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SAGGIO: LA CIVILTA' CONTADINA IN IRPINIA

INDICE

-    Presentazione

-    Premessa

-    Capitolo I
  Quarant’anni di storia: una presenza senza protagonismo

-    Capitolo II                                            

      La famiglia, la grande esclusa

a) il matrimonio

b) il padre

c) la madre

d) i figli

e) tra familismo e solidarietà

-    Capitolo III

    La cultura, un’identità irriconoscibile

a) la lingua

b) proverbi, filastrocche, indovinelli

c) i canti

d) teatro e feste popolari

e) superstizione e religione

f) magia e credenze:

il malocchio;

    credenze e superstizioni.

 

-    Conclusione

-    Obiettivo campagna: una realtà con tanta «luce» - Foto con didascalie (non riportate)

-    Bibliografia

 

PRESENTAZIONE

   

Chi legge, meditando, le nutrite pagine di questo saggio di Giuseppe Iuliano, scopre e s'accorge di quanto la società irpina — e, omogeneizzata ad essa, la società meridionale d'Italia — sia posta di fronte al problema dell'ulteriore logorio della sua vita civile-economico-sociale, logorio che mette in pericolo definitivamente la sua stessa sopravvivenza.
Questo libro di Iuliano è, perciò, una preziosa e meticolosa ricerca e, con forza, una pregnante analisi sui grandi momenti di frattura degli ultimi quarant'anni.
Lo scrittore Giuseppe Iuliano riscontra la sua fantasia poetica in questo saggio “La civiltà contadina in Irpinia” con la realtà della vita vissuta: un saggio che acquista corposità e struttura per la incisiva focalizzazione storica della controversa esplorazione del mondo contadino, e crea — per la storia letteraria e per gli approfondimenti di ricerca socio-politica — il primo filone interpretativo di quel mondo degli anni '30, data sotto la quale si ferma “gran parte — come afferma l'A. — del recupero del patrimonio di cultura popolare (dell' Irpinia)”.
È il primo carattere d'originalità dell'opera di Iuliano che sposta, peraltro, la sua ricerca, già nella titolazione del saggio, da “Società contadina” a "Civiltà contadina” per definire più a fondo la sua ricerca al fine di storicizzare l'insieme delle conquiste che il contadino è riuscito a fare e quello che di queste resta nella civiltà industriale e post-industriale.
La natura estremamente sensibile di Giuseppe Iuliano e una finezza di ingegno e di cultura assai rara tra i giovani di oggi, pur volte al pessimismo per la sua percezione acutissima di condizioni aggettive e reali, gli hanno fatto maturare questo “frutto culturale” di intelligenza profonda della vita e della storia che si è svolta e si svolge sotto i suoi occhi.
Iuliano, quindi, sconta quasi del tutto la fine della "Civiltà contadina” con la imposta, ma non assorbita, e perturbante civiltà industriale, mentre la classe dirigente italiana e meridionale riposa ancora placida e incosciente su quell’antico vulcano, sempre in procinto di scatenare micidiali eruzioni, che era ed è, per lui, il mondo contadino e bracciantile del Mezzogiorno e dell’ Irpinia.
Rossi Doria fu veramente veggente, allorché, in “Scritti sul Mezzogiorno”, confessò prevedendo che: “La discussione sui mutamenti della realtà meridionale e sulla revisione delle politiche che la riguardano è oggi più aperta che mai. Saranno i giovani a riprenderla e portarla avanti. Presupposto per farlo è, tuttavia, la conoscenza e la valutazione obiettiva e critica del passato...”.
Iuliano è un giovane che, attraverso una profonda conoscenza ed una acuta valutazione obiettiva e critica del recente passato, prospetta la centralità della “civiltà contadina”.
Dalla sua ricerca affiorano i messaggi sconosciuti di chi, nel e col lavoro dei campi, voleva pane, migliori condizioni di vita, una assistenza sanitaria da sottrarre alla superstizione e alla fattucchiera, un pezzo di terra, sempre aspettando di superare quel giorno in cui “la nostra vita di uomini / passa oggi di bocca in bocca / nelle vuote promesse / di funesti liberatori...” e “la vita sonnolenta / consuma nel desiderio di pace / l’antica rabbia”, (da “II Sud non è forse...” di G. Iuliano - 1980).
Ma, “il nuovo corso non registra accettazioni passive o facili integrazioni e fa vivere situazioni di conflitto, perché il contadino con­serva forme di sospetto e di incertezza”.
Passano quarant'anni di storia con “una presenza... contadina... senza protagonismo” in una società laddove la famiglia, tra feudalesimo e solidarietà, resta “la grande esclusa” e laddove la cultura contadina si spegne lentamente, offrendo di sé una “identità irriconoscibile”.
Un triste destino accompagna la civiltà rurale, tant'è che “i bisogni del riscatto, mai sopiti, — scrive l’A. — sono contenuti nel silenzio, nell’attesa di momenti più felici, per esplodere nella rivendicazione... Ma, la protesta è stata poca cosa ed è venuta tardi” a favore di una agricoltura, senza guida e, soprattutto, senza strutture.
E le stesse forme di assistenza attraverso la spesa pubblica per trasferimenti sociali hanno fatto dimenticare troppo spesso le condizioni di vita, di isolamento e di emarginazione della reale “qualità” del lavoro nelle campagne e della vita civile del contadino.
“Non fa meraviglia, pertanto — rivela l'A. — l'analisi tendenziosa di una certa cultura che scarica sui deboli le responsabilità della loro mancata emancipazione”, fornendo dell’ Irpinia e del Sud intero aspetti negativi “di forza subalterna, di cultura paesana, di associazionismo campanilistico e corporativo; o come pericolosa impulsività..., fonte di indisciplina e di disgregazione”.
Ma Iuliano insorge e protesta “La speranza / di vivere meglio / comincia con un pezzo di terra”, purché il populista di ieri e di oggi non lasci “...smorzare / questa progenie / di uomini contadini”. (Da “Malinconia di terra” di G. Iuliano - 1976).
Giuseppe Iuliano, da uomo che vive nel Sud, rileva così la matrice della crisi di identità, negli ultimi quarant’anni, che travaglia il contadino irpino.
Acutamente sprovincializza la ricerca su quest’area depressa, non a torto definita “Mezzogiono del Mezzogiorno” e, più acutamente riporta alla nostra memoria la felice espressione di Giustino Fortunato: “II Mezzogiorno in politica ha sempre viaggiato accanto all'altra Italia, come un vaso di terracotta accanto a uno di ferro”.
Che, in senso traslato, è applicabile a questo saggio: “La civiltà contadina ha viaggiato, negli ultimi quarant'anni, con la civiltà industriale”: un vagone-merce, attaccato alle carrozze-letto e di prima classe dei treni rapidi diretti verso il triangolo industriale d'Italia!
In quel carro-merci, nascosto tra la terra, si trasporta ancora, per l’uso, l’ “oro residuo”  dell'antica ricchezza primaria d’Italia.
Né, a caso, Antonio Ghirelli, nella prefazione allo splendido saggio di Franco Compasso “La Notte del Sud”, giustamente esclamava:
“Non c'è via di uscita all’inflazione e alla recessione, non c'è via d’uscita al terrorismo e all’assenteismo nelle cabine elettorali e sul posto di lavoro (n. d. r.:
anche contadino), se non si livellano le condizioni morali e materiali di vita delle popolazioni meridionali sul parametro di quelle del resto d’Italia.
“La civiltà contadina in Irpinia” resta quindi un libro di analisi — sofferto e meditato — e di architettura storico-ambientale sui “presepi dell’Osso”: un libro non riassumibile, da leggersi integralmente per la preziosità del suo contenuto, che non emoziona, ma incastra e cesella, in ogni frase e in ogni rigo, gradatamente, la struttura psichico-morale dell’Uomo-contadino.

Elenino Manganelli

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PREMESSA

 

 

La civiltà contadina, con i suoi rituali magici e le sue tradizioni, ha, da sempre, esercitato fascino e curiosità.
La conoscenza del misterioso ha spesso stimolato la fantasia e la creatività, ha coltivato nostalgie e ricordi, ha favorito la sopravvivenza di una cultura non ufficiale, garante, comunque, dei rapporti e della vita contadina.
Tanta conoscenza e vitalità umana non possono restare né approssimative né essere esposte all’aggressività della civiltà industriale.
Nasce, perciò, il bisogno del recupero e della salvaguardia; numerosi studi (antropologici, sociologici, storici, etc....) vengono intrapresi per esplorare il mondo contadino.
La ricerca si rivela vasta e difficile; alcuni risultati sono apprezzabili, altri discutibili, filtrati da interessi ideologici e passionali che deviano o snaturano i significati della ricerca stessa.
In questa direzione l’ Irpinia ritrova le sue radici e, attraverso l’opera del D’ Amato, recupera gran parte del patrimonio della sua cultura popolare.
Ma la ricerca si ferma poco oltre gli anni ‘30!
Le attenzioni degli anni successivi sono rivolte alla guerra e alla ricostruzione.
Il ‘43, infatti, procura un brusco passaggio della vita e della realtà “cafona” che, anonima e schiava per secoli, può finalmente emergere ed assicurare la sua presenza nella storia del paese.
Da questo momento, quasi in sintonia, inizia il fatidico declino della sua civiltà, delle sue abitudini, delle sue reazioni e del suo stesso linguaggio.
La continuità gestuale e comportamentale, scontrandosi con nuovi modelli di vita, viene contaminata, si affievolisce ed offre lo spazio a dubbie interpretazioni.
I tragici avvenimenti del novembre ‘80, poi, dimostrano ancora, non senza meraviglia e provocazione, la poca ortodossia dell’informazione, impreparata ad esaminare le condizioni socio-culturali dell’ Irpinia: forzati stereotipi di letteratura neorealistica tentano di eleggere a modelli di stratificazione sociale sparuti gruppi di contadini, frastornati dal dolore, dalla confusione e dal bisogno. Questi aspetti, così oscuri e raccapriccianti, vanno, invece, riesaminati in modo più consono ed approfondito.
L’interrogativo di soddisfare l’esigenza conoscitiva di quanto sia rimasto della vecchia civiltà, dal secondo dopoguerra ad oggi, avvalora il significato di questa indagine.
Tale intervento, inoltre, serve a promuovere giustizia e riabilitazione di una terra sfruttata e povera, vilipesa dalla natura e della storia, ignorata e disprezzata dagli uomini, forse perché fatta oggetto di frettolose analisi di folklore e di sottosviluppo e mai conosciuta, interamente, nella sua umanità.

G. Iuliano

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C A P I T O L O   I

 

 

QUARANT’ ANNI DI STORIA:

UNA PRESENZA SENZA PROTAGONISMO

 

L'armistizio del settembre 43 trova l’Irpinia in una condizione quasi feudale; la vecchia nobiltà presiede le amministrazioni dello Stato, controlla l’intera economia e possiede gran parte della proprietà terriera.
I contadini, già soggetti a vessazioni, a tasse e a versare parte del raccolto nell’ammasso, si trovano in una precarietà esistenziale, resa ancora più grave dall’ignoranza, dallo sbandamento politico e dalle difficoltà occupazionali ed economiche.
La privazione e l’esasperazione, divenute insostenibili, favoriscono gli assalti di case e municipi, l’occupazione delle terre e i primi scontri contro il potere statale locale e contro le forze dell’ordine.
Calitri, Lioni, Vallata, Bisaccia, Aquilonia, Monteverde, Lacedonia sono teatro di lotta che, proseguite fino agli anno ′50, assumono l’aspetto e il significato di “movimento dei contadini poveri”.
“Qui il movimento contadino — scrive Cocozzello — si presentò più forte poiché ‘maggiori erano le sperequazioni nella distribuzione della proprietà...’”. Molti sono arrestati e alcuni condannati a vari mesi di carcere.
“La figura sociale che spicca, in queste lotte, è quella del contadino povero, proprietario e affittuario del latifondo che, di fronte all’approfondirsi della sua miseria, cerca di moltiplicare i suoi sforzi ed il carico di lavoro suo e della famiglia, tentando faticose quanto inutili riconversioni colturali sul suo appezzamento, impiegandosi come avventizio, per un salario di fame, nelle lavorazioni stagionali delle grandi proprietà.
Questa figura è limitrofa e tende continuamente a confondersi — data la precarietà della sua situazione — con quella del bracciante, o meglio del contadino povero senza terra, anch’esso presente nella rivolta contadina della Campania interna” (1).

1)   Nunzia Marrone, II Movimento Contadino in Campania, in Campagna e movi­mento contadino nel Mezzogiorno d’Italia, vol. I, De Donato Editore, Bari, 1979, pag. 125.


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Questi movimenti improvvisi, privi di programmazione e di capacità organizzative, sono più espressioni di un ribellismo anarcoide, occasionale, che il risultato o la richiesta di spazi politici o di avvio di un nuovo processo rivoluzionario.
Le ragioni di tanta approssimazione — non revancismo sociale ma puri fenomeni di jacquerie — sono spiegabili con le condizioni stesse del contadino: ignoranza, analfabetismo, emarginazione, sfruttamento.
L’ambiente in cui vive, una struttura statico-arcaica, presenta un’economia estensiva e di sussistenza, gravi problemi di occupazione e di sottosviluppo, acute tensioni sociali, uno squilibrio tra popolazione e risorse.
L’insufficienza dei crediti, la mancata capitalizzazione del lavoro, l’assenza di economia di mercato e il persistere del latifondismo (alle vecchie baronie si sono sostituite la media e la piccola borghesia) mantengono le categorie dei contadini “in uno stato di sudditanza, di miseria e di precarietà” (2).
L’esclusiva attività cerealicolo-pastorale (“legge d'inerzia”, secondo la definizione del Sereni), tramandata da padre in figlio, non soddisfa ormai da tempo le necessità della famiglia rurale (3).
Le zone interne, infatti, hanno “un’agricoltura tradizionale, con un entroterra collinare e montuoso dalle scarse vocazioni colturali, povero e male attrezzato” (4).
Ad accrescere le condizioni di miseria c’è l’habitat; masserie disperse nelle contrade, prive di conforts e di servizi igienico-sanitari, assicurano un sistema di vita pari a quello delle bestie, con cui la famiglia del contadino divide il ricovero ed il sonno.

2)   Carmelo Formica, Lo spazio rurale nel Mezzogiorno, Edizioni Scientifiche Ita­liane, Napoli, 1976.

3)   Già nel secolo scorso furono elaborati studi per rendere produttiva l'agricoltura irpina:
"Sui provvedimenti intesi a rimuovere efficacemente e rapidamente il migliora­mento delle condizioni agricole della Provincia”—Relazione del prof. Pasquale Preda, Tipo-Litografia E. Pergola, 1896. Dello stesso periodo è lo studio del prof. Succi della Scuola Enologica di Avellino. Per capire la capacità produttiva è sufficiente citare un detto di Conza: “Chi la vole purtà la nov’ a mamma! / Nu tummelo summenate: trènda gregne” Trad.:
Chi vorrà (avrà il coraggio di) portare la notizia a mamma: con un tomolo (di grano) seminato (abbiamo raccolto) trenta covoni! da F. Giorgio, L'Arco della terra (Tradizioni irpine) Edigrafital, Teramo, 1980. pag. 72.

4)   N. Marrone, il Movimento contadino in Campania, op. cit., pag. 173.


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Parimenti drammatico si rivela il problema dell’alimentazione (5).
Le legittime aspirazioni popolari (laddove esistono), di modificare lo “status” di sopravvivenza, si disperdono, invece, in fermenti frammisti di disorganizzazione e di violenza.
Gli episodi di lotta del 43-44 e degli anni successivi “non esprimevano, dunque, una capacità di autogestione da parte del ceto contadino o di una sua partecipazione più attiva, nell’immediato, alla gestione del potere” (6).
Ed ancora “se la protesta contadina prendeva le mosse dalla rabbia dei cafoni contro l’assetto economico e di potere vigente, lo faceva, però, a partire da un tessuto produttivo e da una struttura sociale in cui erano scarsissimi gli elementi di socializzazione”(7).
L’occupazione delle terre o le marce della fame, come qualcuno le ha definite, hanno il merito, comunque, di favorire la realizzazione della riforma agraria, da cui la provincia di Avellino viene pun­tualmente esclusa; nelle sue aree continua a sopravvivere una forma tipica di latifondo contadino. Ma il movimento contadino non s’arrende: continua la sua azione lesa al riconoscimento dell'inclusione dell’ Irpinia fra i beneficiari della riforma agraria.
“Per circa tre anni — rileva Cocozzello — i contadini irpini lottarono per l’estensione della legge”.
L’aspra polemica tra i sostenitori e gli avversari di tale provvedimento non riesce a dare l’intervento riformatore capace di creare “riqualificazione e sviluppo dell’agricoltura, un livello di assistenza tecnica e creditizia adeguato ai problemi posti dalle caratteristiche del suolo e sostenute da una politica che configurasse un rapporto dinamico con le zone, ben diverso dall’assistenzialismo che, negli anni avvenire, doveva caratterizzare l’intervento statale nelle are agricole più povere del Mezzogiorno” (8).
La provincia diviene, più tardi, beneficiarla della riforma agraria e dell’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno;  quest'ultima
avrebbe dovuto permettere il  superamento dei  “frammentari e d insufficienti

5)   Pur con inflessioni dialettali diverse, i mietitori di Teora, Conza e Nusco denun­ciano, con un canto bonario, la loro fame: "Mieti, fauci mia cu na cipolla / ma forza nu 'nginnè a ru garamellu" (versione di Nusco) Trad.: Mieti, falce mia, con una cipolla ma forza non ce n'è al polso.

6)   Ivi, pag. 128

7)   Ivi, pag. 127.

8)   N. Marrone, cip. cit., pag. 147.


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interventi statali”, ma non raggiunge i risultati propostisi, rivelandosi, quasi sempre, scollata e scoordinata nelle decisioni.
La valorizzazione di quest'area depressa, non a torto definita Mezzogiorno del Mezzogiorno (9), resta una questione tormentata ed aperta, perché sono sopravvenuti altri problemi.
La sicurezza di migliorare le proprie condizioni, attraverso la formazione di piccole proprietà, si rivela illusoria; l’esplosione eco­nomica dell’Italia centro-settentrionale, negli anni 50-60, procura il definitivo sfaldamento della famiglia contadina. Inizia il flusso migratorio: il “piatto di lenticchie” non soddisfa più le mense.
La flessione del numero degli abitanti diviene incontrollabile. Ad essa va connessa tutta una serie di problemi psico-sociali:
smembramento del tessuto familiare, mancato processo di identificazione dei bambini nel padre, il doppio ruolo della madre. Non resta che l'amara constatazione di vedere i paesi “assumere irrimediabilmente l’aspetto di squallide lande in cui la miseria e la desolazione”(10) dominano incontrastate.
Comincia il processo di degradazione dell’agricoltura irpina.
“Negli anni dal 50 al 60 la produzione avrebbe registrato forti contrazioni in tutti i settori: la produzione delle castagne doveva diminuire della metà; il numero dei capi bovini di oltre il 10%, quello degli ovini e caprini 50%, la produzione di legna da ardere del 60%, 1/4 di quella del 50, legname da lavoro a poco più di 2/3.
Di pari passo con l’impoverimento dell'agricoltura sarebbe proceduto l’esodo agricolo” (11).
“La terra ai contadini” diventa un vecchio ed usurato slogan. Le vecchie forme di servitù sono solo un ricordo; nonostante l’affrancazione e la liquidazione dei censi (Mirabella, Nusco, S. Angelo dei Lombardi ed Ariano sono gli ultimi capisaldi di protervia capitolare a cedere) il contadino deve emigrare. La gente rurale e soprattutto i giovani, venuti a contatto con nuove forme di economia e con tenori di vita più alti, propri della città, abbandonano in massa la terra.

9)   I. Talia, // Mezzogiorno del Mezzogiorno, in "Rassegna Economica, 1969 pp. 1417-1427.                                                   

10) E. Manganelli, Basta con le due  Italie!, Tip. Battista, Avellino, 1981, pag. 200.

11) N. Marrone, op. cit., pag. 147.


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“Gli effetti demografici salienti dell’emigrazione si riferiscono, oltre che alla diminuzione della popolazione nelle zone di fuga, alle variazioni nella composizione del sesso e d’età e tra attivi e inattivi della popolazione che resta. L’emigrazione com’è noto interessando soprattutto le unità attive, di sesso maschile e di età giovane, tende a modificare la struttura demografica della popolazione nei comuni di origine e, in particolare ad aumentare il peso percentuale degli inattivi, delle donne e degli anziani” (12).
In questa fuga dalla miseria, la provincia di Avellino, nel ventennio 51-71, vede emigrare 181.318 unità, pari a quasi la metà della popolazione residente negli anni 80.
Le conseguenze economico-sociali conducono tutte ad una sola nuova realtà: non più contadini!
L’esodo agricolo ha cifre da capogiro.
In Irpinia la flessione complessiva è di circa il 65% “con valori che in sette comuni (Sirignano, Rocca Bascerana, Pietrastornina, S. Angelo a Scala, S. Michele di Serino, S. Mango sul Calore, Nusco) superano finanche 1’80%, evidenziando in maniera eclatante il grave stato di disagio della popolazione locale, che è stata tra le prime ad alimentare i massicci flussi emigratori del dopoguerra dal Mezzogiorno” (13).
Le destinazioni sono le più disparate.
L’esodo agricolo — secondo Marselli — diventa un’esigenza imprescindibile per garantire un equilibrato sviluppo economico e sociale, ma esso deve confrontarsi con un punto ottimale obbligato, per evitare che diventi patologico (14).
Ma l’esodo ha avuto, forme incontrollate ed emorragiche, tanto da creare le nuove figure del contadino e della sua utilizzazione del suolo.

12) S. Cafiero, Le migrazioni meridionali, Roma, SVIMEZ, 1964.

13) E. Vuotto, L'esodo dai comuni irpini, in Cronache Meridionali, 1960, n. 9, pp. 575-581.

14) G.A. Marselli, La civiltà contadina e la trasformazione delle campagne, Loescher, Torino, 1973, pag. 32.
Il Barberis, invece, rifiuta la distinzione usuale di esodo fisiologico e patologico, soffermandosi su una considerazione, prettamente, sociale. “Sia l’esodo un fenomeno necessario perché connaturato al profondo destino dell’uomo, che libera dalle espressioni più brute della fatica, rendendolo disponibile per attività superiori: cadrà allora quella particolare tipologia dell’esodo, invalsa nell’uso corrente con la distinzione tra esodo patologico e fisiologico...” Cfr., C. Barberis, Sociologia rurale, Bologna, Edizione Agricole, 1965, pag. 71.


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La fuga, risoltasi per taluni come definitivo distacco dalla terra (esodo rurale), per altri, invece, ha significato soltanto una riduzione del potenziale lavorativo, ridotto a donne e vecchi.
Quest’ultimi i residui della famiglia, “i resti impotenti” di una popolazione già pensionata, continuano la gestione di piccole aziende agricole.
Tutto ciò, mancando i ricambi e soprattutto le energie più giovani, concorre a mantenere intatte le forme produttive tradizionali, che si rivelano poco redditizie “per la penuria e la debolezza — proprie — delle forze disponibili” (15).
Perdurando questa condizione, ben si capisce l’affermazione tormentata di Formica (16): “troppe sono ormai le famiglie contadine senza giovani”; un altro aspetto da sottolineare interessa la femminilizzazione dell’agricoltura, con i relativi problemi di sottoccupazione in alcune zone e con “un abbassamento del livello di produzione e di reddito” in altre.
In tale abbandono, la sospirata crescita economico-sociale trova enormi difficoltà per il decollo. Tra l’altro, c’è da imputare che le tardive scelte industriali, la mancanza di movimento sindacale ed associativo, la scarsezza di iniziative capitalistiche, che hanno privilegiato le zone costiere della Campania, conservano intatte, in Irpinia, la persistenza di tre zone:

1) zona di relativa floridità

2) zona medio sviluppo

3) zona depressa

Tutto questo contribuisce a mantenere alto l’indice migratorio e a favorire la graduale lacerazione della popolazione, creando un sottoproletariato inquieto, diffidente e qualunquista.
I recenti sfoltimenti industriali, l’individuazione di zone di rapida trasformazione o “poli di sviluppo”, i progetti speciali e l’intelligente programma per la meridionalizzazione delle forze di lavoro portano i primi benefici influssi, migliorando le condizioni di vita.
Tuttavia, la richiesta del 1980 fa capire quale sia la domanda di lavoro. “In Irpinia gli iscritti nelle liste di collocamento al 31 ottobre 80 — quindi prima dell’evento sismico — sono 19.309, rispetto ai 18.439 del 31 dicembre 79...
Ma tali cifre non rendono l'esatta dimensione della situazione occupazionale della nostra provincia.

15) M. Rossi Doria — C. Cupo, Direttrici dello sviluppo economico della Lucania, Bari, Laterza, 1965, pag. 13.

16) C. Formica, Lo spazio rurale nel Mezzogiorno, op. cit., pp. 65-73.


7

L’arresto di numerose attività produttive e la drastica riduzione di altre coinvolge un numero di lavoratori che si aggira intorno a 4.000” (17).
L’offerta nonostante l’aumento dei posti di lavoro, soprattutto nel settore edile (installazione prefabbricati e riattazione, con la formazione di varie cooperative) registra un consistente indice di disoccupazione.
Tra le contraddizioni del mercato di lavoro, legate proprio alla sottoccupazione e alla disoccupazione, l’ Irpinia subisce, in maniera violenta, il fenomeno del caporalato.
Numerosi contadini (in prevalenza donne) vengono reclutati e trasportati, nei vari periodi stagionali, nella piana di Battipaglia, evidenziando un macroscopico controsenso: la scelta privilegiata delle pianure costiere e delle colline litoranee a scapito dell’abbandono dei propri campi.
Il prevalere degli interessi privati, l’abuso politico, le discriminazioni clientelari contribuiscono, poi, a creare “nella popolazione sentimenti acuti di frustrazione e scontenti, acuiti dalla maggiore consapevolezza dei propri diritti” (18).
Rimane la vergogna, divenuta costume, di un’ Irpinia continuamente assistita, compromessa ed umiliata dal sottogoverno. Ma l’assistenza non è sviluppo!
Questa terra inquieta, ricca di energie morali, non vinta, non rassegnata, deve ancora, e lo vuole senza ipocrisia, costruire il suo avvenire secondo la cosciente dignità umana che ha reso l'uomo protagonista del suo destino (19).
In questa tensione, espressa da un’instabilità economico-socio-demografica, (vuoi l’espulsione o l’allontanamento periodico, vuoi l’influenza della cultura urbana (mass media) e i processi di innovazione nel sistema produttivo, vuoi i nuovi insediamenti della popolazione rurale, vuoi la diversa forma di organizzazione della comunità ed i mutamenti interni, vuoi la mancanza di appigli per la nuova qualità della vita), maturano ripetuti conflitti.
La vecchia civiltà contadina ne esce logorata, sconvolta e disgregata, perdendo finanche le immagini e i ricordi delle sue tradizioni e i connotati del suo stesso dialetto.

17) Banca Popolare Irpinia, Esercizio e bilancio, 1980, Arti Grafiche Raffone, 19&1, pag.24.

18) A. Coletti, La questione meridionale, SEI, Torino, 1974, pag. 152.

19) F. Compasso, Mezzogiorno Europeo, Lacaita Editore, 1979, pp. 7-16.

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