Siamo meteore
schizzi della nube di Oort¹
polveri di comete allo sbando
che scheggiano l’universo
di un lampo
e nella loro scia luminosa
segnano il cielo alla terra.
Nel caos si accendono
mucchi – a intermittenza – di
stelle
frammenti d’ego nell’infinito.
¹
OORT:
astronomo olandese, autore di una teoria sull’origine delle comete
[
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Inciuchiti¹ al palo della macina
legno stagionato di croce
spremiamo schiume di mosto
alla sferza
per questo mondo senz’anima
livido nei giorni che durano.
Cerchi di snervante cammino
zufolano identiche note
alle funi appaiate
ed inseguono a pari distanza
chi gira avanti o dietro
per posizione di conta.
La nostra scorza
è pietra scistosa
in continua frammentazione
che si ritrova pugno di sabbia
a scandire inesorabile i ritmi
del tempo e le sue fughe.
L’attesa del nuovo conta
colla di pazienza
raccolta incerta di melagrane/
succo vermiglio di semi
e polpa vuota/
che avidamente sfidano
inutili morsi e l’inganno.
L’attesa scarnifica al midollo
canne di vertebre
fibre incise o cieche/ al visibile.
L’attesa soffoca il respiro
sintesi di dolore e putrida
materia,
croste che nascondono nelle pieghe
i silenzi e i soffi dell’anima.
¹
INCIUCHITI: asini
strapazzati
[
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Nidiate nascoste
rogiti di nessun testamento
fra braccia nodose di alberi
si litigano
piani di condominio salvi
allo sfratto.
Danno voce
a monotoni sgradevoli lamenti
che sgolano urla disperate
ribellioni umane di nessun
potere
contro fatalità di morte.
Tu-tu …tu
sembrano gufare
dolore e malaugurio
che scaramanzia
vorrebbe scacciare toccando
ferro.
Ombre stridono
nell’insistente richiamo
così diverso dagli altri suoni
apparente sillabare da muti
invece verso comprensibile
alle voglie.
Le tortore
usano messaggi telegrafici
codici Morse
che interpretano al momento
manuali di natura di nessun
segreto.
Come vorrei vantarmi
di essere destinatario
di quel tu-tu, (sincope) Tu.
Folgore e rombo di tuono
che squarci il velo del tempio
sbrachi cielo e terra
- universo segnato dal tempo
–
quando vuoi manifestare
potenza e dissenso
a questo intreccio dell’anima
capriccio di doni e miserie
alla sorte degli uomini.
Sei sordo
all’invocante preghiera
- scampo di ogni promessa –
sacrificio pegno di vita
contro sacrificio di morte.
Ma l’uno e l’altro
sofferte rinunce a vivere.
E dire che Tu
Maestro del sillabario
dell’anima,
Parola di verità ai discorsi
imperfetti,
separi pula e loglio
nelle Parabole dell’amore.
Sei l’ultima presa
alla stretta di mano.
Ma anche la mia sfida.
Per Te
si innalzano altari
si affilano coltelli
nelle diversità di immagine
e predizione,
mistero di discutibile fede.
Come tanti altri tuoi misteri.
¹ TESHUVAH: è una parola ebraica che significa pentimento e
quindi ritorno a Dio.
[
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Vanto di stirpe
blocco di pietra primigenia
come la Porta dei leoni¹
eri vento di mare
ventre gravido di Magna Grecia.
Scheggiata a morsi
spoglia di lonze e predoni
cavallette di ogni carestia
eri fuoco e sangue
alla malvagia indole
della Mezza Luna,
mai anemica di vergogna.
Distrutta nel corpo disfatto
indurivi nell’animo/
corpo maturo per ogni raccolto/
semi di violenza mai secchi.
Per anni consumasti penitenze
ostie di dolore
- pane spezzato con cura
in cene aspre di vino
e calici/ grembi di sangue –
sacrilegio all’innocenza
perduta
e alla libertà di peccare.
Ancora ti vanti
terra amara di fiele.
Vuota di memoria
sommessa canti ritornelli
e spensierata tarantelli²
il presente
nell’avido gioco dei numeri.
Tatuata nel corpo/
marinaio di ogni porto/
cerchi di darti un’anima
biascicando – vecchia cicala
–
rosari legati ai tre santi
misteri.
Mercenaria smargiassa
di provato mestiere
cadenzi fissa all’ora
vespertina
pollice curvo di penitente
prova
e sfili grani di Ave e Gloria
al dolo
per meritarti il cielo.
Supplice al freddo che avanza
serpe di anni nelle ossa
scacci morte, vampe
e ogni maledizione.
Fiduciosa sconti alla pienezza
del tempo
conversione di pena
e paghi mutui ratei di
preghiera
contratto/riscatto bonus-malus
polizza d’eterno.
¹ PORTA DEI LEONI: scultura monumentale, di aspetto
ciclopico, esistente a Micene.
² TARANTELLI: bearsi di una
situazione, mimando il ritmo di una tarantella.
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Tu sei testamento di Bibbia
borghese
vecchia di un patto/ onorato
dai padri/
che si rinnova per logica
adozione.
Unto come un re di lunga corona
non usi la cetra salmodiante
di David
ma la pietra filosofale
artificio di lesta parola
mescola di ogni tua verità.
Sei morfina
per chi ha crisi d’astinenza,
qui formiche operaie
in fila al mercato delle
braccia.
Per il tuo Vangelo
morto all’uguale
minaccia di pugnale di Bruto¹
sei principio e fine .
Impasto di sacro e profano
oracolo di gratuita santità
hai carismi di favore
per gente comune dolente
pellegrina ai tuoi santuari/ da
scomunica/
muta a ritrovarsi cliente
fortunata
al miracolo.
A te, vitello d’oro
cantano cori in processione
ma le Tavole della legge/
moderna eresia di fuoco/
si scheggiano all’impatto.
C’è chi riconosce la Luce
e s’affida all’esempio dei
Padri,
forza ribelle alla storia
con tributi di sangue al morso
e alle nari
per infibulazione promiscua.
Altri rinnegano fierezza di
pensiero
a scrupoli/ grembi di paura/
aborti di coscienza/
e si contentano
- liberi di promesse di niente
–
di schiave meraviglie.
¹ BRUTO: è un traslato e significa tradimento.
[
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Siamo maschere
parte di una commedia umana
senza copione
da inventare al momento
crudo/ acerbo espediente per
vivere.
Con torcia elettrica
proiezione di lampada
siamo cometa di Magi/ s
cia incerta non solo
d’Oriente/
della nostra Epifania,
per trovare uno spigolo di
posto
nella sequenza di giorni
veli di nebbie/ spicchi di
cobalto.
L’occhio incantato
segue lo schermo
scena d’invenzioni.
Qui luce e colori
congiunzione carnale
di emozioni/ di un sussulto
sono giochi perfidi
di metamorfosi
nella durata del tempo
- delle sue piste e fotogrammi
–
prima della parola fine.
Stringiamo il vuoto
nella fantasia che s’accende
falò del nostro tronco/
mistura di emozioni e ricordi/
per una rigenerante risata,
per una lacrima a metà
che insapora la gola.
Succo d’acqua e sale.
Siamo una scommessa del destino
un urlo nel vuoto
una ferita aperta
una voce stonata
un’appendice d’umanità.
Siamo
ma non sempre ci basta
così semplicemente
di essere.
¹ ALFA CENTAURI: la stella più splendente della
costellazione del Centauro.
[
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Bigotti
come vecchi che masticano
rauche litanie mattutine
cantiamo alleluia agli uomini
ministri paludati nel culto di
potere
sacramento di sette virtù.
Parola più di ogni altra verità
sei l’estremo grido
sordo alla giustizia che manca.
Le mani sul petto
a discolpa
o giunte ad incastro
in segno di preghiera
segnano croci
nel nome dello Spirito
e saziano la bocca al bacio
come indirizzo di voto
a certezza di materia.
L’obolo superfluo
non alleggerisce la tasca
e il lume votivo
non rischiara il giorno
ma rinnova il patto
pratica visibile di fede.
Santi
d’aureola borghese
hanno un paradiso di terra
imbuto di ogni granaio.
Saziano o affamano
onnipresenti padroni/
virtù malizie e limiti di ogni
dio.
Lazzaro insolente
straccia sorrisi di mezzibusti
- statue elettorali di colla e
carta –
e rifiuta con sdegno miche/ di
carità
che oggi ha cambiato nome
e guadagna l’anima al cielo.
Solidarietà – complice
parola –
sei la nuova miseria.
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Come Tommaso
siamo apostoli del dubbio
tarlo di erosione
innocuo al corpo ma eclissi
fatale
che adombra la mente.
Ai maestri di retorica
inchiodiamo le dita / uncini
guastatori/
alle croste di piaga
per spremere sangue ed acqua
materia che perde materia.
I nostri templi
sono vuoti Cenacoli
di morta fede
e l’interesse callo di
simonia
è stanca liturgia
ma fa ancora proseliti
in un mondo da sballo
che si paga nuove indulgenze
con ecstasy e altri paradisi
da tagliare.
Asole del nostro corpo
raccolgono formelle¹
pendule al filo sdrucito
legami di buonsenso prossimo
a separarsi da vincoli sodali
nell’ultima resistenza,
pillole senza ostia
comunione di nessun viatico
per l’ultima cena.
¹ FORMELLE: bottoni
[
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Ho impastato/ pane azzimo/
muri di pietra squadrata
con calce di esperienza.
Da tempo
crepe e lesioni
staccano pezzi d’intonaco
e mostrano squarci del corpo
e dell’anima.
Mi sgretolo
in mucchi di polvere
che qualsiasi soffio
allontana e disperde
dalla mia matrice.
Macino
schegge di risulta
e breccia di cava
con grandine si sputi
e spremute di sudore
per restauri di facciata.
I polmoni
sono sbuffi di treno
sintesi di catrame e fumo
mantici d’enfisema.
Il cuore è corda flessibile
di molla allentata
che dura o si ferma
senza preavviso.
Da questa ferraglia
riordino la mia impalcatura
sghemba
e puntello il domani
con pali fissi a croce
per non perdere il giorno che
viene.
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Soli
come grano a marcire.
Nel solco
binario di vomere
che tintinna al sasso
improvviso
arranca il treno d’autunno
sbuffante nel rumore dei
cingoli
carro armato contro la
carestia.
Ariste
di verde baldanza
alfieri contro la fame
qui mostri obesi/ otri
all’ingrasso/
altrove meduse deformi/
senza vigore/
annunciano per tutti primavera.
Il sole
capriccio di misura
è falce tagliente per messe
che gonfia la tasca,
ma anche deserto di pietre
casa giaciglio trincea
alle licenze di morte.
Non credo
di avere fratelli/ santi a
modello/
quando l’anima sconta
ai saldi del Giubileo
truffe e ruberie da mercanti
del tempio
e l’inferno della terra
è bestemmia di vita
che fa tremare pinnacoli,
basiliche
e verità di chiesa.
Chi è povero conosce il niente
non crede ai comizi di mestiere
e ai discorsi beati della
Montagna,
non vanta fortuna di gigli di
campo
né cibo sicuro di specie di
uccelli.
Maledice la sorte e chi canta.
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Queste vie
pietre slavate
lastrico di cunei/ difforme/
contano coppi penduli
davanzali con vasi spiantati
di gerani e basilico morti
all’incuria
usci sprangati/ malati di tarli
e ruggine/
trionfo d’erba selvatica.
Queste vie
fisse al silenzio
vuote nell’abbandono
domestico
costretto o indifferente
dalle scelte degli anni
sono piste di cani
che unghiano soli lenti
distratti
o latrano a minaccia
dietro femmine in calore.
Queste vie
rintronano al rumore dei passi
ed esaltano il tanfo
del chiuso/ del perso
che fissa il tempo/ grembo
d’antico.
Per queste vie
il silenzio è padrone
è parola disperata
ripetuta a se stessi
ad ogni chiarore del giorno
per chi parla da solo.
E di notte/ scruta e maledice
pentimenti di scorciatoia
per farsi coraggio
quando ogni ombra
spirito vagante mette paura
come anima persa
per chi ha già meritato
l’Inferno.
Tra queste vie
abbiamo contato gli anni
spighe di ogni stagione
mentre la falce orienta denti
aguzzi
di lima
giù, tra stoppie più corte,
verso la terra profonda.
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Lingue di fuoco votivo
borbottano/
per il Santo eremita
pellegrino della Tebaide¹/
salmi borghesi
preghiera di nessuna preghiera.
Bagliori domestici
sono luce alla notte
tra fumi acri/ serpi di vento
contorsioni di ceppi di questua
retaggio di tradizione.
Scintille di falò
sono minuscoli crepitii
e raggiere storte capricciose
luccicanti
per un momento
o anime purganti
– quando fantasia di vecchi
s’accende –
che espiano l’ultimo peccato.
Satiri in costume
maschere a volto scoperto
saltano e urlano
lievi alla conta degli anni
tra braci che scheggiano
l’aria
al ritmo sfrenato della montemaranese²
masticando focacce di mais.
La strozza ingozzata
stringe petto e fiato
che libera sonorità di voce
sorso e respiro di vino
salvatore.
Quel rogo
beffeggia la luna
alle piccole stelle-faville
che s’innalzano al cielo
per un segnato cammino
e si portano brevi desideri
spenti nel nulla.
Il freddo si prende il calore
e l’alba raccoglie
con gli ultimi resistenti
carboni
circoli e mucchi di cenere
di un altro giorno che muore.
¹ TEBAIDE: Regione dell’Alto Egitto, nel cui deserto visse
da anacoreta Sant’Antonio Abate.
² MONTEMARANESE:
è un traslato; vale per tarantella di Montemarano (Avellino).
[
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Dai calanchi
fistole di terra
dove natura è gravida di niente
sprofondano solchi e gallerie
nidi svuotati alla luce.
La montagna è squarcio
abortivo
per ferri uncinati
che scavano clandestini
il ventre liscio
e sgravano morte viscere
di nessuna pietà.
A valle
formicolano uomini e macchine
con occhi di calamita
a produrre l’impossibile
che spranga cancelli di altre
miserie
miserevoli affidi al sussidio/
lavori part-time, carità di
Stato.
Polveri in libera danza
di sinfonia infernale
sono segreta deportazione
ligure
che già fu incrocio al sangue
sannita.
Lento il veleno/ aquilone al
soffio/
ammorba invisibile
come gioco d’ipnosi
e s’impenna in brividi
convulsi
fino a crescenti paralisi.
Mitridate¹ qui si ferma
distratto
ma si buca da tempo
e il tossico è comodo vaccino.
Chi non chiede miracoli
ma gratuito respiro
inghiotte aria ed arsenico
miscela che insaliva la bocca/
ormai cava morente di freddo
metallo.
Mefite² subdola/ compagna agli
Inferi/
lesta si frega le mani
sull’avida ara votiva
consacrata al suo tempio, agli
affari
al silenzio, al soffio che
inganna.
Pestifera inquieta spira e si
spande
– nuovo mistero del mito
nostrano –
orfana di ogni menzogna
ed alza ancora la voce padrona,
ma conta alla vita anni ed
affanni
per trovare un senso e lo
scampo.
¹ MITRIDATE: secondo la tradizione
Mitridate IV Eupatore si sarebbe abituato ai veleni, per timore di diventarne
vittima.
² MEFITE: terribile dea, a cui era dedicato un tempio nella
valle d’Ansanto, in Irpinia, luogo di esalazioni gassose mortali.
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Un segno di croce
gesto istintivo o liturgico
secco di palmo raccolto
o umido di gocce
d’acquasantiera
non è l’ultimo grido
quando tutto precipita
come cedimento di frana.
La mano
traccia a memoria vertici e
scongiuri
linee misurate con cura
del triangolo/ occhio di Dio
Trinità di fede
non sempre credibile
ma che mette paura d’eterno.
Un pugno
è ritmo alle geometrie del
petto
modico flagello incruento,
a volte superbia di potere
maledizione dell’uomo
sull’uomo
che punisce senza pietà.
Com’è alterna la fede!
Esulta d’amore e ti incanta
poi inganna e sprofonda
all’inferno
spergiura.
Parole contro Parola.
Ecco i confini dell’uomo
all’arbitrio,
limite e incesto di parole.
Un segno di croce
inchioda alle sue verità
al cielo o all’abisso.
Pietà convince al perdono
per strade di Samaria¹
insidia e cadute per deboli,
castigo di eterni predoni.
Un segno di croce
è il cruccio/ l’incognita/
problema senza soluzione,
somma disponibile di giorni
incerti di proroghe e
supplementi
prima della fine del tempo.
¹ SAMARIA: regione della
Palestina, di cui era originario l’omonimo benefattore citato nel Vangelo.
[
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Pensiero fisso
dolce ossessione dei sensi
frutto possibile di molte
stagioni
della vita
riempi i vuoti
del corpo e dell’anima,
piccole gioie segrete
di un invitante sorriso
o rovinose cadute/ immediato
castigo
che invoca a sollievo la fine.
Desiderio contro desiderio.
Ho amato raccolti silenzi
malizie e apparenze/ senza
misura
risposte non date
parole credibili sulla tua
parola.
Averti compagna
stordisce ed esalta
come distillato d’annata.
Ma tu versi coppe di sidro
e svuoti favi di miele
maliziosa Calipso¹.
Ti ho chiamato in ogni senso.
Ho odiato/ sofferto silenzio/
accorte leste bugie
privilegi al sorriso
fortunati di turno
le tue accese moine
la sincerità senza scampo.
Le tue smanie regine
la mia fine.
Ti ho odiato/ per serbare un
senso
alla vita.
All’amore ho dato
intere scansioni di tempo
prossimo a scadere
ai cerchi e scatti di veglia.
Al tuo amore ho bussato
con tocchi diversi
quintessenze di pazienza
per farmi sentire.
Al mio amore ho nascosto
chi sei. Complice il sempre.
¹ CALIPSO: è la ninfa che per
amore trattenne Ulisse per sette anni nell’isola di Ogigia.
[
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Un quantum variabile
vocabolario di parole
è il nostro filo sottile di
voce
o gola aspra di sdegno.
Parole vive sanguigne
all’impulso,
che lingua vulcano di lava
vomita senza fermarsi
e cola tracimando discese
inutili trincee,
hanno strascichi d’infinito.
Parole limano il buonsenso
e non spingono il calibro
che accorta bilancia mantiene
in equilibrio, al giusto peso.
Parole silenziose
sillabe d’incertezza
sono insignificanti
come una giornata persa
insipide afone languide
quando la vita è fessa.
Parole usuali
veline di carta carbone
si imprimono al tatto
e poi sbiadiscono all’uso
anemiche d’inchiostro.
Parole poetiche si combinano
e libere inventano suoni,
confidano frasi innocenti
penetrano/ aghi sottili
indolori/
nella libertà d’animo
deltaplano di emozioni
che s’innalza, ondeggia
colorando lo spazio
e planando si riposa.
Le parole sono schegge
pietre taglienti
da scegliere con cura.
Sfregiano verginità di crosta
e mostrano sfacciate
vergogne d’incisione,
ferite superficiali o di stupro
ma poi infettano di materia
il corpo e l’anima.
Parole sante
guidano al Verbo e L’invocano
ma la verità tarda
a convincere
e ognuno – ai bisogni –
si sceglie una via.
Le parole sono lingua di fuoco
grazia di Pentecoste che si
rinnova
e che rischiara il buio, la
notte
la morte fede dell’uomo
e unge il santo di crisma
cantore di beatitudine
a chi sordo/ di straforo/
questo paradiso di terra si
gode.
Sintesi e antitesi, spergiure
croniche
sono maledizione antica,
paradosso di convivenza
che giustifica di Babele il
caos.
Le parole sono parabole/
graffiti di geometria/
curve e diagrammi
che combinandosi, al tratto,
formano il cerchio
dell’anima.
Qualche volta lo stringono
d’incerto.
Altre l’aprono a libertà
e la fantasia vi colora le
forme.
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Siamo folle solitarie
moltitudini di semenze diverse
assortite nel colore di pelle
insieme ma anonime
distratte/ provate/ inerti
o leste di mano e di idee
che fanno storia e fortuna
in marcia in fila confusa
per ogni direzione.
Ognuno parla la sua lingua
per fiato di racconto
fiaba del tempo
che si perpetua
nella continuità degli uomini.
Siamo gente/ sommario di
cronaca/
- qualcuno di scienza –
Vestali del fuoco di civiltà
nel mondo progresso virtuale
che chiama gli altri fratelli
per qualche impulso di
filantropia.
Siamo amebe di dissenteria
sacchi di elemosine d’usato
rifiuti/ tanfi di spazzatura
ultimo gradino di umanità
che ha perso ancora la faccia.
Siamo conti in banca
carnet/ carte di credito
monete di ogni taglio e valore
quotazioni di mercato
indici di borsa e delle sue
mani.
Siamo prestiti di usura
vivi alla giornata
che mescola espedienti
per salvare – a rimando –
la faccia.
Siamo passerelle di moda
cronaca rosa di tradimenti
giochi nei miti di società.
Siamo ruffiani di prostitute
dell’Est
serve e schiave di un visto,
di africane e viados come la
pece
violenza di stupro e
meretricio.
Siamo un esercito telematico
al laser/ all’uranio/
per infiltrati tra stelle
ad ogni morte carnefice.
Siamo disertori di ogni legione
con giberne slacciate
e gavette quaresime di fame
pronti alla resa
o a cambiare divisa
per elemosine di razzia.
Siamo tutto e niente.
Da solo
ripasso a memoria
il mio libro di viaggio
con fogli/ colla di sponza¹/
refusi ciechi da correggere.
Già conto le pagine bianche
che ancora mi restano.
* HOMO VIRTUALIS: uomo contemporaneo, in grado di interagire con
un ambiente simulato.
¹ SPONZA: tipo di colla,
bisognevole di lungo tempo per asciugarsi ed aderire.
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Le janare¹ squartavano
con bisturi di unghie
dopo aver contato fili di scopa
di miglio selvatico,
unico antidoto al male.
I lupi mannari ululavano alla
luna
scotolando lungo corsi
d’acqua
l’improvvisa animalesca
peluria
e la bava famelica.
Le fattucchiere intrecciavano
capelli
pratiche di oscuri artifici
e passavano il male dell’arco
addossando il malocchio
fulminante con uno sguardo.
E il male s’infiltrava
malefico
per una manciata di sale
bruciato
una macchia d’olio di grumi,
mentre il male vero era fame
debito d’ipoteche
mancata bugiarda giustizia
depressione di continua
miseria.
Quale incantesimo ancora ci
illude?
Maghi e discepoli dell’arte
indovina
ripetono astute alchimie,
intrugli bolliti e sangue
mestruo/
vita che scaccia la vita/
ma succhia filtri d’amore e
di fortuna
infusi d’ingenua complice
innocenza
che insapora la vita.
Un sorriso bonario
è perdono all’ingenuità
senza penitenza.
Ma il male è dentro.
Un tarlo ci mastica la terra
che piange malie e sortilegi
fascinata dal signore di turno/
tribuno-tiranno senza scrupoli.
Satrapo massaro si prende il
meglio
e come un dio malvagio
premia a capriccio
e unghia a sfregio la coscienza
che – per vivere – si
medica
di suffumigi
e presta il braccio a
trasfusioni/
moderne volontarie suicide
fatture di morte.
* CAVALLI DI FRISIA: ostacoli
dovuti a fortificazione.
¹ JANARE: streghe, fattucchiere.
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Madre terra
è cupo il dolore di Demetra¹
sterile di messi e frutti
eppure di ventre feconda.
Persefone² è lesta comparsa
e t’inganna con una manciata
di raccolti/ more da rubare
alle spine.
Il poco, dove il resto è
niente,
è manna benedetta
dono alle schiene curvate,
a mani di serchie³.
Ma il tuo esodo
ha tavole umane di legge/
che nessun Mosé ostenta/
e allontana dalla terra
promessa.
Qui siamo schiavi
di parole e qualche dispensa,
che ci compra e svende clienti
ma anche liberti
se l’eco ci restituisce
il grido di Barabba e di Spartaco*.
Terra
Madre Addolorata
immagine di Venerdì Santo
eterna processione/ nel tuo
velo nero/
piangi figli persi e dispersi
più che le tue miserie.
Nuove croci
sono pietre miliari
che ci consegnano Cristi di
carne
e la loro collezione di chiodi,
figli dell’uomo
peccatori e demoni
che scontano, per verità di
Bibbia,
chissà quali macchie dei
padri.
Tarda l’editto/ corno di
Shofar**/
sfinge di prescrizione/
sogno antico di genie di
Zedaqah***/
mentre dura penitente la colpa
spreme seni vizzi di memorie.
¹ DEMETRA: Dea greca della
fecondità della terra.
² PERSEFONE: figlia di Zeus e
Demetra, chiamata anche Kore, simbolo della vegetazione.
³ SERCHIE: ragadi, fissurazioni
della cute.
* BARABBA E SPARTACO: il primo ebreo, agitatore e ribelle politico;
il secondo gladiatore tracio, capo della guerra civile.
** SHOFAR: corno di ariete utilizzato per ricordare la voce di Dio
(ebraico).
*** ZEDAQAH: giustizia (ebraico).
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Questo tempo
incosciente stordito confuso
non ha predizioni.
Profeti di ogni religione
– nessuno scalzo e scarso di
bisaccia –
annunciano il loro Messia
Salmi e Proverbi di nessun
libro
per nessun figlio di Jahweh.
Questo tempo
non ha rivoluzioni
eppure pianta malerba
ed interra croci di legno
martello e falce di ruggine
morta/
denti di carie/
con chiodi di differenza
Teorici al sorriso
innalzano barricate di tivvù.
Ideologi in doppiopetto
di filosofia borghese che
arraffa
hanno nodi alla cravatta
e griffe di grido
ma voce stonata
che più non convince/
esorcismo di miserie,
male di ogni male.
E noi sordi corrivi volontari
chiediamo altri miracoli.
Questo tempo/
che osanna sfacciato signori
di cielo e terra/
arica yacht di certezze
e scarica valigie di illusioni.
Questo tempo
è il mio tempo:
avaro vorrei conservarlo/ per
sempre/
prodigo sfruttarlo per intero
prepotente, umiliarlo da ogni
lato/
ipocrita, ammonirlo al vero.
Ah! Se il tempo non contasse
gli anni!
Al mio tempo
vorrei dare la forza cosciente
di non maledirlo.
Dispettoso potrebbe fregarmi
sulla parola
e fermarmi la corsa.
¹ TIVVU’: è un neologismo, sta
per televisore.
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Noi siamo quelli del Sud
colonia appendice del mondo.
*
Sgravati in tane di conigli
cresciuti con orli di pane cotto
benedetto da un’aspersione d’olio
invisibile come unzione di crisma
vantavamo avi esperti
di schioppi ad avancarica
onesti disperati briganti,
coloni schiavi di baronia
e padri pionieri d’America
crociera di stiva di emigranti.
Suburra vociante dialetti/
sonanti
cittadini d’Europa su scambi
di binari
di stazioni affollate/ poi
linee morte
prima della nutrice
Strasburgo-capolinea
ogni fondo di miniera era
nostro
che avevamo occhi di gatto
per leggere il buio.
Facevamo la cresta alle
privanti rimesse
fioretti di pane/ devozione di
Santi
titolari di novene e tredicine¹
e vestire d’oro le Madonne/
sanguinanti
in cambio di una protezione
sicura.
I nostri bassi restavano bassi.
Incanti di mare, spaghetti e
mandolini/
corde necessarie per diversità
di gola/
erano sputi a scanzonati paesi
del sole
e alla luna caprese.
La zona dell’osso²
era colonna
infame/ deforme.
Le vertebre si contavano a
vista
anelli di stessa catena.
*
Noi siamo i senza nome
elenco di frane e morti di
malaria
a vecchi e recenti tremuoti³
che ancora scuotono
per scandali di truffa
vergogne pesanti come macigni
su facce innocenti.
Noi siamo gente di confino
ma senza frontiere/
in lista per un posto mancato
una fabbrica chiusa o fallita
disoccupati cronici
teste basse alla giornata
vittime sacrificali dei Poli
democrazia offesa/ morta
al maggioritario secco
e al proporzionale.
Noi siamo il 416bis del codice
penale
lazzari* aspiranti di camorra
manovalanza d’espedienti
branco di contrabbando/
pirati di terraferma/
enutari di lupanare
fra copertoni, semafori e
insegne
di sesso al mercato,
staffette ambulanti di droga,
trucco di appalti, croupier e
dazio
ai potenti di turno.
Noi siamo l’eterna questione
irrisolta
il Meridione gravido di ogni
consulto/
storie senza storia/
insulti di sussidio mensile
tifo perfido di clienti di
partito.
Truppe di rincalzo demografico
all’Italia che non figlia,
gregari a vita senza squadra
raspi/ appendici d’umanità
senza voce.
Noi siamo quelli del Sud
gli abusivi della storia.
¹ TREDICINE: pratiche liturgiche
consistenti in un ciclo di preghiere per tredici giorni in onore o a devozione
di un santo.
² ZONA
DELL’OSSO: espressione usata dal meridionalista Manlio Rossi Doria, per
indicare le aree interne depresse contrapposte a quelle costiere o della polpa.
³ TREMUOTI: terremoti.
* LAZZARI: plebe napoletana che aderì alla rivolta di
Masaniello.
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Pennacchi di fumo
sbuffi o fili color grigio scuro
ingravidano il cielo
corpo rosso al desiderio
al calar del sole
quando natura ha voglia di accoppiarsi.
Nubi/ piccole flottiglie
tradite/
spiano per peccato d’invidia
il mancato appuntamento
indifferenza dei venti/
ruffiani capricciosi/
stanchi di correre per terzi
e perciò sazi di soffi comuni
intreccio di sensi.
La terra indifferente
raccoglie gemiti e fiati in
gola
degli uomini
che s’apprestano con ogni
malizia/
cuore e mente/
a provare giochi d’amore di
sempre
insaziabili voglie –
fra alcove ordinarie
e quelle segrete che religione
bolla d’inferno, cadute
di concupiscenza.
Sospira l’amante deluso/
cuore solitario al buio e alla luna/
che s’interroga su tanti perché/
disperata filosofia/
senza trovar risposta.
Prepara – con furia – trame
e intrighi
per vendicare il rifiuto/
l’offesa/
ma poi ad un invitante sorriso
concede proroghe e perdono.
Il mare avido borbotta
non comprende il torto
e con onde a risucchio/
suicide a scogli/
recita la parte dell’offeso.
Tempesta d’ogni fattura
coinvolge cielo mare e terra/
vortice dell’abisso
per fragile rivalsa.
Creature di ogni dio
trepidano
alla complice forza di natura
cieca sfuriata del tempo.
Il sole secondino agli uomini
nega o schiude la luce
feconda o carestia di sudore
ai loro destini.
Respiri di vita/
compendio di silenzi e
sussulti/
svuotano e serrano
sogni nel cassetto
con forza di palmo racchiuso.
Per qualcuno
il gesto è disperante
rinuncia/
maledizione alla sorte/
cupo deserto dell’anima
che sprofonda
nel vortice di sabbia rovente
e della sua polvere/
lenta agonia di morti silenzi.
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Paese
orgoglio di stirpe sannita
ribelle al giogo e alla soma
imbrigliavi cavalli da guerra
e guardavi con occhi di sfida
nel sole.
Guascone di niente
disarmato da tempo
ora vanti le glorie perdute.
Ti difendi con forza di gola
e denti di carie. Ma la tua
voce
è sorda convenienza.
Divorato dalla ruggine
malizia di compromesso
arruoli truppe di diserzione
con casacca di partito/
corazza d’ammaccature
e di chissà quante macchie.
Cerchi
di scuoterti dal sonno
mostro imbelle
e ti consumi nell’oppio e
nell’alcool
che ti lega docile prigioniero
al solito piatto di lupini.
Altro pane di tessera contro il
digiuno.
Paese
mostri corpo dolente
ali tagliate, ferite profonde
mai guarite e recenti
osso spolpato, circuiti di vene
scheletro deforme.
Cariatide di storia e presente.
Vivo all’indifferenza e alla
noia
morto al discorso/ al
disappunto.
Stancamente ti conti nelle
preferenze
e la differenza/ legge dei
numeri
spesso unica legge/
gabella novità, arbitri e
regole.
Cani e padroni si godono
il premio delle tue fatiche.
Varietà di morsi.
Paese! Vecchio di memorie
nuovo di malasorte.
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Cosciente
con gli anni contati a metà
se il tempo non vorrà
stancarsi
prima
ho respiro a singhiozzo
che fa sussultare a tamburo
il ritmo di vena.
Cadenza di soldato
fastidio di marcia
insolente a comando e fatica
porto una fiaccola accesa
penitenza di mia religione
bestemmia di mia libertà.
Forza di vento
non mi sciaccia nel buio
ma scotta le mani
treccia di fune e di fumo
che s’incurva alla vampa
e si consuma in colate di pece.
Ancora la mano
stringe sicura/ morsa di vita/
l’avido testimone
prima di cedere ad altro
il sogno, l’illusione ribelle
e la voce.
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