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SAGGIO: LA CIVILTA' CONTADINA IN IRPINIA

INDICE

-    Presentazione

-    Premessa

-    Capitolo I
  Quarant’anni di storia: una presenza senza protagonismo

-    Capitolo II                                            

      La famiglia, la grande esclusa

a) il matrimonio

b) il padre

c) la madre

d) i figli

e) tra familismo e solidarietà

-    Capitolo III

    La cultura, un’identità irriconoscibile

a) la lingua

b) proverbi, filastrocche, indovinelli

c) i canti

d) teatro e feste popolari

e) superstizione e religione

f) magia e credenze:

il malocchio;

    credenze e superstizioni.

 

-    Conclusione

-    Obiettivo campagna: una realtà con tanta «luce» - Foto con didascalie (non riportate)

-    Bibliografia

 

                      

 C A P I T O L O  II

 

LA FAMIGLIA

LA GRANDE ESCLUSA

 

 1

Le particolari condizioni dell’ Irpinia meritano attenzioni più incisive e responsabili, tali da focalizzare i vari problemi che ne hanno, nel tempo, rallentato ed ostacolato la crescita.
L’ Irpinia, infatti, si trova ancora oggi in uno stato d’inferiorità e di soggezione; a determinarne l’arretratezza hanno persistito numerosi fattori storici, ambientali, ed economici.
La produzione, nonostante le ipotesi di programmazione e tranne alcuni insediamenti industriali (Pianodardine, Grottaminarda, Solofra) è essenzialmente agricola. A trarre sostentamento da quest’economia ci sono ancora contadini, affittuari marginali e salariati che rappresentano le classi sociali, sparse su una superficie abbastanza estesa ed utilizzata, nella quasi totalità, alla coltivazione del frumento ed occasionalmente ad altri cereali.
La distribuzione delle terre, il tipo d’ereditarietà, la lontananza dei poderi dai centri abitati, la mancanza di rapporto con il vicinato fanno vivere ad ogni famiglia una propria realtà che la tiene lontana dalle basilari funzioni di socializzazione.
La famiglia contadina irpina è nella sua costituzione un raggruppamento di tipo nucleare. Tale specificità e la scarsa presenza della famiglia di tipo esteso sono forse da ricercare nella particolare struttura fondiaria, tra le conseguenze della società capitalistica e nei mutamenti tecnici avuti in agricoltura che possono richiedere un minor bisogno di manodopera.
“Di conseguenza la famiglia estesa sparisce ed è sostituita da famiglie nucleari indipendenti” (1).
Queste ultime, perciò diventano — secondo Silverman — “la norma dell’organizzazione terriera” e sostituiscono l’antica famiglia patriarcale di cui però conservano alcuni residui.
In esse “dominano un modello femminile e un modello maschile per i ruoli futuri dei figli, che nella famiglia devono ricevere la prima impronta del carattere e apprendere le norme del buon vivere” (2).

1)   C. Saraceno, La famiglia nella società contemporanea, Loescher Torino, 1975, pag. 45

2)   A, Massucco Costa / G. Rizzo, 100 anni dopo nella terra di De Sanctis, Edizioni il Dialogo, Tipolitografia Irpina, Lioni, 1976, pag. 200,


2

Pur con la riforma del diritto di famiglia esse mantengono vecchi costumi in un’epoca in cui sono diventate nucleari ed esigono altre forme di convivenza.
La vecchia “corte”, che una volta raccoglieva tutti i membri della famiglia estesa, è stata soppiantata e al suo posto si sono diffusi alloggi contadini unifamiliari.
Tuttavia, in alcune zone agricole, anche se in maniera regressiva si trovano ancora famiglie allargate. Esse risentono della forma originaria quando si presentavano come una comunità che comprendeva almeno tre generazioni sotto lo stesso tetto.
Sembra difficile a questo punto poter individuare nell’attuale famiglia coniugale un’evoluzione di quella patriarcale; infatti, Gideon Sjoberg cita alcuni casi in cui, anche in aree rurali di società industriali, la famiglia è ridotta a gruppi coniugali perché (è la ragione di fondo) “gli appezzamenti di terreno posseduti sono troppo piccoli” (3).
Si può concludere, perciò, che la famiglia ha perso la sua estensione per l’impossibilità materiale di assicurare la sopravvivenza a tutti i suoi componenti.
“Il passaggio della struttura familiare allargata alla struttura nucleare tende a rompere la solidarietà tra più di due generazioni. Sposandosi i figli non accrescono più né integrano la famiglia a cui appartengono, ma formano una nuova famiglia e si distaccano quindi da quella a cui hanno appartenuto dalla nascita e con essa rompono i rapporti almeno sul piano funzionale” (4).
Così la famiglia in preminenza assoluta è quella biologica, costituita da genitori e figli. Ma la riduzione più che di una flessione globale risente di quella dei figli che si mettono al mondo. “È la diminuzione delle nascite (pianificazione della dimensione familiare) più che la diminuzione dei legami di convivenza con i parenti, che incide sul gruppo familiare in quanto convivente sotto lo stesso tetto” (5).

3)   G. Sjoberg in C. Saraceno, La famiglia nella società contemporanea, op. cit., pag. 45.

4)   A. Pizzorno, Comunità e razionalizzazione, Einaudi, Torino, 1960, pag. 187.

5)   C.. Saraceno, La famiglia nella società contemporanea, op. cit., pag. 13.


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Ogni individuo, comunque, pur impegnato a difendere il proprio interesse lo accomuna ai membri della sua famiglia. “Vi è all'origine una base economica del legame: la famiglia è il nucleo della proprietà privata. Ed è, quindi, una base di mutua difesa” (6).
L’orizzonte resta, perciò limitato all’ambiente domestico; ogni azione e affermazione viene fatta e vista in funzione della famiglia, alla quale si dà prestigio e dalla quale si riceve prestigio e protezione.
In questa stratificazione i contadini compongono un gruppo sociale che vede partecipare al lavoro agricolo tutti i componenti, almeno come coadiuvanti.
Questa organizzazione permette la produzione dei beni necessari alla sussistenza; solo che la famiglia non è più l’unità produttiva dell'epoca pre-borghese. Pur conservando i caratteri propri di unità economica fondamentale non riesce ad essere un’impresa autonoma con uguali piani di produzione e di consumo.
Si ritiene che essa non rappresenti più un’unità produttiva, perché produce molto poco tanto da essere considerata soprattutto un’unità di consumo.
La famiglia contadina, infatti, nei livelli capitalistici avanzati — scrive Sereni — è “un centro di consumo e ha come unità produttiva il culto dello spontaneismo”. “Man mano che la famiglia non è più un’unità economica né culturale essa si svuota di contenuti di valore propri diventando più eterodiretta rispetto agli atteggiamenti da trasmettere” (7).
Il livello di guadagno si rivela, perciò, basso, il volume di risparmio insignificante. A tutto ciò si aggiunge l’isolamento, una condizione di vita quasi sempre problematica, che si riflette su tutti i membri e determina “una certa chiusura tradizionale della famiglia coi suoi ideali conservatori e con le sue norme, spesso ancora rigidamente gerarchiche ed autoritarie” (8). La lontananza dalla vita sociale, espressione di frustrazioni, tensioni e rinunce, porta a una contrazione della famiglia, resa ancora più problematica dalla lacerazione prodotta dall’esodo.

6)   C. Cesareo, La contraddizione femminile, Editori Riuniti, Roma, 1977, pag. 40.

7)   F. Bimbi. Mutamenti nei processi di socializzazione: la famiglia, in Mutamento sociale e contraddizioni culturali a cura di S. Acquaviva, Nuove Questioni di Sociologia 4, Editrice La Scuola, 1976 pag. 34.

8)   A. Massucco Costa/O. Rizzo, 100 anni dopo nella terra di De Sanctis, op. cit., pag. 116


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La sicurezza e la difesa, garanzie del passato, crollano di fronte alle conseguenze prodotte dall'emigrazione. Il trauma si ripercuote in maniera grave e violenta sulla famiglia contadina “un tempo autosufficiente, oggi insicura, non informata, non fornita di mezzi di comunicazione con gli assenti, non qualificata per un lavoro che consenta un reale progresso economico e sociale” (9). Le conseguenze toccano i vari membri: l’individuo, fino a pochi anni fa, si realizzava nell'ambito della famiglia; oggi è costretto ad uscire allo scoperto ed appare timoroso ed impreparato per affrontare le nuove responsabilità.
La famiglia, infatti, ha sempre tutelato i propri membri, nel bene e nel male: “meriti e demeriti, tare fisiche e deviazioni morali non appartengono a chi ne è il diretto portatore, ma saranno per sempre parte integrante del ruolo e del destino familiare” (10).
Ma la funzione di difesa, la sacralità, l’invidiabile struttura e la secolare resistenza, esposte alle insidie esterne, rischiano di farle perdere la vecchia identità di “cellula sociale”. Ogni membro appare frastornato e indifeso, avendo vissuto tutti i suoi rapporti nella sfera del nucleo, perché gli “ideali e le espressioni del suo mondo motivazionale sono (stati) dominati e pervasi dal senso della famiglia”(10). La vita chiusa nell’ambito domestico, pervasa da una cultura del pregiudizio, dello scetticismo e dell’onore, ha trovato finora le massime realizzazioni nello svolgimento del ruolo e nel rispetto per la gerarchia.
Risulta perciò che “il modello di famiglia negli strati subalterni è segregante per gli individui, tra loro gerarchicamente ordinati ed economicamente controllati” (12).
La vita familiare si è sempre realizzata nei rispettivi ruoli che ogni elemento è stato chiamato ad assolvere: un buon padre, una buona madre, un buon figliuolo.
Essa risente ancor oggi di un comportamento e di un carico di responsabilità prestabiliti.
Spetta al padre dirigere e correggere; alla madre suggerire; ai figli ubbidire.

9)   A. Massucco Costa/G. Rizzo, op. cit.

10) C. Sciortino Gugino, Coscienza collettiva e giudizio individuale nella cultura contadina, Palermo, 1960, pag. 38.

11) C. Calò, Famiglia ed educazione oggi in Italia, Laterza, Bari 1964, pag. 129.

12) F. Bimbi, op. cit., pag. 33.


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Anzi “la funzione riproduttiva della famiglia condiziona fin dall’inizio lo strutturarsi dei ruoli familiari” (13). Il vincolo al ruolo necessario per tutti è tassativo per la donna: madre, sposa e ragazza.
Ma la famiglia con il suo cieco attaccamento alla proprietà territoriale resta un sogno perduto. Non avendo potuto difendere i suoi valori e le sue istituzioni, subisce i continui attacchi della presente civiltà. I mutamenti sociali e le contraddizioni culturali ne hanno incrinato la stabilità e la struttura. Essa non ha potuto né saputo opporre resistenza alle trasformazioni e alle pressioni della società capitalistica che sta “distruggendo l’antico tessuto senza ricostruire peraltro un tessuto sociale a sostegno dell’individuo” (14).
Le possibilità di ricomposizione sono scarse per l’aggravarsi di situazioni economiche e sociali: polverizzazione fondiaria, distribuzione anomala della terra, ristrettezza economica e soprattutto il disgregante fenomeno dell’emigrazione.
La possibilità di un maggior guadagno, per richieste di lavoro provenienti da zone economicamente più sviluppate, porta i membri ad allontanarsi dal proprio nucleo.
Il fenomeno ha assunto vaste proporzioni, tanto da coinvolgere tutti, senza distinzione di sesso e di età.
Tale scelta è avvertita in particolar modo tra i giovani: “ormai — scrive Calò — tutta la nostra gioventù è in stato di emigrazione”.
Quest’ultima comporta problemi di disorganizzazione e di dissociazione e soprattutto carenze psicologiche “di valori affettivi semplici, primari”, patrimonio questo proprio di popolazione legata alla famiglia e alla terra. Assistiamo, pertanto a una graduale lacerazione del sistema educativo: da una parte i giovani cresciuti “in un contesto di disgregazione della famiglia rurale progressivamente erosa dai processi di autonomia” (15) costretti a far fortuna altrove; dall’altra, gli anziani, le donne e i ragazzi, rimasti a casa.
Ma “l’autorità dei vecchi capofamiglia risulta compromessa perché essi non rappresentano più né il sostegno  economico,  né  il  riferimento  dei valori della  famiglia” (16)  che  risulta  modificata  nelle  sue 

13) C. Saraceno La famiglia nella società contemporanea, op. cit., pag. 135.

14) A. Ardigò, La stratificazione sociale, Ed. Patron, 1970.

15) F. Bimbi, Mutamenti nei processi di socializzazione: la famiglia, in Nuove questioni di Sociologia n. 4, Editrice la Scuola, Brescia, 1976, pag. 40.

16) Ivi, pag. 38


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strutture; si avvertono, con gravi ripercussioni, disturbi affettivi, squilibri educativi, mancanza di esperienza. I pochi modelli non sacrificati si rivelano insufficienti ad evitare o a limitare le conseguenze di una crisi, che appare sempre più complessa.
La famiglia rurale è quindi una “variabile indipendente” nei confronti della società; ancora chiusa alle grosse influenze esterne, è condizionata nei suoi comportamenti e nelle sue funzioni dai mutamenti economici e sociali.
Il suo lento cedimento e il suo scetticismo, fatti di aperture sof­ferte e titubanti, stanno a significare il difficile adattamento alle nuove realtà civili, che chiedono grossi e continui sacrifici per rompere la “antica catena di povertà”.

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Il matrimonio

 

Il matrimonio nella società rurale irpina si rivela una solida e basilare istituzione.
I contadini, legati al proprio mondo culturale, sono restii a cedere alle trasformazioni sociali che possono modificare la struttura del tessuto familiare; la dimostrazione è data dai referendum del 74 e dell’ 81; i fronti antidivorzista ed antiabortista hanno trovato un valido punto di sostegno nell’educazione conservatrice della famiglia.
“La concezione del matrimonio ha sempre risposto a precise strutture economiche. All’epoca della famiglia patriarcale, ad esempio, il matrimonio serviva innanzitutto a rafforzare ed allargare l’azienda familiare oltre che a perpetuare la discendenza e quindi ad assicurare gli eredi al patrimonio domestico. Essendo il ‘bene’ familiare lo scopo supremo, di questo si teneva conto anzitutto: erano i capofamiglia, infatti, a concludere i matrimoni dei figli, in base a calcoli nei quali la vocazione dei promessi sposi aveva un posto minore, e, a volte, non rappresentava nemmeno il punto di partenza” (15).
Il tempo non ha procurato grossi cambiamenti; la famiglia è rimasta la base preliminare per tramandare se stessi, la propria opera, la propria esperienza.
Il matrimonio spesso si è basato sulla fecondità e sull’interesse ed ha poco concesso all’amore, considerato più un aspetto secondario.
Uno dei suoi significati precipui, suscettibile oggi di interpretazioni meno restrittive, resta quello dei figli.
Le indicazioni emerse permettono di capire il significato e l’importanza di contrarlo, decisione che si rivela uno dei momenti più critici e delicati della stessa esistenza familiare.

17) C. Cesareo, La contraddizione femminile, op. cit., pag. 158.


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In Irpinia non manca l'intervento autoritario e drastico dei genitori, perché spetta loro mettere il figlio in condizioni di sposarsi. Ciò vale soprattutto per la donna.
“Il controllo economico ricorda alla giovane donna il tipo di lavoro che in realtà l’aspetta e il matrimonio risulta perciò in modo contraddittorio il prevalente momento di emancipazione della donna dalla famiglia paterna ed assieme la definitiva assunzione del suo principale ruolo lavorativo” (18).
Se la donna viene educata a vedere nella famiglia il suo principale riferimento e quindi a mettere da parte ogni altra aspirazione e a sposarsi, il figlio,invece, viene sorretto e incitato a migliorarsi.
Un buon matrimonio è la massima aspirazione di ogni famiglia: “se ne fa una questione di prestigio, di interesse, di parentela, di campanilismo, e basta un nonnulla perché una delle famiglie si opponga, subito imitata dall’altra per senso di dignità. Se poi i due innamorati si ostinano, per dissuaderli non si esita a passare alla maniera forte...”(19). Accade, però, che spesso i figli se ne scappano e si sposano.
La varietà delle situazioni fa capire in quale considerazione è tenuto; esso resta perciò la pietra angolare della famiglia.
In una vita avara di soddisfazioni e ricca di sacrifici rappresen­ta tutto, perché “in un mondo che non gli risparmia certo le occasioni di umiliazione, la conquista della donna e il suo possesso sono sovente per l’uomo la sola attività in cui possa affermarsi la sua volontà di potenza e di dominio” (20).
Un’altra dimostrazione è offerta dalla preparazione della cerimonia e dalla sua celebrazione: la famiglia, anche la più povera, dà fondo a tutte le sue sostanze per ben figurare.
In molti matrimoni l’interesse economico esercita ancora il suo peso: solo chi possiede rappresenta un buon partito e va incoraggiato.
Abbiamo casi di fidanzamenti rotti perché uno dei due giovani è proprietario di poca terra e di pochi animali da pascolo.
I giovani vivono il loro fidanzamento in funzione della cerimonia; essa significa tutto, in modo particolare per  la  donna  che  è  stata  educata  a  considerare  la  conquista dell’uomo  e  il  matrimonio come  la 

18) F. Bimbi, op. cit., pag. 36.

19) L. Volpicelli, La famiglia in Italia, Armando Armando Editori, Roma, 1964, PG. 64.

20) Ivi, pag. 60.


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realizzazione della propria sorte.
“...Le donne che devono produrre e riprodurre socialmente gli individui, avranno il loro principale ‘mercato del lavoro’ nel matrimonio, indipendentemente dal grado di scolarizzazione e dal tipo di lavoro extra-domestico” (21).
Il fidanzamento non è fatto di comportamenti e di incontri arbitrari.
Dopo la presentazione in casa, che serve a misurare le buone intenzioni del futuro marito e a dare ufficialità al fidanzamento, i rapporti vengono regolati dai genitori della ragazza. Alla madre di quest’ultima spetta il compito di controllarli e di non lasciarli mai soli.
Dal momento che la donna è fidanzata o meglio è impegnata, la sua vita viene regolata dal fidanzato: amicizie, vestiti, comportamenti, impegni professionali.
È convincimento comune che la propria fidanzata non è una donna come le altre. Essa accetta questa norma e, di fronte ai desideri e agli ammonimenti ricevuti, rinuncia agli impulsi di autonomia e ritorna nelle condizioni della vecchia subordinazione.
La fiducia diventa assoluta: “l’opinione del futuro marito, per quanto ingiustificata, ha sempre per la ragazza un peso maggiore di quello (dei suoi stessi) genitori, per quanto ragionevole” (22).
Le donne portano nella nuova casa il corredo (biancheria ed utensili) che comincia ad essere preparato fin dall’adolescenza.
Tale iniziativa ha certamente ragioni economiche: la spesa trattandosi di più compere, viene dilazionata negli anni. Inoltre serve ad abituare, sin dalla giovane età, la ragazza al suo immutabile ruolo di moglie e di madre. Anzi non si può escludere che la preparazione del corredo eserciti una funzione di indiretto controllo della morale sessuale.
Il matrimonio diventa così l’unica aspirazione femminile, la giusta strada da cui non ci si dovrà allontanare. Ma tale inevitabilità rappresenta un avvenimento assolutamente esterno ed indipendente dalla volontà della donna.
Forte di questa convinzione la ragazza accetterà perfino il matrimonio combinato.
L’idea che esso rappresenti la necessaria ed unica liberazione trova sostegno nella cultura tradizionale; infatti si sono creati “nelle  abitudini mentali due mondi,  due  criteri di  valutazione,   il mondo del  lavoro

21) F. Bimbi, op. cit., pag. 31.

22) G. Cesareo, op. cit., pag. 165.


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extra-domestico, umiliante e disonorevole per la donna, e la casa mondo del riscatto e della riabilitazione femminile” (23). La sistemazione della donna diventa, perciò, una grossa preoccupazione per tutti coloro che ne hanno. Il loro matrimonio è un sollievo per ogni famiglia, che vede così mantenuto il suo prestigio sociale.
Durante la crescita e prima che i figli siano in età di sposarsi la famiglia contadina si comporta in modo rigido e repressivo. I figli sono responsabili nei confronti dei genitori di qualsiasi loro azione: ad essi subordinano la loro volontà e i loro salari.
Ma con il matrimonio cessa ogni legame di subordinazione; l'uomo provvede alla nuova casa e all'acquisto del mobilio. (Ultimamente questa spesa viene ripartita tra le rispettive famiglie). C’è da rilevare che, quasi sempre, quello che viene dato al primo figlio viene dato nella stessa misura a tutti gli altri.
Il matrimonio nella società attuale è variamente concepito: a quello imposto per interesse si aggiunge quello di convenienza voluto dagli stessi contraenti. Le ragazze di campagna infatti rifiutano di sposare un contadino, "ma aspirerebbero a sposare un operaio; questo abbandono non è volontario, ma trova la sua esistenza nella situazione d'inferiorità sociale ed economica e nella precarietà del reddito" (24).
Il matrimonio, a questo punto, diventa uno strumento d’urbanizzazione e quindi l’occasione necessaria per migliorare la propria condizione sociale.
I contadini irpini si sposano in età assai giovane: la differenza d’età tra l’uomo e la donna è quasi sempre minima.
Capita, tuttavia, ma con scarsa rilevanza rispetto al passato, il matrimonio preceduto dalla “scappatella” o “dal fatto compiuto”.
In questa scelta giocano ruoli preminenti l’imprudenza, gli ostacoli familiari, un irresponsabile concetto della base economica.
Nel matrimonio ancora oggi non manca l’onore familiare che è esclusivamente basato sulla verginità della ragazza. La mascolinità viene affermata, e talvolta in modo violento, attraverso la protezione della propria donna.

23) G. Giarrizzo, Mezzogiorno e civiltà contadina, op. cit., pag. 341.

24) A. De Feo, La donna nell'impresa contadina, Editori Riuniti, Roma, 1964, pag. 36.


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La famiglia rurale irpina, non ancora padrona del nuovo diritto di famiglia, aspira ad emulare gli ideali civili ed urbani della città e si scontra con la vecchia contraddizione risorse-bisogni.
Nella presente vita sociale conserva una forma di difesa, ma non riesce a recuperare gli schemi ideologici della vecchia struttura del focolare domestico.

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11

 

Il padre

 

La famiglia contadina ha sempre ricevuto la sua vera caratterizzazione dalla direzione e dall’autorità paterna.
La decisione, gli interventi la conduzione del ménage familiare sono sempre state prerogative maschili.
“Il padre mantiene un solido e riconosciuto potere sulle sorti di ciascuno dei membri della famiglia, un’autorità indiscussa su tutto l’andamento della casa, l’arbitrio pressoché incontrastabile di decisione” (25). Nella nuova realtà l’assenza di questa figura, vittima di condizioni economiche e sociali espulsive, ha fatto perdere molto delle sue funzionalità e del suo prestigio.
Il padre, infatti, non segue più da vicino le sorti familiari, non ne dirige i processi educativi e sociali ed è diventato un membro marginale e di poca considerazione.
Il vecchio ruolo di padre-padrone, che ha dato tante immagini letterarie, tende a scomparire, non perché sia stato sostituito da nuovi modelli ma perché come presenza fisica è scomparso.
La legittimazione sociale dell’autorità familiare, impersonata dal padre, comincia perciò ad indebolirsi.
Si sono verificati — scrive Bimbi — un rallentamento dei rapporti autorità familiare paterna-subordinazione domestica della donna e un’involuzione del rapporto autorità-ruoli di trasmissione e ricezione dei medesimi.
Laddove, invece, il potere-autorità del marito padre sopravvive si avvertono segni di indecisione, di mutamento e di crisi.
Da una parte il contadino tende a rivendicare il diritto di capofamiglia e di massimo responsabile del suo nucleo, dall’altra avverte l’insicurezza del controllo, l’incertezza della produzione che non gli concede più quella sicurezza economica, che gli ha permesso l’autonomia e l’indipendenza dagli altri gruppi.

25) L. Volpicelli, op. cit., pag. 7.


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“Il controllo economico attraverso il reddito del capofamiglia sostiene l’unità familiare, ma esso pure ha la sua contraddizione nella socializzazione dei figli, di principio e di fatto, in funzione di una maggiore indipendenza dei legami familiari, che ha anch’essa reso possibile la minore incidenza dell’autorità paterna” (26).
Tuttavia nella presente struttura familiare la sua figura conserva un aspetto elettivo con obblighi di rispetto e di attenzioni.
“Infatti l’autorità del padre riflette il potere sociale, ciò gli deriva dalla società che lo legittima a richiedere il lavoro della moglie e la conformità di questa e dei figli ai loro ruoli familiari e sociali, in quanto il reddito del suo lavoro rappresenta il fondamentale sostegno economico della famiglia” (27).
Il contadino risponde ancora in prima persona della funzionalità familiare: è il primo a recarsi nei campi, e l’ultimo a rientrare; è lui che sovrintende i lavori; la sua autorità decide finanche l’ora di mangiare ed è il primo a doverlo fare. Gli investimenti, gli acquisti sono una sua decisione, per la quale accetta consigli senza voler essere contrariato.
Dai figli esige rispetto ma poco si cura della loro educazione, che viene impartita dalla madre.
Anche nelle attività domestiche il padre lascia molta libertà alla donna, alla quale delega la “gestione e la tutela del rifugio domestico, mentre egli è impegnato nella lotta per assicurare il mantenimento materiale della famiglia” (28).
Esercita invece compressioni e limitazioni per ogni altra attività e comportamento.
La figura paterna è sempre stata il simbolo di autorità, soprattutto nella vecchia economia agricola. Per il Sereni il marito è stato “di fatto non solo il capo incontestabile della famiglia, ma il signore, il padrone della donna”; ha mantenuto lo stesso potere sui figli, su cui ha scaricato le sue tensioni e le sue ansietà.
La donna, educata al rispetto, dimostra, oltre misura, venerazione per l’uomo in sé: “l’ha detto mio marito, ed allora così è”.
Padre e madre si assicurano una protezione reciproca: l’uomo garantisce col lavoro il sostentamento, la donna  tutela  con  il  suo  comportamento l’ onore  familiare.   L’uomo  si  accontenta  di  questo,  pur 

26)  F. Bimbi, op. cit., pag. 35.

27)  Ivi, pag. 31.

28)  G. Cesareo, op. cit., pag. 166.


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continuando ad essere un discriminato, uno sfruttato costretto a vivere in condizioni di arretratezza, di necessità e di insufficienza di mezzi civili.
Tanta miseria non è l’assoggettamento suo e dei figli alla terra, come qualcosa di volontario ma una costrizione. Da ciò sono venute fuori le leggende del suo sottosviluppo: il contadino è avido, povero, incivile, perché attaccato in modo morboso al suo fazzoletto di terra.
“Il contadino è stato di volta in volta considerato gretto e sobrio; sfruttatore del lavoro della propria donna e dei propri figli, o tenace continuatore di antichi e austeri costumi; prudente e sospettoso; previdente o avaro; conservatore o nemico del progresso e di ogni forma di socialità” (29).
Ma tanta limitatezza è legata alle scarse risorse che obbligano la famiglia a dipendere da esigenze sociali che non possono essere soddisfatte e che mettono in crisi tutta la struttura e l’efficienza familiare e finanche il principio autoritario su cui finora la famiglia contadina si è basata.
La vecchia legittimazione del potere e dell’autorità sulla moglie e sui figli non trova più appoggi credibili e imprescindibili.
La trasformazione dell’autorità maschile al suo interno comporta possibilità di ribellione alla famiglia, processi innovativi, crisi dell’autorità familiare stessa (30).
Questo mutamento ha permesso i rimpianti di una certa retorica: “quando manca l’autorità del padre in una casa, la famiglia non esiste più, si sfascia” (31); ma non possiamo disconoscere quanti elementi reali essa contenga e quanta drammaticità possa significare. In effetti la mancanza del padre produce tensioni e insicurezze non facilmente superabili dalla famiglia che per aspirare a diventare un gruppo sociale democratico e moderno deve essere reintegrata in tutti i suoi membri.
Solo allora le divergenze e le differenze di classe saranno meno violente e meno ingiuste, tali da favorire quella necessaria e non più solo auspicabile crescita familiare, che resta sempre una delle necessarie funzioni sociali per un progresso dinamico e alla portata di tutti.

29) De Feo, op. cit., pag. 35.
30) Cfr. in F. Bimbi, op. cit., pag. 34.

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La madre

La figura che segue immediatamente il capofamiglia, per prestigio ed autorità, è quella della madre.
Educata da tempo al ruolo di amministratrice del focolare domestico investe il suo tempo e realizza la sua personalità tra campi, casa e figli.
“Nella famiglia com’è congegnata attualmente la donna non riesce ad affermare la propria personalità (32). Questa condizione subiettiva spiega il senso di inferiorità maggiormente riscontrabile nelle vecchie generazioni: andando o ritornando da una commissione il marito non accompagna la moglie ma le cammina davanti. Tale distanza non inficia le doti di una buona moglie che viene giudicata tale in base alla sua onestà e alla sua abilità di massaia; scrive infatti Gugino che la “misura della reputazione, specie femminile, è la fedeltà ai ruoli familiari”, perché i requisiti della donna ideale sono il rispetto e l’onestà.
Se tiene fede a questi comportamenti “la cui osservanza è necessaria in base alle regole del ‘controllo sociale’” gode di una solida stima.
Si ritiene invece che l’uomo sia più cosciente e meno esposto a sbagliare e perciò deve tenere la donna lontana dai discorsi e dai rapporti sociali. Tale prevenzione, invece, è più un fatto di controllo dell’etica sessuale, perché la cultura contadina non riesce a concepire, né tanto meno può giustificare, che la propria donna si allontani dall’ambito domestico.
Tanta morbosità è connessa alle condizioni di precarietà e di mancate soddisfazioni; la donna, perciò, rappresenta tutto, diventa essa stessa proprietà senza poter essere mai ceduta a costo della sua e della propria vita.
La donna per il contadino irpino “non è spesso nient’altro che un possesso personale, necessario per tante esigenze, ma in se stesso di poco valore.  Ne acquista in qualche misura come generatrice di  figli

31) A. Massucco Costa / G. Rizzo, op. cit., pag. 191.


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e dispensatrice di servizi. È infrequente però che assume la veste di una compagna e di una persona di pari grado (33). Il possesso della donna diventa una vera ossessione, una ‘cosa’ da tutelare a qualsiasi costo, un bene da amministrare.
La protezione o meglio il controllo vengono così esercitati dietro l’usbergo della famiglia.
In essa la donna trova l’unico status possibile, perché “non a caso essa è stata educata ad aspettarsi tutto dal matrimonio. La donna vive di luce riflessa, qualunque mansione esplichi, partecipi o no all’attività produttiva, abbia o no una funzione importante in casa” (34).
La figura femminile è una sorta di reliquia da custodire gelosamente e da utilizzare all’occorrenza.
La sua vita è dominata dal ruolo, che dovrà essere svolto, come moglie e come madre, in casa e in famiglia. Ogni altra attività sarà subordinata a questa che resta la responsabilità principale.
“La subordinazione della donna nella famiglia (e fuori di essa) legata al fatto che il suo lavoro non ha alcun riconoscimento economico e sociale, fa si che essa trasmetta ai figli i valori sociali mediandoli attraverso la legittimazione che essi ricevono dall’autorità paterna” (35).
La madre cura la faccende domestiche, è vicina ai figli, li controlla, li fa mangiare e li indirizza nei lavori della terra.
“Il ruolo materno si esplica direttamente nel lavoro domestico (inteso in senso fisico, psichico, intellettivo) di produzione e riproduzione sociale degli individui che va dalla procreazione dei figli al loro allevamento, fino alla reintegrazione fisica ed affettiva di tutti i familiari” (36).
L’allentamento dei legami gerarchici propri della famiglia tradizionale le concede maggiore autorità e prestigio, con buoni risultati sia nel farsi ascoltare dai figli sia in una certa autonomia di scelta e di decisioni.

32) A. De Feo, La donna nell’impresa contadina, pag. 54.

33) A. Massucco Costa / G. Rizzo, 100 anni dopo nella terra di De Sanctis, op. cit., pp. 202-203.

34) G. Cesareo, La contraddizione femminile, op. cit., pag. 39.

35) F. Bimbi, op. cit., pag. 31.

36) F. Bimbi, op. cit., pp. 30-31.


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In questi ultimi tempi poi la madre ha assunto, in seguito all’esodo migratorio, nuovi compiti che una volta erano divisi tra i vari membri della famiglia.
“È la donna che deve riuscire a fare quadrare il bilancio, che deve supplire ai servizi, che deve essere insieme casalinga e lavoratrice, che deve dare sicurezza all’uomo, e nel contempo, mostrare di essere difesa, che deve, in sintesi, sostituirsi all’intero tessuto familiare dilaniato” (37).
Per mantenere compatta l’unità familiare, la madre è costretta a svolgere diversi compiti.
La donna ridotta a ‘vedova bianca’, in uno stato di semivedovanza, deve ricoprire il ruolo di padre. La figura più debole che doveva essere protetta ad ogni costo è oggi l’elemento che risponde in prima persona della funzionalità della famiglia.
Le varie trasformazioni hanno modificato finanche il lavoro dei campi; quello che un tempo era “maggiormente lavoro di figlie è oggi lavoro di mogli; anzi, dal momento che tutta l’attività agricola ha funzione di supplenza, lavoro di madri. Il sollievo delle giovani (e dei giovani) che partono si traduce nella compressione delle anziane che restano” (38).
Si assiste a una significativa femminilizzazione della forza-lavoro. In agricoltura il tasso ha valori più alti nelle fasce d’età 21-30 e 31-50 anni, le quali sono quelle che hanno pagato il maggiore contributo all’esodo maschile.
In questa condizione il nuovo rapporto tra marito e moglie viene regolato in massima parte dalle lettere. La drammaticità della sua incompiutezza affettiva e coniugale può essere spiegata con il detto ‘carta va e carta viene’.
Le stesse ricorrenze che un tempo riunivano e rinsaldavano i vari elementi della famiglia sono oggi l’occasione per constatare amarezza e solitudine. “Io vedo mamme di famiglia che quando viene Natale, Pasqua, non fanno nemmeno da mangiare, perché dicono che non c’è il marito o il figlio: è un disastro. E quindi per loro altro che feste sono quelle” (39).

37) G. Cesareo, La contraddizione femminile, op. cit., pag. 55.

38) C. Barberis, Sociologia rurale. Edizioni Agricole, Bologna, 1965, pag. 111.

39) A. Massucco Costa / G. Rizzo, 100 anni dopo nella terra di De Sanctis. op. cit., pag.157.


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In questa realtà la madre risulta la persona più provata: alle responsabilità per guidare e amministrare il proprio nucleo si aggiunge il dovere di custodire l’onore familiare, in un ambiente perfido, che la segue, la perseguita e la tiene segregata.
Tanta frustrazione non ne indebolisce la capacità organizzativa ma le concede la forza di continuare e di dirigere.
Anzi oggi viene ad occupare, come lavoratrice e conduttrice d’azienda, un ruolo preminente nell’attività produttiva, proprio perché è stata l’elemento meno coinvolto nel processo migratorio.
Nella nuova responsabilità le donne si rivelano — scrivono Massucco Costa e Rizzo — “maestre in un’economia di sussistenza, avvezze a carichi esorbitanti di lavoro”.
La nuova posizione, non sorretta da un’adeguata scolarità e da un’attiva partecipazione alla vita pubblica e sociale, le mantiene sottoposte “a un triplice sfruttamento in quanto donna, in quanto contadina, in quanto lavoratrice” (40).
Ma la reale condizione femminile e la sua effettiva attività agricola sfuggono a un esame approfondito e lasciano nell’anonimato qualsiasi riconoscimento, persino una gratificazione sul piano umano.
La mancanza o la scarsa attendibilità di esperienze vive o di soggetti attivi danno “descrizioni letterarie che ci parlano di donne contadine che faticano da mane a sera, abbruttite dai lavori più pesanti, che si affaccendano intorno ad ogni sorta di animali, che subiscono invecchiamento precoce” (41).
La poca veridicità di queste osservazioni conferma tuttavia il fatto che, nella famiglia di tipo tradizionale, la donna sposata ha pochi rapporti fuori dalla famiglia, che resta la base elettiva in cui esercitare il ruolo materno: i figli ne sono la funzione reale e la continua identificazione.
Ma la maternità ha subito sensibili modifiche più quantitative che qualitative; ieri “i figli erano un ‘patrimonio’ e la maternità era quindi organica a quel ‘bene domestico’ che era per tutti la suprema finalità” (42); oggi essi non rappresentano più questa certezza e sono sentiti come un peso, come una preoccupazione da limitare.
Infatti “con lo sviluppo della società industriale e l’accentuarsi continuo della separazione dei ruoli, invece, il conflitto si acuisce al  massimo:  la  maternità  diviene sovente  un dramma.   I figli sono un  peso che la 

40) A. De Feo. La donna nell’impresa contadina, op. cit., pag. 37.

41) Ivi, pag. 38.

42) G. Cesareo, La contraddizione femminile, op. cit., pag. 130.


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famiglia coniugale non riesce più a sopportare, e quindi la donna è dominata dal terrore di metterli al mondo, quando le condizioni economiche della famiglia non sono floride” (43).
In questa situazione, non convenientemente informate, alcune usano scarsi mezzi contraccettivi, altre usano certi espedienti: ci sono donne che sono convinte di evitare una nuova gravidanza, allattando per un periodo più lungo il proprio bambino.
Da queste attenzioni trova significato l’espressione delle donne irpine “mi guardo, mi sono guardata”. Ma tanto sacrificio procura l’ultima delusione: la madre si vede privata dei figli e del marito e soffre patetici ma umani problemi di sostegno materiale, di affetto e d’intimità.

43) Ivi, pp. 130-131.

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I figli

L’incubo della morte e dell’estinzione della stirpe è un altro aspetto della civiltà contadina, o meglio della sua cultura del negativo.
In una vita consumata nella continuità di un rapporto fra corpo e terra, sangue e ruolo, la progenie ha rappresentato e rappresenta caratteri di necessario e di eterno.
Con questi legami e con tale convinzione, il contadino ha sempre visto nella figliolanza un semplice evento naturale e non si è mai chiesto il perché della procreazione e della programmazione della famiglia.
La figliolanza è sempre stata per lui un fatto istintivo, una decisione inconscia più che un desiderio calcolato.
Tuttavia, negli ultimi anni, la prolificità ha subito enormi flessioni; tra le ragioni più immediate, a provocare la consistente riduzione, sono state la polverizzazione fondiaria e la scomparsa della famiglia patriarcale.
Capita di rado, perciò, di trovare famiglie con un elevato numero di figli, i quali, nella nuova realtà, non rappresentano più il potenziale lavorativo da utilizzare nei campi.
La più bassa natalità si riscontra “in piccolissimi comuni dove la popolazione è prevalentemente sparsa in confronto a quelli medi; ciò è da attribuire alla maggiore povertà che esiste nel primo tipo di comuni rispetto ai secondi e ai maggiori spostamenti di popolazione” (44).
I contadini si rendono, ormai, conto che pur essendo i figli la manifestazione palese della capacità di accoppiarsi e di generare dei loro genitori, nel residuo economico attuale “essi non possono che presentarsi come un passivo per il nucleo familiare” (45).

44) Calò, Famiglia ed educazione oggi in Italia, op. cit., pag. 41.

45) G. Cesareo, La contraddizione femminile, op. cit., pag. 133.


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Tuttavia il figlio che nasce è visto come un fatto importante e ancora più ben accetto, se maschio.
Il mito della razza è ancora diffuso.
Ci sono esempi di madri che avendo avuto sempre figlie femmine sono state maltrattate dai mariti ed esposte al dileggio della comunità.
Per quanto riguarda la crescita, una volta i bambini venivano fasciati fino all’altezza del torace, per un periodo di sei, sette mesi e venivano allattati per più di un anno.
Le bambine, già in tenera età, vengono educate a stare composte; i maschi sono più vezzeggiati e tollerati.
Quando i figli sono bambini esistono condizioni affettive e “di dipendenza reciproca tra i vari membri, di solidarietà rispetto alla soddisfazione dei bisogni, di convergenza rispetto ai fini” (46).
Già da piccoli vengono utilizzati nelle attività domestiche, nel pascolo di piccoli greggi, nella raccolta dei frutti; anche i ragazzi che vanno a scuola danno il loro contributo.
Per i loro problemi e per chiedere consigli si rivolgono ai genitori; si constata una maggiore confidenza verso la madre.
Questa scelta confidenziale e fiduciosa, si è oggi rivelata un punto obbligato. L’esodo migratorio dei capofamiglia costringe i ragazzi, ridotti a “orfani morali” a rivolgersi unicamente alle loro madri.
(La famiglia riacquista la sua fisionomia e la sua funzionalità una, due volte all’anno!)
I ragazzi, perciò, crescono senza guida patema in un ambiente limitato e femminilizzato; mancano, dunque, del processo di identificazione e crescono sbandati, taluni capotici e rissosi, altri timidi e introversi.
Le ragazze sono inoltre sottoposte a un’azione frenante e reclusoria. “I genitori, le madri in particolare, tendono ancora a limitare d’autorità l’indipendenza delle figlie, piuttosto che a maturarne il senso di responsabilità, tendono a difendere le ragazze dall’ambiente extrafamiliare, piuttosto che ad armarle perché possano affrontarlo meglio” (47).
Le ragazze vivono la loro giovinezza in uno stato se non di privazione almeno di controllo; se sono fidanzate non possono uscire sole di casa, perché rischiano di rompere il fidanzamento ed il matrimonio.

46) L. Balbo, Stato di famiglia — Bisogno privato collettivo, Etas Libri, Milano, 1976, pag.134.

47) G. Cesareo, La contraddizione femminile, op. cit., pag. 164.


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Quest’ultimo rappresenta la loro realizzazione; per le donne l’unico ruolo possibile è quello di madre. Ma le ragazze, oggi, non accettano più queste imposizioni e si ribellano all’autorità e al controllo familiare. “In particolare le giovani non se la sentono più né di vivere in campagna, né di stare sotto l’immancabile disciplina di un capo-famiglia” (48).
L’onore, tuttavia, implica un assiduo controllo che viene esercitato dai genitori e dai fratelli maschi, piccoli e grandi che siano. “Dall’essenza della sorella, nasce nelle società più depresse, il correlato dell’onore dell’individuo e del casato da tenere alto nella sorella-madre, come purezza dell’origine e del sangue e da assicurare, per il futuro della famiglia, nella sorella-fidanzata-e-sposa” (49 ).
Lo stesso comportamento viene adottato dalla sorella nei confronti del fratello; in lui vede l’essenza di “fratello-padre e fratello-figlio: il fratello in cui sono trasferiti l’amore e l’ammirazione della ragazza per il padre, e l’imponderabile della ragazza per il figlio di domani e per la madre che sarà: il fratello da difendere, in ogni caso, e da aiutare e di cui compiacersi” (50).
I giovani avvertono più di tutti le contraddizioni economiche, che gravano sulla stabilità del tessuto familiare, e i rapporti d’autorità a cui sono legati ma che essi rifiutano.
L’affetto e l’emotività, apparenti cardini di stabilità della famiglia contadina, si rivelano, perciò, una copertura formale. I figli non sempre hanno un reale attaccamento verso i genitori, perché spesso sono costretti a scontrarsi con la loro rigidità e con il loro dispotismo.
Il desiderio di libertà e di autonomia li spinge a sposarsi giovani, cosa che consente di lasciare la famiglia d’origine e la formazione di una nuova.
Ma le scarse risorse economiche non permettono di assicurare alla famiglia una vita dignitosa ed obbligano i giovani ad emigrare molto presto; questa decisione è dovuta, secondo Formica, a due cause: in una prevalgono fattori d’espulsione, nell’altra fattori di attrazione.

48)  A. De Feo, La donna nell’impresa contadina, op. cit,, pag. 85.

49)  L. Volpicelli, La famiglia in Italia, op. cit., pag. 92.

50)  Ivi, pag. 93.


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Tra i fattori espulsivi, subiti dal contadino, vanno considerati “il basso livello del reddito e le precarie modalità del suo perseguimento, l’insufficiente assistenza sanitaria, l’elevato grado di faticosità e penosità del lavoro agricolo, la fluida delimitazione ed instabilità dei periodi di tempo libero rispetto a quelli di tempo lavorativo, le inadeguate condizioni dell’abitazione, dei servizi, della rete stradale e in generale delle infrastrutture, l’isolamento rispetto ai centri di vita associativa, la dispersione totale dell’insediamento” (51).
La spinta iniziale, che è stata la fuga dalla miseria e dalla fame, ha assunto via via altre caratterizzazioni, che non ne hanno mutato la fisionomia, per il persistere di problemi economici ed occupazionali nelle zone d’origine.
L’esodo si è ripercosso, in modo rilevante, proprio sull’agricoltura che ha perso gli elementi maschi più attivi e più giovani.
Secondo i dati statistici sono molto pochi i giovani rimasti che esercitano l’attività paterna e che investono capitali nelle aziende agricole.
In base all’andamento dell’occupazione rurale e alle scelte professionali operata dai giovani nel ventennio 1951-71 è stato calcolato che “tra qualche anno l’agricoltura potrebbe trovarsi del tutto priva di mano d’opera inferiore ai 30 anni, soprattutto maschile, poiché esigui appaiono gli elementi nuovi che intraprendono i lavori dei campi rispetto a quelli che l’abbandonano” (52).
Si profila una visione allucinante: le campagne, già, luoghi di solitudine e di depressione rischiano di diventare depositi spettrali d’economia e di uomini, non facilmente riconvertibili.

51) Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale, L’introduzione alla tematica dell’esodo rurale, in “L’esodo rurale o lo spopolamento della montagna nella società contemporanea”, Milano, Vita e pensiero, 1966, pag. 230.

52) C. Barberis, Venti anni di esodo: previsione di occupazione agricola al 1975, in “Riv. Econ. Agr. 1971, fase. I, pag. 18.

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Tra familismo e solidarietà

La crisi stagnante della realtà socio-economica della famiglia rurale irpina è una “vexata quaestio” dalle molteplici interpretazioni.
Il naturale senso di diffidenza e di sfiducia del contadino ha dato, finora, una sua immagine poco comprensibile e poco verosimile, tant’è che non sono stati e non sono pochi coloro che attribuiscono il mancato processo evolutivo alle sue incapacità di adattamento, di accettare le innovazioni e di favorire le aggregazioni.
Ma l’aver assunto una posizione conservatrice non dimostra affatto una colpevolezza specifica e il conseguente rifiuto del progresso. Al contrario, tale comportamento può essere una conseguenza di esperienze contraddittorie e problematiche che hanno ritardato o non permesso il concretizzarsi delle sue aspirazioni.
Non fa meraviglia, pertanto, l’analisi tendenziosa di una certa cultura che scarica sui deboli le responsabilità della loro mancata emancipazione.
Questa concezione restrittiva, poco incline all’obiettività, ha fornito dell’Irpinia e del Sud intero aspetti negativi “di forza subalterna, di cultura paesana, di associazionismo campanilistico e corporativo; o come pericolosa impulsività e inaccettabile iniziativa individualistica, fonte di indisciplina e di disgregazione” (53).
Certamente non si può ignorare come il vivere ai margini della società, in condizione di solitudine e di continuo bisogno, abbia influito sulla mancata partecipazione alla vita pubblica, creando una sorta di scetticismo nei confronti delle istituzioni.
Le richieste avanzate, infatti, non hanno mai avuto riscontri immediati, sicché il contadino è stato costretto a volgere tutte le sue attenzioni sulla famiglia, in seno alla quale ha adempiuto le funzioni fondamentali: la trasmissione dei valori culturali, la funzione di difesa,  la produzione dei beni necessari alla sopravvivenza,

53) A. Massucco Costa — G. Rizzo, Nella terra di Francesco De Sanctis 100 anni do­po, op. cit., pag. 22.


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l’educazione dei figli.
Quest’agire circoscritto ha permesso facili generalizzazioni, per cui il suo mancato decollo sociale è stato ritenuto direttamente proporzionale al suo morboso attaccamento alla famiglia, che rappresenta “la visione globale del mondo”.
Secondo questa teoria, ogni vantaggio materiale viene utilizzato in funzione della crescita familiare, a scapito di quella comunitaria.
A favorire il nascere e il consolidarsi di questo comportamento che Pizzorno critica con asprezza e che definisce “la sindrome del familismo amorale” intervengono vari fattori: la mancanza di rapporti attivi con le classi superiori, l’angoscia esistenziale, la sfiducia nei partiti e la povertà.
Il contadino si troverebbe, quindi, prigioniero degli interessi familiari, continuamente impegnato a perseguire il bene e il prestigio del suo nucleo.
La solidarietà e il bene comune sarebbero, invece, volutamente ignorati.
La famiglia costituirebbe l’ethos assoluto, secondo cui il contadino tende “a massimizzare i vantaggi materiali e immediati del nucleo familiare e a supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo” (54).
Questa visione, così brutale ed esasperata, avvalorerebbe l’esistenza di una subcultura contadina prettamente egoista e asociale, a danno di una presa di coscienza, da tempo tesa a riscattare la soggezione economica, politica e comunitaria.
La mancanza di autosufficienza, espressa soprattutto da un’economia di sussistenza, ha polarizzato l’attenzione e l’impegno della famiglia in un’estrema e salutare difesa.“In una scala di valori che comprende famiglia, comunità, chiesa, scuola, l’apprezzamento della famiglia supera di gran lunga tutti gli altri” (55).
Ma quest’interessamento non può obbligare a credere che la famiglia sia prigioniera di una morale centrata unicamente su se stessa.

54) E.C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, a cura di D. De Masi, II Mulino, Bologna, 1976, pag. 105.

55) C. Sciortino Gugino, Coscienza collettiva e giudizio individuale nella cultura contadina, op. cit., pag. 38.


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Esistono ragioni e cause più motivate che determinano lo stato di precarietà e di approssimazione della sua organizzazione: la miseria, l’emarginazione, la subordinazione di classe (56).
“L’arretratezza, infatti, deriva da cause strutturali più tangibili, storicamente determinate e che traggono le loro origini ben lontano dal profondo Sud, nei centri dai quali il potere tira i fili delle vicende sovraregionali e sovranazionali” (57).
Le conseguenti difficoltà di crescita non hanno saputo tradurre in lotta l’indignazione, limitando la protesta contadina ad assidue lamentele; ma è pur certo che la classe rurale irpina saprà prendere coscienza della propria condizione. Anzi questo processo è già in atto: si contano ovunque, numerose aggregazioni cooperativistiche con invidiabili progetti di produzione e di trasformazione dei prodotti.
Il ritorno alla terra è ancora un bisogno, maggiormente avvertito in quei paesi dove il distacco non riesce ad allentare “i profondi legami parentali e di sentimento verso la casa, rifugio e difesa contro una civiltà e una cultura vissute come sopraffattrici e violente” (58).
La marginalità di certi rilievi è prossima a finire, soppiantata dalla collaborazione e dalla solidarietà, che ha già dato una prima risposta a certi intrighi politici di campanile, che avrebbero preteso un’azione prioritaria nella ricostruzione.
L’acquisizione del concetto che l’unità costruisce e modifica le strutture del vivere sociale è diventata la base ideale per valorizzare e riqualificare la terra.
L’associazionismo, rompendo l’isolamento, sancisce la presenza del contadino nel reale, allontana l’umiliante espulsione, rivaluta il suo lavoro e garantisce un attivo economico di guadagni e di investimenti.
La civiltà irpina resta quella della terra che “deve essere il campo delle sue prime trasformazioni” e del suo riscatto umano e sociale.

56) Si vedano per questo: J. Galtung, // ruolo del familismo amorale, tratto da Members of two Worids, Oslo, Universitet-forlaget, 1971, pp. 55-69; A. Colombis, II familismo amorale visto da un familista, tratto da “Sociologia dell’Organizza­zione;’, 4, 1975, pp. 437-488; J. Davis, Principi morali e arretratezza, tratto da “Comparative Studies in Society and History, 12 (luglio 1970), n. 3 pp. 340-353.

57) D. De Masi in E.C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, op. cit., pp. 20-21.

58) A. Massucco Costa-G. Rizzo, Nella terra di Francesco De Sanctis 100 anni dopo, op. cit., pag. 27.  

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