardiana memoria, tornano a far sentire il peso e la leggerezza di una presenza non effimera, di un’assenza svagante, che le parole della poesia colmano di disillusioni e di speranze, esorcizzando il demone di quel pessimismo di fondo, al quale si è fatto riferimento all’inizio.
Ed è soprattutto nella fermezza di una comune antropologia, che l’assenza si riempie di presenza, come nel richiamo, carico di partecipazione umana, alla protezione di un santo amico, al quale si consacra la storia alternativa di un paese del Sud, che rivendica la centralità della propria periferia. E’, questo, uno dei miracoli che può compiere la poesia!

 

Francesco D’Episcopo

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Prologo

O Musa

conservami la gloria del canto

da sempre ispirazione esclusiva

del tuo nome divino.

Sono poeta al contrario.

Non canto virtù e gesta

e folli amori

di dame e cavalieri

prossimi a giostre e crociate,

né mi consolo

di buoni sentimenti

vivi di scelte parole

nuove di vocabolario.

Non conosco il mestiere di vate

né l’esercizio di arpa e chitarra

per creare melodia.

Sono cantastorie di vita

malata di uguale

che inseguo a pari

tra gente comune

sedotta nel corpo e nell’anima.

 

Alla Musa

non chiedo protezione

di diventare grande

per la comoda strada

di Minnesinger.

Estranea

non mi lusinga la grazia

del profeta di mestiere

di astrazioni custode.

 

Alla voce di dentro

stridente e sgradevole

affido la forza di gola

i pensieri e la mente.

Sfido chiunque a soffocarli;

dovrà strapparmi i denti e l’anima.

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A me stesso

Siamo moltitudine.

Affannati corriamo scalzi

o con scarpe

e ci sgomitiamo

per ristrettezza di spazio

fino alla caduta.

Spiccioli di continenti

nella divisione continua

siamo distanti

isole senza approdo

tra oceani d’indifferenza

nell’assalto di venti e maree.

Soli, grani di rosario

confusi dal senso di colpa

e da impulsi coraggiosi

viviamo crescenti solitudini.

Nel silenzio

troviamo castelli di fantasia

e ragioni di ottimismo

necessità di compagnia

ad ogni percorso.

Ansie di verità

non consentono soste

e vestono il sorriso

all’occasione

di maschere comode

buone a legittimar la vita.

A me stesso

devo per forza

una cosciente complicità.

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Allucinazione

Nebbie di fuliggine

affumano e inchiostrano

l’allucciolio del giorno.

Ombre vaganti o fisse

hanno la vista confusa

già in debito di gradi

per immagini incerte sfocate

e che per lo sforzo di mira

lentamente s’accecano.

Astinenza d’eroina

è voglia di succo e miele

e di paradiso da tagliare

in zolle di bianco mistero

da covare in nidi di vespe;

furtiva lesta suicida

rompe arnie e favi

e con gli aghi piantati

a trasfusione

nella linfa e nello spirito si caccia.

Parola contraria

ha forza

di barriera al vento

che si perde al soffio

e non trova rimedio al veleno,

reliquia stretta i dose

tra le pieghe,

venerata nel rito dei serpenti.

Digiuni di continua quaresima

sono rinuncia

ai recinti del male

e alle visioni da voler provare

per ritrovarsi nella fuga

che svende, al prezzo della vita,

schegge di paradiso e le sue pietre.

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Amarezza

A volte faccio la conta

non per virtù di cristiano

come indugio serale

all’esame di coscienza.

Impulsi

sono affanni del momento

di salvare l’invisibile

bisognoso di indulgenze

e di scontare peccati.

Ma il commesso

mi rende stranìto

rispetto al subìto,

non per desiderio

di rifarmi un’innocenza

impossibile

in questo tempo

di borghese indifferenza.

Anime sporche

affollano i giorni

e diventano spinte ideali

molle compresse in negativo

per legittimare l’uso

del quotidiano.

Ed io cellula persa

muovo con la folla

a litigare sul divisibile

o a contentarmi di poco

e di parole giuste

che dalla notte dei tempi

danno il premio di niente.

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Antinomie

Sui tetti l’ardesia

respinge a rifiuto

le vampe del sole

e quando l’acqua s’infila

a scariche fitte

o tintinnio di grandine

è comoda impeciata.

Sui muri

immagini sante

e stampe incorniciate

sono privati desideri

pietà per i vecchi

fuga dei giovani,

ognuno pronto

al suo lungo viaggio.

Dentro, l’idea

sogna e si dispera

e quando s’apre

è scatola vuota,

confezione di paglia

che mal s’adatta al rango

di spaventapasseri

o di uguali immobili

comparse.

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Apparenze

Tenere come punto d’arrivo

l’ideale

non è più costante

come un tempo.

Maschere

figure d’opportunismo

non rischiano la faccia

né spazi di convenienza

e s’adeguano

in continua metamorfosi

per logica deduzione

al compromesso.

La finzione

si muove a regolo

e scruta gli angoli

oltre le misure

generosa di misteri

di nuovi e vecchi comandi,

pronti all’uso

come conserve sottovuoto.

 

All’occasione

impastiamo di carne,

con fare obbligato,

marionette di comodità

assenti sudice razziste,

voci e demoni

disponibili

che smuovono il divenire

alle apparenze.

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Cielo e terra

Immersi

nel mare di Velia,

senza veste sacrificale,

purifichiamo il corpo

alla leggenda dell’estate.

Sacerdoti

senza voti

espiamo con pratiche borghesi

i misteri della vita.

Al cielo

sopra di noi

solo gli occhi invocano

il sereno

e la forza di sole

che imbruna la pelle.

Null’altro al cielo.

 

Miti in successione

affollano la terra

e s’agitano

tra frange d’alghe

ed acque senza fondo

a ripetere

con vociante rito

i nuovi bisogni,

nell’alterna sequenza del tempo.

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Continuità

In fila

fuori stagione,

pazienti formiche

da sempre modello operaio

senza movimento,

trascinano secchi vinaccioli

scampati alla violenza

del torchio.

Il sofferto peso

allo strascico

conferma per diversità

il rosario della vita

qui sconsolato e vero

altrove una mutua preghiera

che canta cori di osanna.

Il lamento della terra

è di stirpe

non voce isolata

per uso di sponda

prossima all’interesse.

Mani scarnificate

deformi

alla pressa o al montaggio

ruvide di serchie

raspano il quotidiano.

Altre sudate e libere

garanti impegnano i patti

e li rinnovano a vista

perché interpreti di mimica

sanno spiegare

il senso di parola.

Navette di formiche

di braccia prensili, esempio,

non inventano

le svolte della storia

che si lascia spingere inerte

come solito chicco spremuto.

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Contorni

Sparse in disordine

foglie secche giallognole

soddisfano capricci del vento

in evoluzione

prima d’addensarsi

morbide coperte di strame.

L’insolito fruscìo

cadenza il passo

frettoloso d’arrivo

e cela insidie d’equilibrio

con le mani sovrapposte

a mantellare lembi di vestito.

L’aria libera

al gioco di correnti

sevizia lo scoperto

di pungenti fitte

e livida s’abbuia

a minacciar tempesta.

Paesi di morta solitudine

rincorrono sé stessi

a cercar ombre parlanti

per conservare la voce

pur essa d’autunno in prestito

a terre lontane.

Tra monti e valli

al letargo vanno

vita e coscienza

per stagioni e mesi,

fino a ritrovarsi

per incanto al sole,

tra verdi foglie

corredo di ghirlande

che insaporano di umano

la beffarda feria di agosto.

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Conversione

Quando il groviglio

del quotidiano

non trova scampo

e travolge cuore e mente

fino all’abisso,

improvviso s’infiamma

e tuona

il vulcano dello spirito

che incandescente magma

rimesta e vomita fiele

dalle gonfie viscere.

Il fuoco

e le sue lingue scoppiettanti

traboccano

e avvampano l’esterno,

forza di erosione

che frantuma e scintilla

e diventa valanga

senza scampo.

 

Quando l’intreccio

dei giorni

è putrido pantano,

il comodo ristagno

è complice silenzio

ed alleva e nasconde

il vizio fecondo

di far fruttare

nel Campo dei miracoli.

 

Con un coltello affilato

squarcio i lacci della vita

per non intrecciare reti

e con bronchi da mantice

soffio sulle vampe

che, avide di sacrificio

e senza pietà,

mi convertono al vero.

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Croco

Splendide ninfee

occupano vanesie,

con la pompa

della loro carnalità

di foglie,

specchi di acqua e di sole.

 

Meduse

di seducente figura

incantano

per trasparenti movenze

in libera danza

tra anemoni e coralli;

matrone senza grembo

indugiano molli

nella tunica di vetro

ed hanno scatto di nervi

come cento molle compresse

alla percezione di un segno.

 

Freddi fondali

oscuri labirinti

o luccicanti superfici

sono colonie di alghe

prole di promiscuità

che è meraviglia

di specie di natura

alla vista,

da conservare come bene

di scrigno

per non far morire la vita.

 

Un croco

sfida la neve

unghia l’asfalto

e le sue barriere di catrame

per non rinunciare alla luce.

 

Un croco

veste la nuova stagione

con abiti di festa.

Esulta la natura

al nunzio

perché torna primavera.

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Desiderio

Sono farfalle

o cieche falene

che mi danzano intorno

sbandate

per scegliere la spalla

a riposo?

Immobile

m’accontento del gioco

del lento ondeggiare

senza volo.

S’alzano

poi girano, in morbidi volteggi,

mosse ripetute a strappo

o d’improvvisa decisione.

E mi inebrio di natura.

 

Non sono farfalle

sfingi e chimere

mostri senz’ali

con coda di serpente

che m’interrogano sulla vita

con ossessione

e mi accoltellano

d’impazienza.

 

Amo la faccia pulita,

l’anima di donna

e il suo desiderio di carne.

E allora vivo!

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Dicotomia

Con forza di braccia

e qualche nuova convinzione

rimestiamo la calce

per fissare le pietre

della Casa comune,

zoccolo rugginoso

di muri in rovina

vivi di stecchi appuntiti.

A farsi capire

basta la canna del fucile,

erede di ragioni antiche

e vecchi pregiudizi;

ingenuità primitive

fanno gridare alla guerra,

lupo e sciacallo di caccia.

Una lancia

squarcia l’orgoglio

e il ventre di donna

e v’innesta fecondo

il sangue di vita

che gemma e ribolle

al primo vagito.

Amore e odio,

angeli e demoni possibili

di ogni distanza,

sono all’estremo

foibe senza fondo.

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Dissensi

Nella mia terra

crescono alberi con gemme malate

e frutti marci

prima della pienezza di stagione.

Al macero

per destino vanno

quanto per altri è primizia,

segno riverito di provvidenza.

Alla natura sudori inutili

consacrano le semenze

e le fatiche del giorno

provvide d’attesa.

 

Dalle mie parti

le piante colano resina

e invogliano

vampe di fuoco, lingue

di purificazione e d’incenso.

 

Altrove gli uomini

raccontano storie continue

di fortune e meraviglie

per grembi fecondi,

immuni alla disperazione.

 

Frammenti di terra

sono frontiere di potenza,

isole o continenti

di lingua e razza

prossimi o alla deriva.

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Dissolvenze

C’è un fiore

che mi somiglia

per nome.

E se il myosotis

affida al ricordo

fastelli di sentimento,

da custodire

con fuoco vestale,

posso credere nella vita.

Ma il rododendro

 non mi dà pace,

né mi lusinga la vista

per grazia di rosa

o di altri colori;

è seme tra pietre di roccia

che mi porto dentro

con segni di differenza.

E nel pensiero in subbuglio

cerco concimi di speranza

per prepararmi la terra

alle nuove semine.

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Elegia

Ogni giorno

eleviamo al sordo cielo

canti sparsi di preghiera.

Sono serti di parole

messe in fila con cura

o liberate al momento

dalla morsa della bocca

che sa recitare

modulando la gola

un mosaico credibile

di possibilità.

Tessere in riproduzione

sono  immagini

di forme e colori,

arazzi d’idee

vive alla luce del sole

o confuse e smorte

alla paura.

Ma spontanee

logiche

alla rinfusa

diventano

misura di sale

di pensiero.

Noi uomini

conosciamo a memoria

elenchi di parole

e la loro conveniente destinazione.

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Epìfora

Sono squarci alla tomaia

da rigenerare

le crepe e i buchi

che sfondano,

tigne dell’incomprensione,

la sagoma del paese-stivale.

Orme di varia misura

di nudo calcagno

estremità per natura

facili all’usura

fanno sopportare al piede

l’odiato callo.

Il camminare insieme

s’arresta al fosso

della Lega malvagia

che tarla la forza

d’un secolo

e le comuni barricate,

erette su nuove trincee.

L’altra fede

è nido di vipere

che ingrassano di veleno

a fronte d’infette sanguette,

vitigni sterili

avidi di salasso.

Le prefiche intonano

per professione

canti funebri

alla morte

che invece nasconde la falce

e il suo trionfo.

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Estasi

Tra sbuffi di fumo

correnti d’aria

sono mantici

per respirare.

Nel silenzio

passi felpati

calpestano ciuffi d’erica

o s’abbandonano

distratti

per una sosta

sull’erba medica.

Le mani

spremono il mentastro

povero d’essenze

e si tingono di verde

come carta assorbente.

E non si fermano

prima di scorgere

il finocchio selvatico

succo aromatico

da masticare

come frutto orientale.

Ma in due

il cielo è parete di stelle

e l’erba soffice giaciglio.

Ai sussurri d’amore

il respiro raccoglie

per incanto

il ritmo del cuore.

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Fantasie

Nostalgie,

cose semplici

d’innocenza

serrate con cura nel ricordo

da aprire

con chiavi di sogno,

mi siete dentro

le pieghe segrete.

E quando

l’attimo di solitudine

vi libera

la fantasia corre con ali

d’illusione,

con ingenuità di passato

fino al presente.

Nel prosieguo

mi consolano

anticipi di futuro,

fragili ragnatele

per un mondo a misura,

che fremono alla vita

finalmente languida

ma, di cose negate,

possibile.

E quando magia di ricordi

si rompe e torna al vero,

altre speranze

compagne di delusioni

continuano

e, rincorrendosi, combinano

nell’immaginario

nuovi e vecchi desideri.

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Filo spinato

Siamo un limite.

Internati tra nebbie e ombre

proviamo

a farci compagnia.

Anche le parole

buone per capire

diventano definizioni incrociate

da sciogliere.

L’umanità

respira a fatica

e soffia fiato nella bocca

per rianimare,

ma poi conserva

scorte di veleno e mefite

per soffocare in silenzio.

Le pazzie slave

sono macchie di sangue

scuro nell’olio di Babilonia

ma Baghdad conserva

con fascino di mistero

sogni di favola,

dannati nel ventre di Somalia

gonfia di fame.

Cingiamo palizzate

a difesa

e intanto stendiamo a più strati,

su un filo spinato

lungo e spesso,

catene di solidarietà

con anelli d’indifferenza.

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Fotogrammi

Vecchi,

lucertole al sole

strisciano a fatica

per brevi cammini

con gambe pesanti

arcuate.

Cullano il passo

ondeggianti

alle mareggiate della vita

o canne storte

si raddrizzano per poco

alla furia del vento;

qualcuna cade e si spezza

alla prima tormenta,

altre resistono ancora

con attorciglianti radici.

Vecchi,

siete l’immagine

delle prime rughe

che poco m’importano

ma che già avanzano

verso il futuro

inesorabili

con poca introspezione

e qualche incerta speranza.

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Fraternità

Fraternità, grani di spighe

nati dallo stesso seme

isolati da setacci di trebbia,

neghi la stessa origine

e t’affanni a costruire

uguaglianze.

Maledici le insidie

delle stoppie

tagliate a dismisura dalla falce

e rifiuti lo stelo comune

che nasconde la pula

pungente e divisoria.

Insegui ombre

di diversità

e predichi sfacciata

tregua e comprensione

ma conservi perfida e bugiarda

mire di servitù.

 

Fraternità sei voce doppia

che mente:

un desiderio consumato e nuovo

che mantiene buio il giorno

e sveglia, dal sonno , la notte.

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Graffiti di terra

Per me esisteva solo il Sud:

quello di case basse

e panni stesi

di stazioni senza fermate

dove la voce era lamento

e il giorno una bestemmia di pane.

Serti di edera

fragili e cocciute calamite

di vita

inarcavano gemme

da terre d’arsura,

percorsi di carovana

di donne in fila alla fontana

con orci di creta e rame

a fare dispensa.

Ogni altro paese

era una scelta per sorte

adottiva e matrigna,

asilo all’esilio

del grembo negato.

Un nome straniero

approssimava

bocche nella pronuncia

e nella diversità trovava

principio d’invidia

e confini d’indifferenza.

Anche i segni di dentro,

gramigna invasiva,

conoscevano storie incresciose

che i nuovi tempi,

con buona memoria,

ripetevano ai margini

di una città e della sua fabbrica

di gente.

L’uomo è ancora un limite.

E la coscienza da scomodare

è un panno

lussuoso sgargiante o modesto

ma non più sulla pelle.

E’ moda riconvertita

che s’adatta all’uso,

buona per ogni occasione.

Il Sud resta

un fallimento

un binario tronco

a suo dispetto

e riannoda alla cavezza

stanchi pentimenti

per un’antica veglia.

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Innocenza

Ho raccolto madreperle

e gusci di scialbe conchiglie

per sentire nel vuoto

la profondità del mare.

Ho coltivato sentimenti

per sospiri d’amore

bastevoli

a trastullare fantasie e corpo

di ogni possibilità.

 

Ascolto le voci di torno

con fare sospettoso,

stanco di prestar fede

ai luoghi comuni.

 

Di tutto

non mi resta

che conservare impressioni e ricordi,

foto incollate con cura

su fogli d’albo trasparente

che lentamente e per sempre

si scolora.

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L’eterna parabola

Vorrei fermare gli anni

e legarli con catena

di tempo

per non perdere il gusto

dei giorni

e le cose che mi sono negate.

Fremo a quanto mi spetta

vela senza vento

in secca o alla deriva

con toppe di pazienza

e squarci nella trama.

Innalzo teli di speranza

legati con fili di promesse

e aspetto

un vento qualsiasi

per cominciare il viaggio.

Piccoli bastimenti

al traino

s’alternano a farmi compagnia

e poi disegnano la scia

che subito si ricompone.

Compro e vendo speranze

da anni e da gente impietosa

che mi negano il tempo perduto

e mi tengono, incerto e possibile,

il giorno che viene.

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Magia di neve

Distese di bianco deserto

stancano l’occhio

alla vista uniforme

di campi bruciati

e scheletri di alberi

compagni di lupi.

Frammenti di cielo

cadono,

attese moine per un gioco

o sferze maledette

per chi nella tormenta

sprofonda disperso,

naufrago al buio.

Il gelo

raggruma le forze

e il sangue impazzito

torna a ribollire

al ritmo

a un filo di fumo

a un fiato di voce.

Brividi e paure

si sciolgono, senza segreti,

quando l’arcobaleno

luminaria di cielo

disegna colori

e nell’aria ricomincia la vita.

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Malanimo

Bastimenti

di carichi umani

in fuga clandestina

inseguono il viaggio

di Ulisse.

Profughi

mendicanti

mercenari di fame

segnati dal nuovo Olimpo

rifiutano nostalgia di terra

di Durazzo e Tunisi

e vanno pirati disperati

all’assalto di un porto.

Naufraghi

per sirene di pubblicità

televisivamente felici

s’avvolgono in coperte

di cartone

che solo il mal di Lega

rispedisce a mare

indifferente

come ogni altro rifiuto

di città.

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Malìa

C’è un segreto antico

ormai senza misteri,

nascondermi nella tua pelle

di velluto

che dà corpo al sogno,

insieme trastullo

e spirito di carne

a deserti o raccolti

di continue voglie.

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Maschere

Un po’ di cipria

e un naso finto

cambiano la faccia

in smorfia

e procurano la risata.

Cose buffe

essenze di fragilità

fanno dimenticare il vero

e sono rimedio alla noia

così uguale

quanto il dolore

e l’angoscia di tristezza.

Stravaganze

di panni e colori sgargianti

di marionetta

o dell’uomo in caricatura

danno sapore ai giorni.

Ma guardarsi

per immagine

pagliaccio dentro

si è maschera al contrario

senza ironia,

uno sbuffo di cipria

tra qualche finzione

di un’elegante inutile smorfia.

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Metamorfosi

Il Sud è un pensiero fisso,

odore di croste

secche e rivoltate

fiori al balcone

Madonne in processione

scene di fatture e sangue

di danze tarantolate

e in più il richiamo

della madre-terra,

antico possessivo e santo.

Il Sud è l’esercito

dei senza,

il treno del sole

per nuovi vagoni

da campi di filo spinato,

un panno sporco consumato

vera libertà di miseria

e di stessi ideali.

 

Il Sud è un continuo esame

del sangue,

con mille morbi

e cento consulti e lutti

ed inutili cure,

infetto in tutto

e nel nulla,

ma sempre infetto.

Il Sud è l’ultima cena

di una comunione fallita,

benedetta di vino acido

e pane raffermo.

 

Il Sud è il peso morto,

una bisaccia vuota

da colmare,

una questua della vergogna

per chi non sopporta le origini,

il cantato accento

e la vita concubina.

Il Sud è una maledetta ossessione:

chi è chiuso da cancelli

di solitudine

vorrebbe correre fuori

per respirare a pari

l’idea e nei bronchi.

 

Il Sud non m’ispira

parole né ritmi di poesia

di mestiere

di malinconiche pruderie

di condita speranza

per non morire

dentro e fuori.

Il Sud mi lega con funi di dolore

alla sua croce

di maldicenze, di loglio

che ammorba e si distingue,

perché la parabola

del comune Vangelo

si conservi

la più prossima e vera.

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Mimesi

Ormai non stringo le mani,

né mi segno di croce

nei vuoti di giorno

e nelle ombre pesanti,

né all’improvviso

quando disperazione mi vince.

Fermo al ginocchio

rigido alle pieghe

che sa puntellare la terra

con pratiche di pentimento

vorrei risolvere a pari

quanto dentro mi cruccia.

Il petto non duole

né aspetta al ritorno

il colpo di pugno

navetta per senso di colpa

da scontare con rate di vita.

E, invece, vanesio si gonfia di sfida.

Quando mi rivolto insonne

tra improvvisi opprimenti sudori

e il male il dolore sembrano morte,

una preghiera incompleta

un salmo stonato

sono pace, alla coscienza,

nell’alternarsi di un attimo.

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Mirabilia

Era un gioco di stagione.

La metamorfosi

del gelsomino

dai piccoli fiori bianchi

carichi di profumo

prima di mutarsi

in altri grandi e rosei

era, oltre la bella vista,

una risposta alla fame.

Altre mani

coglievano il bergamotto

che cadeva al tatto maturo

o alla forza della torsione

per riempire le sporte.

Altre mani

affidavano all’ulivo

benedetto, come nella settimana santa,

certezze di vita

e la discussa paga.

Anche l’amore

sapeva di quell’essenze

ma senza inebriare

per assuefazione dei sensi

al ripetuto contatto dei giorni.

Rami di mimosa

intrecciarono promesse

maritali o d’un momento,

per diversità di storia.


Tra i bioccoli del ginepro

confondiamo in uno

il nostro respiro.

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Miserere

Miserere

di questa terra,

profumo di acacia

ricca di pruni selvaggi

e di rovi contorti,

nido di passeri e rondini

covate di tante stagioni.

Ora anche il falco,

scacciato dai monti

sovrano,

soggiorna obbligato

in cattività

con avido becco.

 

Miserere

della mia gente

povera di sensi

alla voce di lupara

che illumina la notte

di vampe di fuoco

e oscura il giorno

col nero di lutto.

 

Miserere

di chi sforza la voce

e intriga ragioni

per impasto di leghe

in successione,

per sporcarsi la faccia

d’inutili imbrogli

e la coscienza persa

alle pratiche di fede.

 

Miserere

di me, che mi consolo

di un canto

o di un verso

per forza d’amore

per non dannarmi

il tempo che resta

in qualche convinta pazzia.

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Modelli

Lontana è la voce dell’avo

annoso tiglio secolare

con segni di sferza alla scorza

paziente cantore

per stirpe

di storie di santi e briganti

e di spiriti maledetti.

Al ricordo

ha note più intense

la nenia di Leontina

strano nome di donna

privo di storie austere

ma referente unico

di fiato materno

ameno di cantilene

di folletti e geni

custodi spiritati di ricchezze.

Racconti d’ingenua fattura

insufficienti al tempo

non durano,

né seguono i sogni

bastarde folle

prove di pubblicità.

Il pensiero procura sgomento

sa di far torto

al fisso racconto paterno,

un romanzo di cose vissute

di talpe assoldate a rifare

gallerie di acquedotti e frane.

Garzoni di Vulcano,

lenti senza fibre

legati mani e schiena

al mantice,

martellano ferro e incudine

per non inghiottire

a digiuno

bocconi di aria e saliva.

Il mondo con le sue albagìe

è moderna favola rock,

una storia da trovare

 in cerca di profezia.

Supplice cantore

contro l’abitudine

provo, alla follia,

nuove possibili verità.

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Momenti

Semi

di papavero e canapa

strozzano il becco del passero

e sono polvere di desiderio

ai sensi.

 

Sorsi di bacche

spremute

diventano calice

di comunione

senza penitenze

e danno coraggio alla voce

libera di profezia.

 

Sospiri

di un amore vero

o in prestito

sono intrecci di sogni

e qualche segreta meraviglia.

 

Qualche grano di polvere

un goccio di essenza

e il segreto abbandono

sono pegno ai giorni

che mi pesano uguali

di noia,

indifferenti

agli occhi e alla parola.

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Oltre il muro

Avere un golfo

dentro di noi

come barriera di mar Rosso

chiusa alle rivalse

degli uomini

e ai loro coltelli affilati,

è una guerra

che non fa storia.

Avere un cuore

che brucia,

inesauribile pozzo

di petrolio,

è sprofondare all’inferno

senza peccati.

A volte

la vita è un muro di cemento

sorda a ogni preghiera,

che resiste trent’anni

e non lascia passare

una breccia.

Poi, il crollo!

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Palpiti

Tu

sei un insieme di cose

confessate

con un filo di voce

o preparate con cura

e mai dette.

Tu

sei un desiderio di parole

inventate a caso

o da mettere in rima

per farne canzoni.

Ma quando

pensiero fisso

riesci a deludere

ed esaltare,

diventi tormento

e voglia di poesia.

Sei molto di più

quando, con desiderio,

mi accendi l’anima.

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Parodia

Percorrere stanze di Minotauro,

col fiato sospeso

pronto a sfidare l’ignoto

e le sue resistenze,

è fatica della mente e degli occhi.

Un angolo, uno spuntone

sono riparo e insidia

per chi non può usare

la logica

a difesa delle sue ragioni.

Desiderio di luce

ansia di respiro,

urgenze da soddisfare

a boccate,

affrettano il passo

e la gravità del rischio.

 

Al filo di Arianna,

sincero esclusivo

o da dividere,

leghiamo

con nodi alla vita

trecce di corda

scardata dalla tigna,

per complicità di donna

e delle sue virtù

di ripassar la tela.

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Per un amore

Non aspetto

l’avvento di stagioni,

né complicità di luna

per confessare a una donna

i silenzi e le attese del cuore.

Libertà d’amore

non serra i cancelli,

né soffre le scaglie

di cardo e di spine

ma è giovane giunco

adatto all’intreccio,

è canna flessibile alla prova

che resiste allo strappo.

Parole d’amore

estratti intimi di desiderio

sono magie in disordine,

messaggi d’intesa

furtivi o manifesti

da sempre compagnie dei sogni.

Sguardi di donna

sono trame

di storie immaginarie,

continue tentazioni

del possibile

da assicurare a sé.

Per una donna

che sorride sincera

e mi conserva nel ventre

la linfa della genesi

nego verità e segreti

e la forza del sangue

che percorre e taglia

strade di vene,

geometrie che s’incontrano con altre

esclusive a disegnar la vita.

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Quello che vorrei

Vorrei essere tuo:

una dedica nel tempo

come ogni giorno ha un santo,

tutore di diversa protezione.

Vorrei seguirti ombra

e farti compagnia

ovunque,

per non maledire la solitudine.

Vorrei

fermare la tua corsa

che il cuore non regge

per il fiato

corto al desiderio

e alle tue frequenze alterne

incomprensibili.

Corri cervo o saetta

e ti vengo dietro

fino alla disperazione.

Sfinito

ripeto ogni volta

nuove preghiere

a te santa del peccato

che mi appare l’unica liberazione.

Grazia! Non negarmi la grazia.

E sazio fino all’anima

dentro la tua anima

a nessuno cercherò

con struggenti suppliche

pietà di salvezza

per assicurarmi l’ignoto.

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Saldi

In fila

la più lunga

sono binario di treno

con incerta stazione

d’arrivo.

 

Apprendista

di mille mestieri

buoni a sopravvivere

muovo occhi di sogni

per conoscere il vero.

E mi trovo

con una bisaccia d’illusioni,

gonfia di belle parole

e di putridi vizi

nascosti.

Merce invenduta

stantia e guasta,

campione senza valore

non servo

alla convenienza.

E fisso il mio prezzo

al saldo,

scarto di diverse stagioni,

pur di valere qualcosa.

 

Su banchi di fiera

mi ritrovo folla in disordine,

inutile mostra

alla scelta delle mani.

Allora,

subito ricompro me stesso.

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Simboli

Fiori d’acacia

sono grappoli di colore.

Libertà di profumo

si diffonde nell’aria

e la natura respira

con sensi di meraviglia.

Archi e file di rami

cornici di paesaggio

valgono cose di città

vanesie e intriganti

per artificio degli uomini.

Pastine di sambuco,

presuntuosi merletti

bianchi o vinaccia,

scoraggiano raccolte

serbando succhi amari

midollo d’inutili mazze.

Spontanee macchie

a distanza

sono famiglie di periferia

e di erba selvaggia.

Rami di sambuco e acacia

provano impossibili innesti

in fantasmi di parità,

ibride comunioni di pace

che rifiutano la tesa di fune

alle nuove croci.

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Sintesi

Quanto ogni Sud

di questo mondo

si somiglia.

Una somma di senza

raccoglie sempre niente

e non cambia la storia

pratica per quello che conta

non certo per altre virtù.

E non solo affama

per povertà di terra

ma spezza la schiena e acceca

per forza di partito,

secondino di chiavi

e di ogni pensiero

chiuso alla luce del giorno.

Una poesia

vorrebbe

a pareggio

col sospiro

con una parola buona

con la voce forte

cambiarsi dentro e la faccia.

Ma una pagina

ancora non è

modo di vivere

e si conferma storia di carta

che al sogno confessa

per sua libertà

colpe e illusioni

in un’interminabile serie.

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Soffi di vento

Famiglie, compagnie disarmate

sgranate come chicchi di mais,

borbottano misteri di dolori,

millepiedi storditi

dispersi ad ogni soffio di vento.

Voci di mormorio

fastidiose fino al rumore

cicalano all’intrico;

cornacchie spaventate

a schiera o solitarie

svolazzano stridule nell’aria

perdendo penne e fiato.

Poche trovano rifugio

alla prima fermata;

la voce contenta

è uno zirlo

che non sdegna la sosta.

Qualcuna, più avanti,

cerca fissa dimora

e affida

al nuovo giudizio dei popoli

l’umana intesa.

Altre ingravidano incerte

e figliano lontano

dall’invidia feconda

e dal chiasso smisurato.

Un soffio inventa direzioni.

E’ favonio di frutti maturo;

è sferza di borea e scirocco

che disperde la terra.

E quando, insieme, gli otri di Eolo

si sgonfiano e vuotano le case,

ravvivano le vampe e il viso

di maledetta sorda nostalgia.

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Soggetti

Soffi di creta

con l’ansia di conoscere,

pellegrini senza scapolare

cerchiamo pagine ispirate

prenotate al botteghino di Broadway

o in fila per un biglietto all’Opera,

convinti di conoscere per trame

la storia umana.

Scene vere o inventate

dialoghi di possibilità

ci trovano

interpreti di ruolo,

protagonisti o comparse.

Ognuno si porta

cucito addosso

il destino

amico o maledetto di miserie,

di un attimo meteora

o forse immagine fissa

sotto la luce del sole.

Noialtri, nell’anonimia,

siamo scarti di spettacolo,

moltitudini senza contratto

in cerca di qualcuno

e di noi stessi.

Così assistiamo all’intreccio

partecipi esclusi estranei

insieme, a significar la vita,

ognuno per la sua parte.

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Sogni

Un libro di avventure

da scrivere

era il desiderio di vita

negli occhi di ragazzo.

Una conquista di terre,

giardino di delizie

con acque sorgive

in cascata,

ci faceva padroni

e migliori degli altri

uguali o colorati nella pelle.

Una caccia al tesoro

di marenghi e dobloni,

sepolti in leghe di mari,

riempiva gli occhi

colmi di obbliganti bisogni.

Al sorriso di donne

acerbe o appena in fiore

toccavamo il frutto

di mille movenze

nella forma

e di diversi aromatici sapori.

Quanti sogni

ci accompagnano ancora:

alcuni sfocati nei contorni,

altri forti e nuovi

che fanno recenti promesse

e intanto aiutano a vivere.

Nel disincanto.

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Sui gradini di pietra

Amato,

di un amore esclusivo

chiamato per nome

che ognuno si porta

dentro e sulla pelle

e diventa persona,

non sei una stanca parola.

 

Amato,

racconti il tempo

vecchie leggende

storie appassionate

grandi o misere di statura

ma per te di uguale rispetto

quando lo spirito in pena

è voce di preghiera.

 

Amato,

di un amore scontato

da confidare con gesto

manifesto o nascosto,

confessi indulgente

nella piazza di Nusco.

Seduti sotto il Tuo manto

Ti teniamo compagnia

con poca santità

e qualche leggerezza.

 

Amato,

al sole e al vento

con mano benedetta,

ansioso aspetti

chi parte o arriva

custode nel ricordo

del tuo sguardo

di pietra.

 

Amato,

da mille anni amato

laddove terra è seme

di pianta e dell'uomo,

rinnovi promesse di sangue

ai figli prodighi stanchi e sordi

e con il senso dell'umano a pezzi.

 

Amato,

da mille anni Santo

prepari con cura il tempo

carico ed incerto d'ombre

per le continue sfide della vita,

al nostro eterno.

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Te deum

Benedetto

sei agli dei

con l’infula che ti cinge

a corona

la mediata virtù

di nuovo santo.

 

Santo

tante volte santo

consacrato al tempo

ma non all’eterno

hai voce di miele

e, quando ti serve,

denti di veleno.

 

Messia

venuto dal nulla

come tempesta di vento,

unto dai nuovi profeti

testimoni di Bibbia borghese

ed insieme corsari d’affare,

sei santino di grazia

e d’abuso.

 

La voce intona “Te Deum”

che vuoi sentirti cantare

con cori di osanna

come ultimo figlio di David.

 

Gli altri

contano poco

indice e mucchio

da raccomandare

all’altare o al coltello.

 

Capricci

di perfida santità

innalzano santuari

d’ipocrisia

ed immolano

come angeli sterminatori.

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Trigne

Trigne, bacche vermiglie

mature ad agosto,

punteggiavano le siepi

dopo la stagione delle more.

Aspre come fiele di croce

tossiche da far torcere il ventre

seccavano la pozza della bocca

e col succo calmavan fame e sete.

Avido incosciente boccone

masticato con smorfia di acidità

fu pasto e sollievo

alla mia adolescenza.

Trigne, non più voglia di frutti,

sono colori di natura

in mostra

ai margini della strada

dove più volte, per anni,

il giorno fu scommessa di pane

e la vita un continuo desiderio di cose,

come sempre.

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Umori

Guardare le stelle

e riconoscere nella disposizione

degli spazi di luce

il segnato cammino

e dare risposte certe

alla propria storia

di naviganti.

Ma quando nebbia e nuvole

s’impastano uniformi

di grigio e di nero

è una sfida insicura

affidarci alla bussola

e leggere la profondità

del buio.

Con occhi fissi al cielo

o partecipi nel vuoto

cerchiamo risposte urgenti

alle prove della vita,

per non naufragare.

Svagati insolenti assorti

facciamo

nello scandire del tempo

la nostra parte

di testimoni

falsi o credibili

ai diversi continui aspetti

del vivere

che cela e manifesta

per comode simbiosi

grani d’incenso

e fumi di verità.

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Una fiaba comune

Un arco di pietra,

galleria

tra due strade di paese

una pubblica l’altra vicinale,

diventava inatteso belvedere

per chi si affacciava alla vista.

Quando le ombre

seguivano al sole

l’azzurro diventava cupo

e l’uniforme, come macigno

della montagna del Toro,

serrava a cancello

il buio e le incerte distanze.

D’estate vi danzavano lucciole

e vi saltavano grilli

con voli radenti di pipistrelli

che trovavano asilo

tra edere e crepe

di un vecchio casale diruto.

Sotto l’arco

dai gradini a loggia

le donne ruotavano il fuso

o incrociavano i ferri

per tramare la lana

a ragazzi che nel cortile

provavano giochi innocenti

e le prime malizie.

Quell’arco era piazza e quartiere

per un modo scritto in una fiaba

dove Cenerentola

non ha visto Fatina

e le zucche e i sorci

non hanno trovato magie.

Quell’arco di terra

conserva il desiderio di cose

i pochi ricordi

e mi consegna nel sogno

il passato e il prossimo

in moto perpetuo.

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Vaneggio

Nei segni di aria e fuoco

o in altro aspetto

di acqua e terra

per incidenza d’oroscopo

cerchiamo anticipi di giornata

profezie di vita

a mille lire.

 

Astri in movimento

titolari di affinità e flussi

sono oracolo borghese

assoluto come certe verità.

E l’uso si adatta

alla varietà del tempo

ingenuo o ammaliziato.

Prima bastavano

un ragno e la sua monotona fatica

a tessere fortune e avversità

in parabola,

come indici di borsa;

o ancora formicolii al polso

a sinistra in entrata

e all’altra mano in disavanzo

erano avviso e travaglio.

Da sempre, a segni estranei

affidiamo le sorti della vita

destinata a sopportare il caso

e i suoi nonsensi.

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Voci di dentro

Sono sentimenti

i semi dell’anima

da concimare all’occasione.

Modi di essere

nel silenzio e nella parola

fanno chiunque

persona.

Talenti e riserve,

bisacce di provviste della vita

per innocenza o malizia,

sono fantasmi di sogni

da combinare.

Al desiderio tacciono

e vivono al pensiero

fino all’amore giurato.

E tutt’insieme

danno sapore ai giorni

e disegnano attimi

d’immenso,

quando l’offesa

non accontenta la rabbia

e il fallimento

non porta alla fine.

Sensazioni e voglie

scuotono la pelle,

l’istinto

e le frequenze del cuore,

perché fermare i sentimenti

nella strozza

è negare voce alla poesia.

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